ORIGINE DEL SISTEMA SOLARE
1. PREMESSE La «cosmogonia», parola che deriva dal greco e
che significa “origine del cosmo”, è in realtà la scienza che indaga
sull’origine del sistema solare; si faceva ricorso in passato all'adozione
del termine nell'etimo che gli è proprio quando si pensava che il Sole e i pianeti che gli girano
intorno rappresentassero tutto l’Universo, ma poi è rimasto in uso. Lo studio
dell’Universo intero, della sua origine e della sua evoluzione, spetta
invece alla «cosmologia», parola anch’essa di origine greca che significa
“discorso sul cosmo”. L’origine
dei pianeti rappresenta un problema fondamentale per l’astronomia, forse il più
centrale, in quanto include anche il pianeta abitato dall’uomo. Secondo il
racconto biblico la Terra, il Sole, la Luna e le stelle, cioè in pratica
l’Universo intero, furono creati tutti insieme con un atto unico e questo modello
indubbiamente influenzò il pensiero dei primi scienziati che tentarono di
spiegare l’origine del sistema solare come prodotto di un singolo processo.
Nella stessa Bibbia si racconta però anche di eventi grandiosi come il Diluvio
Universale e di violente catastrofi che si abbatterono sulla Terra, e anche
queste narrazioni influenzarono il pensiero di alcuni scienziati che
immaginarono l’origine della Terra e degli altri corpi del sistema solare come
il risultato di un’immane catastrofe. Dopo
che la rivoluzione copernicana spostò la Terra dal centro dell’Universo, dove
era stata posta dagli antichi filosofi greci, in una zona periferica e dopo che
le osservazioni di Galilei e i calcoli di Keplero confermarono il nuovo modello
di Universo, Newton, con le sue leggi, fu in grado di interpretare in modo
corretto il moto dei pianeti intorno al Sole. Si iniziò allora a distinguere il
sistema solare dagli altri corpi celesti e fu possibile analizzare razionalmente
il problema della sua origine distinta da quella della totalità
dell’Universo. Tutte
le teorie sull’origine del sistema solare, proposte fino a oggi, possono
essere raggruppate in due grandi categorie: “evoluzionistiche”
e “catastrofistiche”. Del
primo gruppo, detto anche delle “teorie monistiche” perché immaginano che
tutto nasca più o meno simultaneamente da un unico ammasso preesistente, fu
caposcuola il filosofo e matematico francese René Descartes (italianizzato in
Cartesio) il quale, nel 1644, avanzò l’idea della nebulosa-madre, ossia
propose che il sistema solare completo in tutte le sue parti avesse avuto origine
da una tenue nube di polvere e gas. Anche le più recenti teorie sull’origine
del sistema solare, come vedremo meglio, presentano molte somiglianze nel loro
aspetto generale con lo schema proposto da Cartesio e se fosse vera una teoria
di questo tipo, la maggior parte delle stelle, se non tutte, avrebbero intorno a
sé dei sistemi planetari e la nostra Galassia (detta anche Via Lattea) sarebbe
piena di pianeti molti dei quali forniti delle stesse caratteristiche della Terra.
Inoltre tutti i corpi presenti in un sistema solare nato nel modo che si è
detto dovrebbero avere più o meno la stessa età. Del
secondo gruppo, o delle “teorie dualistiche”, perché prevede
l’origine del sistema solare in seguito all’incontro di due corpi distinti,
fu precursore il naturalista francese Georges Louis Leclerc Buffon (1707-1788)
il quale aveva sostenuto, nel 1745, che la Terra e gli altri pianeti si
sarebbero formati da materia uscita dal Sole in seguito ad una catastrofica
collisione di questa stella con un corpo celeste che egli ingenuamente pensò
potesse essere una cometa. Quando fu chiaro che le comete erano oggetti molto
piccoli e leggeri, si formulò l’ipotesi di uno scontro fra stelle. Secondo le
teorie catastrofistiche le stelle si formerebbero quindi isolate o anche a
gruppi, ma in ogni caso senza la corte di pianeti che giri loro intorno e per
tutta la loro esistenza potrebbero restare in queste condizioni. Potrebbe però
anche accadere che qualcuna di queste stelle fosse urtata di striscio da
un’altra che, a causa della enorme attrazione gravitazionale, estraesse dalla
prima della materia e contemporaneamente ne perdesse della propria; questa materia,
successivamente, si condenserebbe a formare i pianeti che rimarrebbero vincolati
alla stella dalla quale è uscita la materia che li ha generati. In tal modo si
sarebbero potuti produrre contemporaneamente due sistemi planetari, il nostro e
quello della stella che avrebbe sfiorato il Sole. Se
fosse vera una teoria di tipo catastrofistico come quella avanzata da Buffon i
sistemi planetari sarebbero molto rari: si calcola infatti che nel corso della
vita di una galassia (lunga alcuni miliardi di anni) si sarebbero potuti
verificare al suo interno solo una decina di incontri fra stelle da cui avrebbe
potuto prendere avvio un sistema solare. Inoltre, qualora l’origine del nostro
sistema solare fosse stata il risultato di una collisione catastrofica, il Sole
dovrebbe avere un’età maggiore dei pianeti che gli stanno intorno. Quale
delle due classi di teorie è quella più corretta da un punto di vista
scientifico? 2. IL
MODELLO DI KANT E LAPLACE
A parte i tentativi ingenui e privi di valore scientifico, la prima
teoria rigorosa sull’argomento fu formulata dal filosofo tedesco Immanuel Kant
(1724-1804) il quale, nel 1755, all’età di trentun anni, pubblicò la Storia
generale della natura e teoria del cielo in cui veniva elaborata una
cosmologia sulla base della fisica newtoniana che a quel tempo si andava
affermando. La legge di gravitazione universale imponeva che i corpi celesti
dovessero seguire precise traiettorie e per quanto riguardava il sistema solare,
Kant ripropose la vecchia ipotesi monistica di Cartesio ma su nuove basi. Secondo
il filosofo tedesco, l’Universo era inizialmente riempito di gas freddi e
dotati di movimenti interni disordinati in cui le regioni di maggiore densità
avrebbero agito da centri di aggregazione formando stelle; quindi, a distanze
diverse, i nuclei più piccoli avrebbero dato origine ai pianeti e ai satelliti
che oggi ruotano nel senso del movimento che si sarebbe originato,
spontaneamente, all’interno della nebulosa. Questa ipotesi verrà
successivamente rielaborata dall’astronomo e matematico francese Pierre Simon
de Laplace. Laplace
nel 1796 avanzò dunque l’ipotesi che una nube calda di gas e polvere in via
di contrazione fosse dotata, fin dall’inizio, di regolare movimento di
rotazione. Più essa si contraeva e più aumentava la sua velocità come avviene
per una ballerina la quale, per girare su sé stessa più velocemente, avvicina
le braccia al corpo. Questo fenomeno è dovuto alla conservazione del momento
angolare. Vediamo meglio di cosa si tratta. Si
definisce momento angolare (o più precisamente momento della quantità di moto)
di un corpo in rotazione (sia esso un pianeta che gira intorno al Sole, o
semplicemente una particella di un oggetto qualsiasi in rotazione) il prodotto
della massa m di questo corpo per la sua velocità v e per la
distanza d dall’asse di rotazione (il momento angolare vale quindi m·v·d).
Ebbene, una legge fondamentale della fisica impone che il momento angolare
totale di un sistema isolato in rotazione (ad esempio proprio il sistema solare)
debba restare costante nel tempo. Pertanto, qualora aumentasse la distanza di
un pianeta dal Sole dovrebbe diminuire la sua velocità (la massa ovviamente non
cambia) per compensare l’aumento del primo fattore e viceversa. Questo è
esattamente ciò che si verifica per la Terra nel suo moto intorno al Sole.
Tutti sanno, infatti, che la Terra gira più velocemente quando si trova in
perielio, ossia quando è più vicina al Sole e più lentamente quando si trova
in afelio, cioè quando è più lontana dal Sole: questa variazione di velocità
a distanze diverse dall’asse di rotazione è per l’appunto una conseguenza
della conservazione del momento angolare. A
causa della rotazione sempre più veloce, secondo l’ipotesi di Laplace, la
nebulosa primordiale si appiattì fino al punto che all’equatore la forza
centrifuga superò la forza di gravità che agisce verso il centro: dalla massa
centrale si staccò allora un anello di materia che si portò con sé anche una
parte del momento angolare e da questo anello si formò poi per condensazione un
pianeta. Con la perdita di parte della sua materia la nube rallentò il proprio
moto che tuttavia, con il protrarsi del processo di contrazione conseguente
all’azione gravitativa che continuava ad operare su di esso, riprese ad
accelerare, raggiungendo nuovamente una velocità tale da causare
l’allontanamento di un secondo anello di materia. Questo fenomeno deve essersi
ripetuto più volte sino a dare origine all’attuale sistema planetario. L’ipotesi
di Laplace si differenzia da quella di Kant per la nebulosa di partenza (fredda
e immobile quella del tedesco; calda e in rotazione quella del francese) e per
il modo in cui si sono formati i pianeti: tutti insieme e quindi coevi secondo
Kant, uno per volta e di conseguenza con quelli esterni più vecchi di quelli
interni secondo Laplace. Il modello di Laplace si ispirava alla nebulosa di
Andromeda che a quei tempi si pensava fosse una nube di polvere e gas in
rotazione e non un ammasso di stelle come si scoprì in seguito. Per tale motivo
la proposta del matematico francese prese il nome di «ipotesi della nebulosa».
L’ipotesi
cosmogonica della nebulosa oggi è nota come ipotesi di Kant e Laplace e appare
effettivamente in grado di spiegare alcune caratteristiche del sistema solare.
Si osserva ad esempio che tutti i pianeti ruotano intorno al Sole nella stessa
direzione (antioraria o diretta, se vista dall’alto) e all’incirca su uno
stesso piano e ruotano anche su sé stessi nello stesso senso. Gli anelli di
Saturno, inoltre, potrebbero essere costituiti da gas e polvere staccatisi dal pianeta e che
poi non sono riusciti a condensarsi in satelliti. Infine gli asteroidi, ossia le
migliaia di piccoli pianeti che girano intorno al Sole in una fascia compresa
fra le orbite di Marte e Giove, potrebbero essere i frammenti di un anello che
non è riuscito ad aggregarsi per formare un pianeta. Ben
presto però la teoria fu sottoposta ad una serie di critiche che ne misero in
luce i limiti. Innanzitutto era facilmente dimostrabile che una massa pari a
quella del Sole con l’aggiunta dei pianeti che tuttavia rappresentano in peso
poco più di un millesimo del totale, avrebbe girato solamente un po’ più
velocemente di quanto non faccia attualmente e a quella velocità mai avrebbe
potuto perdere anelli di materia. Inoltre nessun pianeta si sarebbe potuto
formare da tali anelli, anche se essi si fossero effettivamente staccati
dal Sole, perché i gas, soprattutto se caldi, tendono a disperdersi piuttosto
che ad aggregarsi. La critica più seria, tuttavia, riguardava
proprio la conservazione del momento angolare sul quale il modello stesso era
stato costruito. Fatte bene le misurazioni, risultò che i pianeti, i quali
rappresentano solo lo 0,13% della massa di tutto il sistema solare, possiedono
invece il 98% del momento angolare complessivo. In altre parole, se il Sole e i
pianeti si fossero formati dalla stessa nube di gas in rotazione il momento
angolare della nube dovrebbe essersi ripartito equamente fra i componenti del
sistema stesso e non nel modo che appare. Si osserva infatti che il Sole,
nel quale è concentrata la quasi totalità della massa, gira molto lentamente
intorno al proprio asse: è come se la ballerina, avvicinando le braccia al
corpo, anziché accelerare, rallentasse la sua velocità. Viceversa i pianeti,
che come abbiamo detto hanno una massa di poco più di un millesimo della massa
del Sole possiedono quasi il 98% del momento angolare complessivo. Vien fatto di
chiedersi pertanto per quale ragione quasi tutto il momento angolare sia stato trasferito a quegli esigui anelli di
materia che si staccarono dal corpo centrale, e solo in così piccola misura
esso sia
rimasto legato al Sole. 3. LE TEORIE CATASTROFISTICHE DELL’INIZIO DEL SECOLO SCORSO
Agli inizi del secolo passato l’ipotesi della nebulosa era talmente
screditata che sembrava impossibile operare su di essa qualche aggiustamento per
renderla ancora accettabile. L’unico rimedio era quello di passare a modelli
completamente diversi e si decise quindi di riesumare le vecchie teorie
catastrofistiche. Nel
1905 due scienziati americani, Forest Ray Moulton (1872-1952) e Thomas Chrowder
Chamberlin (1843-1928), considerarono l’ipotesi del passaggio a breve distanza
dal Sole di un’altra stella che avrebbe prodotto su di esso un’energica
azione di marea. Il Sole avrebbe allora espulso, nel corso di gigantesche
eruzioni, grandi masse di materiale dal lato rivolto alla stella e piccole masse
dal lato opposto. Le prime si sarebbero disposte a grande distanza ed avrebbero
dato origine ai pianeti più lontani mentre le masse più piccole avrebbero
formato i pianeti più vicini al Sole, i cosiddetti pianeti terrestri. La massa
di gas e particelle espulsa dal Sole avrebbe quindi formato un vasto sciame di
frammenti solidi che successivamente si sarebbero aggregati in blocchi che gli
scienziati denominarono “planetesimi” (ossia elementi di pianeti) i quali, a loro volta,
sarebbero precipitati gli uni sugli altri, attratti dalla forza di gravità,
generando infine i pianeti veri e propri. L’accelerazione, creata dalla stella
di passaggio, aggiungendo una forte componente laterale al moto di questi corpi,
avrebbe impresso loro un grande momento angolare, indipendente da quello del
corpo centrale. Questa proposta è detta “ipotesi planetesimale”
Una
congettura simile venne avanzata nel 1918 dagli scienziati britannici James
Hopwood Jeans (1877-1946) e Harold Jeffreys (1891-1975) i quali calcolarono che
se una stella fosse passata vicino al Sole, l’onda di marea che il suo
avvicinamento avrebbe prodotto sarebbe stata di così gigantesche proporzioni
da determinare una specie di braccio gassoso proiettato verso di essa.
Dall’estremità di tale braccio si sarebbero staccate masse successive di gas
che avrebbero potuto dar vita a pianeti di grosse dimensioni, ma non a quelli più
piccoli come Mercurio e Marte che non avrebbero potuto sopravvivere in forma
gassosa e si sarebbero invece dispersi nello spazio. Inoltre dimostrarono con
l’aiuto del calcolo che corpi strappati al Sole da forze gravitazionali non
avrebbero potuto muoversi molto più velocemente del Sole stesso, mentre si
osserva che la maggioranza dei pianeti si muovono molto più velocemente di
quanto non faccia l’astro centrale. Per
superare queste difficoltà i due astronomi britannici immaginarono una
collisione radente invece che un semplice avvicinamento. Questa quasi collisione
fra i due astri sarebbe avvenuta alla velocità di centinaia di kilometri al
secondo e avrebbe determinato un flusso di materiali che si sarebbe
assottigliato alle estremità assumendo la forma di sigaro. In un primo tempo
questo getto di materia avrebbe unito i due corpi, ma poi, con l’allontanamento della stella in transito, il
"sigaro" si sarebbe frammentato
formando i pianeti. Successivamente, per opera delle maree provocate dal Sole sui pianeti si
sarebbero formati i satelliti. L’idea è detta “ipotesi delle maree” o
anche “ipotesi del sigaro” e darebbe giustificazione del fatto che i pianeti
più grossi (Giove e Saturno) si trovano al centro mentre quelli di minor massa
alla periferia, ossia alla minima e alla massima distanza dal Sole. Anche
queste ipotesi catastrofistiche incontrarono delle difficoltà insormontabili
quando vennero sottoposte alla verifica della rispondenza con le leggi fisiche.
Si calcolò ad esempio che se una particella posta alla superficie del Sole
aumentasse la sua velocità acquisterebbe sì un momento angolare maggiore ma
nello stesso tempo accrescerebbe la sua energia in misura tale da sfuggire
completamente dall’astro anziché inserirsi su un’orbita planetaria. Inoltre
si fece notare che data l’eccezionalità dell’incontro fra due stelle, i
sistemi solari dovrebbero essere delle strutture piuttosto rare. Infine, affinché
la materia possa essere strappata da una stella è necessario che un’altra le
si avvicini non solo fino a toccarla, ma anche che lo faccia a velocità
notevoli e comunque ben maggiori di quelle osservate nella nostra Galassia. La
velocità del nostro Sole, ad esempio, sarebbe dovuta essere almeno dieci volte
maggiore di quella che è in realtà per provocare un fenomeno come quello
ipotizzato. Tutto ciò rende incredibilmente bassa la probabilità di una
collisione del genere. In
conclusione, sia le teorie evoluzionistiche sia le teorie catastrofistiche
avanzate prima della metà del secolo scorso apparivano talmente insoddisfacenti
che l’unica conclusione ragionevole che si poteva trarre relativamente alla
origine del sistema solare era che esso non sarebbe dovuto esistere. 4. ALTRE IPOTESI COSMOGONICHE
Come si è visto, intorno agli anni Quaranta del secolo che si è appena
concluso, anche le teorie catastrofistiche sembravano irrimediabilmente
compromesse e i tentativi di salvarle apportando alcune modifiche non si
rivelarono soddisfacenti. Nel 1945, ad esempio, l'astrofisico inglese Fred Hoyle (1915-2001) ipotizzò
che il Sole, prima dell’esistenza dei pianeti, avesse fatto parte di un
sistema binario che in effetti è un raggruppamento di stelle piuttosto
frequente all’interno della Galassia. Ora, se l’incontro con una stella di
passaggio fosse avvenuto con la stella compagna invece che direttamente con il
Sole, i materiali staccatisi durante la collisione avrebbero potuto possedere già
dall’inizio il momento angolare richiesto. Lo scienziato dimostrò inoltre che un tale
incontro avrebbe potuto fare sfuggire per sempre dal Sole ciò che rimaneva della
sua compagna. In
seguito furono proposte alcune varianti a questa teoria. Secondo una di queste,
la compagna del Sole avrebbe potuto essere essa stessa una stella doppia che,
resa instabile per aggiunta di altro materiale, si sarebbe spezzata
violentemente proiettando tutto intorno gas e frammenti solidi che nella quasi
totalità sarebbero sfuggiti, ma che in minima parte avrebbero potuto essere
catturati dal Sole. E proprio questa parte infinitesima di materia attratta dal
Sole sarebbe stata sufficiente per originare una nebulosa da cui avrebbero
tratto origine i pianeti. Un
altro suggerimento arrivò da un gruppo di astronomi, guidati dal solito Hoyle
(una delle menti più geniali e creative che l’astronomia abbia mai
conosciuto) i quali immaginarono che la compagna del Sole fosse stata una stella
di grande massa che terminò la sua esistenza esplodendo sotto forma di
supernova. Secondo questa ipotesi gli elementi pesanti che nel
corso della esistenza della grossa stella si erano formati nel suo interno
avrebbero contribuito in buona misura alla formazione dei pianeti. Più
di recente, il fisico svedese Hannes Olaf Alfvén (1908-1995) ha avanzato
l’ipotesi che atomi ionizzati possano essere stati catturati dal Sole nel suo
viaggio attraverso lo spazio fino a formare anelli di gas col momento angolare
richiesto. Poiché la Galassia contiene numerose nuvole di gas e polveri, non è
da escludere l’eventualità che sistemi planetari possano essersi formati
raccogliendo questo materiale attorno a stelle. Se così fosse potrebbero essere
molti i sistemi solari, anche qualora si ammetta che solo una piccola parte dell’enorme quantità di gas presente nella Via Lattea possa essere stata attratta
dalle stelle e trasformata in pianeti. Anche
queste teorie, nate con l’intento di superare le difficoltà che avevano
incontrato le precedenti, mostravano tuttavia i loro limiti e apparivano
fortemente improbabili quando venivano sottoposte ad una serrata analisi
critica. Alla fine, falliti tutti i tentativi innovatori, prevalse la tesi più
antica e primitiva della caotica nebulosa primordiale. L’origine
del sistema planetario da una nebulosa primordiale (ovvero la vecchia ipotesi di
Kant) ora riceveva nuovo impulso dall’astronomo tedesco Carl Friedrich von
Weizsäcker (1912 -) il quale, nel 1944, propose un suo modello detto “della
turbolenza”. Egli dimostrò, servendosi di una serie di calcoli, che una nebulosa
originariamente sferica, sotto l’azione combinata di gravità e attrito
interno, avrebbe assunto ben presto la forma di un disco lenticolare con un
addensamento centrale che lentamente avrebbe potuto evolvere verso la formazione
di una stella, mentre alla periferia si sarebbero create delle turbolenze
secondarie che avrebbero sviluppato vortici e sottovortici ciascuno dei quali
avrebbe successivamente dato vita a pianeti e satelliti. La
composizione chimica della nebulosa primordiale doveva essere la stessa di
quella che oggi riscontriamo nel cosmo, ossia costituita per il 99% di idrogeno ed elio e
per il rimanente 1% di altri elementi. I gas leggeri, quando non si raccolsero
al centro, si allontanarono in larga misura dalla nebulosa per azione
dell’irradiazione sempre più intensa dell’astro centrale, finendo col
portare con sé una parte consistente del momento angolare. Il modello di Weizsäcker fu completato e arricchito dall’astronomo statunitense di origine olandese Gerard Pieter Kuiper (1905-1973) il quale fece osservare che il sistema solare potrebbe essere il risultato di una stella doppia degenerata in cui la seconda massa, anziché condensarsi in una singola stella, si sarebbe sbriciolata in frammenti; a ciò sarebbe seguito un processo di aggregazione che avrebbe portato alla formazione di pianeti e satelliti. Secondo Kuiper la compagna degenerata del Sole avrebbe formato, in un primo momento, dei protopianeti la cui massa doveva essere molto maggiore di quella posseduta dagli attuali pianeti e solo successivamente, quando questi protopianeti si raffreddarono e si condensarono, si sarebbe verificato un processo di sedimentazione che avrebbe trasferito i materiali più pesanti al centro lasciando quelli più leggeri in superficie. A
questo punto i gas più leggeri (come idrogeno ed elio) che formavano quella che
potrebbe essere definita l’atmosfera primordiale dei pianeti in formazione,
sfuggirono perché la forza di gravità non era sufficiente per trattenerli.
Quelli che sarebbero diventati i pianeti si liberarono quindi di una quantità
di materia proporzionale alla loro massa. Si è calcolato ad esempio che Giove
doveva avere, all’inizio, una massa da 10 a 20 volte maggiore dell’attuale,
Saturno, attualmente un po’ più leggero di Giove, doveva essere, a quel
tempo, almeno 50 volte più pesante e la Terra all’inizio era forse
addirittura 1000 volte più pesante di quanto non sia oggi. E’ intuitivo che
quanto più piccola era la massa del pianeta tanto più grande doveva essere la
sua perdita di materia per evaporazione negli spazi siderali. In questo modo si
spiegherebbero anche la minore densità dei grossi pianeti come Giove e Saturno e
la maggiore densità dei pianeti terrestri come Mercurio, Venere, Marte e la
stessa Terra. 5. LE
TEORIE ATTUALI
Oggi le teorie cosmogoniche si basano su una notevole quantità di dati
dedotti dalle osservazioni e su una serie di conoscenze di astrofisica che
consentono di ricostruire uno scenario molto verosimile della evoluzione del
Sole e dei pianeti che gli orbitano intorno. Proviamo allora a descrivere come questo
scenario si sia andato delineando nel tempo, alla luce del modello proposto una
trentina d'anni fa dall’astronomo americano Alstair Graham Walter
Cameron, a quell’epoca insegnante alla Harvard University. Partiamo quindi
dall’inizio, ovvero dal problema relativo alla formazione delle stelle. Sappiamo
quasi per certo che la Galassia nella quale risiede il sistema solare si formò
poco dopo la nascita dell’Universo quindi circa 15 miliardi di anni fa. La
materia scaturita dall’esplosione primordiale, il famoso big bang, formata in
prevalenza di idrogeno ed elio, incominciò quasi subito a perdere la sua
omogeneità e a suddividersi in centinaia di miliardi di condensazioni
indipendenti, ognuna delle quali avrebbe originato altrettanti sistemi isolati
che oggi chiamiamo galassie. L’evoluzione
di queste protogalassie fu diversa a seconda della loro grandezza, delle
differenze di temperatura che si stabilivano al loro interno e delle turbolenze
che si venivano a creare nel tentativo di ripristinare l’equilibrio perduto,
ma il risultato finale fu lo stesso: la formazione di stelle. I fotoni che si
allontanavano soprattutto dalla zona periferica delle nebulose primitive
portavano via dell’energia e conseguentemente abbassavano la temperatura
mettendo in crisi l’equilibrio originario e l’omogeneità della massa
gassosa. Subito
dopo la sua comparsa come corpo isolato e indipendente, la Via Lattea si mise
quindi a ruotare su sé stessa per effetto dei vortici associati al collasso
gravitazionale che tendeva a richiamare la materia verso le zone di maggiore
addensamento e degli squilibri termici. Nel giro di poche centinaia di milioni
di anni all’interno della nostra Galassia, come di tante altre, si erano
venute a creare le condizioni per la formazione di una prima generazione di
stelle. Alcune di queste stelle erano di dimensioni notevoli e bruciarono il
loro combustibile atomico in breve tempo contribuendo, contemporaneamente, alla
formazione di nuovi elementi. Esaurito il combustibile atomico queste grandi
stelle esplosero sotto forma di supernovae spargendo nello spazio il loro
contenuto. Questa
era la situazione quando circa 5 miliardi di anni fa una nuvola imponente di gas
e polveri cosmiche percorreva alla velocità di circa un milione di kilometri
all’ora la zona periferica della nostra Galassia. Questa nuvola, nel suo moto,
incontrava degli ostacoli rappresentati dai bracci della Galassia stessa che non
giravano alla sua stessa velocità e che contribuirono pertanto a frantumarla in
migliaia di nubecole ognuna delle quali aveva una massa sufficiente per
originare una stella. Non tutta la materia disponibile all’interno della nube
tuttavia si trasformò in stelle. La
massa residua di gas e polveri insieme alle stelle che nel frattempo si erano
formate al suo interno, continuava il suo viaggio alla periferia della Via
Lattea fino a che le stelle più grosse cominciarono ad esplodere. Una di queste
supernovae schiacciò inesorabilmente gli ultimi brandelli della nuvola
iniettandovi altri elementi pesanti. Nuove stelle nacquero quindi da questo
materiale molto elaborato ed arricchito di nuovi elementi e fra queste vi era il
frammento di gas e polvere che sarebbe diventato il Sole con la sua corte di
pianeti, di satelliti e di altri corpi minori. All’inizio,
la massa di quello che sarebbe diventato il sistema solare era una decina di
volte più grande di quanto non sia attualmente ed era concentrata per il 99% al
centro, dove continuava lentamente e inesorabilmente a comprimersi e a
riscaldarsi. Intorno a questo nucleo centrale si andavano lentamente aggregando
granuli di polvere e molecole richiamate da forze elettrostatiche e magnetiche.
Si venivano così a formare quei frammenti di materia sempre più consistenti e
compatti che avrebbero rappresentato il primo stadio della formazione dei
pianeti. A
questo punto della sua lunga storia, la stella Sole in formazione entrò in
quello che viene definito lo stadio T-Tauri, ossia in una fase strutturale
caratterizzata da un improvviso aumento di luminosità e dall’espulsione di
una parte consistente della sua massa. Con il nome di T-Tauri vengono indicate
alcune stelle (la prima delle quali fu osservata all’interno della
costellazione del Toro) le cui caratteristiche sono quelle di ammassi gassosi
molto giovani. La T-Tauri e le stelle ad essa simili tendono a perdere massa
rapidamente per il crearsi di un forte vento stellare. Il
nostro Sole passò anch’esso, verosimilmente, attraverso la fase T-Tauri
perdendo, proprio in conseguenza del vento solare, forse il 50% della sua massa.
La perdita di una quantità tanto grande di materia ne rallentò il moto e
contemporaneamente trasferì nello spazio circostante atomi ionizzati ed
elettroni che facilitarono l’aggregazione del materiale costituente il
disco periferico. Questa separazione di particelle cariche di elettricità
contribuì a rallentare ulteriormente il moto del Sole mentre accelerava quello
del materiale periferico. Forse un ruolo importante nella modifica del momento
angolare e nella direzione dell’asse di rotazione della nebulosa primordiale
fu svolto anche dall’incontro ravvicinato fra le stelle dell’ammasso, le
quali
all’inizio dovevano essere molto più vicine di quanto non siano attualmente. Frattanto
la regione centrale della nube protoplanetaria si era addensata a tal punto che
nel suo nocciolo si erano raggiunte temperature di milioni di gradi sufficienti
ad innescare le reazioni nucleari di fusione. Ebbe quindi inizio la
trasformazione della materia in energia, conseguente alla fusione di quattro
nuclei di idrogeno con formazione di un nucleo di elio. Questa trasformazione nucleare
generò tanto calore da riscaldare e quindi far gonfiare l’enorme massa di gas
fino al punto da contrastare il collasso gravitazionale in atto. 6. LA
FORMAZIONE DEI PIANETI
La polvere e il gas del disco di materia che circondava il Sole erano
caratterizzati da temperature e composizione chimica diverse. Nella zona più
vicina ad essi il vento T-Tauri faceva sentire il suo effetto: le molecole
leggere venivano spinte lontano, mentre quelle più pesanti che formavano le
polveri subivano spostamenti meno consistenti. La zona adiacente al Sole veniva
inoltre fortemente riscaldata e la temperatura doveva raggiungere valori
talmente elevati che molte molecole venivano scisse nei singoli atomi e quindi
gli stessi sospinti lontano dal vento T-Tauri.
La
zona più periferica del disco, anziché accumularlo, perdeva del calore
consentendo la solidificazione di alcuni gas che, a causa della pressione molto
bassa, lo facevano direttamente, senza passare attraverso la fase liquida (il
fenomeno prende il nome di sublimazione o brinamento). I cristalli solidi di ghiaccio e le particelle
cristalline di altri elementi avevano modo quindi di aggregarsi in strutture sempre più
consistenti fino ad assumere dimensioni dell’ordine del metro. Questi
agglomerati di materia ancora molto rarefatta rappresentano i già menzionati
planetesimi. L’aggregazione
dei pianeti avvenne quindi, secondo Cameron, a partire da polveri, gas e piccoli
frammenti rocciosi che avrebbero cominciato a collidere in orbita intorno al
Sole primordiale. I pianeti maggiori Giove, Saturno, Urano e Nettuno, avrebbero
avuto modo di trattenere, grazie alle loro notevoli masse e alla maggiore
distanza dalla fonte di calore, buona parte dell’idrogeno e dell’elio
originali. I pianeti di dimensioni minori Mercurio, Venere, Terra e Marte,
oltre ai loro satelliti e agli asteroidi, hanno invece conservato solo il loro
nucleo roccioso accresciutosi in un intenso bombardamento successivo da parte
dei planetesimi minori. Le comete e alcuni asteroidi fatti principalmente di
ghiaccio non sarebbe altro che il materiale residuo dei primi stadi di esistenza
del sistema solare. La
formazione della Terra, come abbiamo visto, fu un evento astronomico simile a
quello che portò alla formazione degli altri pianeti. Quindi anche nel nostro
caso, dopo che polveri e gas si addensarono e dopo che potenti venti stellari
portarono via gran parte dell’involucro gassoso, vi fu il bombardamento
meteorico che arricchì il pianeta di elementi pesanti e portò alla fusione
dell’intera massa. Ad ogni urto si formava qualche cosa di simile ad una
grande esplosione che proiettava nello spazio frammenti di suolo e del
planetesimo stesso e lasciava sul terreno profonde cicatrici. A questo punto
all’interno della massa fusa iniziò quel processo di differenziazione
gravitativa che si concluse con la formazione di una leggera crosta solida
galleggiante sul sottostante materiale fluido e più pesante. Mentre
la Terra si stava strutturando in quello che sarebbe stato il suo assetto
definitivo, alcuni potenti processi interni avrebbero condotto alla modificazione
della parte più esterna del pianeta. In seguito al riscaldamento interno dovuto
principalmente all’energia sprigionata da processi di decadimento radioattivo,
la fragile crosta superficiale si spezzò in molte zolle consentendo l’uscita
di materiale fluido del mantello sottostante. Questo materiale più pesante
giunto in superficie spinse le zolle di crosta leggera costringendole ad
accavallarsi e contemporaneamente andò ad accumularsi esso stesso nelle
depressioni che successivamente avrebbero ospitato i mari. Questo materiale che
proveniva dal profondo era di composizione chimica diversa da quello
superficiale che si era depositato sotto forma di scorie leggere. Le dense lave
provenienti dal mantello avevano infatti composizione basaltica, mentre la crosta era
costituita di materiali granitici. Oggi la crosta del pianeta è caratterizzata
proprio dalla differenza di composizione chimica fra i materiali dei continenti
e quelli dei fondali oceanici. Frattanto
i vapori inizialmente intrappolati nelle rocce cominciarono a liberarsi eruttati
anche dalle numerose bocche vulcaniche che si aprirono molto più di frequente
di quanto non avvenga attualmente. Si venne così a formare la prima atmosfera
terrestre dalla quale, attraverso reazioni chimiche messe in atto da forme di
energia come quella elettrica dei fulmini o dei raggi ultravioletti del Sole, si
sarebbero formati i primi composti organici dai quali, in un momento
successivo, si sarebbero originati
gli organismi viventi. Qui si conclude la prima fase dell’esistenza del nostro pianeta e del sistema solare. fine |