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Io ho anche un altro grande amore, l'Isola di San Pietro e la sua città Carloforte. L'isola è circondata da un mare splendido, un insieme di spiagge di sabbia bianca e scogli, dove è possibile nuotare, fare snorkeling per curiosare il fondo marino, pieno di pesci, polpi, conchiglie, ricci. Qui parlano ancora un genovese arcaico, che gli abitanti chiamano "tabarkino" e poi c'è la storica tonnara e il faro di Capo Sandalo, maestoso e romantico sulla cima di un'alta roccia. In cielo volano i falchi della regina, così chiamati da Eleonora d'Arborea, ormai molto rari, che che in quest'isola ancora nidificano. Gli abitanti sono di una cordialità unica, ospitali, gentili, sempre pronti a fare con voi una bella chiaccherata. Sono di una razza forte, antica, derivano da quegli abitanti di Pegli che anticamente erano andati a Tabarka, in Africa, a pescare corallo e che, dopo molte vicissitudini e avere provato anche la schiavitù, sono finalmente approdati all'Isola di San Pietro dove, dal 1738, sono diventati liberi di costruirsi il loro futuro. Sono una stirpe di uomini di mare e tali sono rimasti.
CARLOFORTE
E LA SUA TONNARA di
Annamaria “Lilla” Mariotti Fu il vecchio patriarca della
comunità di Tabarka, Agostino Tagliafico a condurre le trattative finali ed a
recarsi sull’isola per un sopralluogo e fu lo stesso Tagliafico che ricorse ad
un escamotage per portare il maggior numero possibile di persone a San Pietro.
Era stato deciso che sull’isola potevano recarsi solo centoquaranta
persone, ma il patriarca, con saggezza tutta ligure, finse di non
capire e intese che vi si sarebbero trasferita centoquaranta famiglie e così
avvenne. I Tabarchini
si trasferirono a San Pietro nel Febbraio del 1738 e nel giro di due anni
avevano già costruito la città, la fortezza, le mura ed avevano già iniziato
a coltivare la terra ed a pescare. Ed
è questa la forza che tuttora li tiene uniti, dopo 500 anni, e ne fa un popolo
speciale, unico. Noiose notizie storiche ?
No, ho voluto raccontare la storia della colonizzazione di Carloforte per
capire meglio questa gente che è aggregata da ben 500 anni, che è diventata un
popolo, che ha trasformato in una lingua locale l’arcaico dialetto parlato dai
loro antenati, perchè a Carloforte non si parla Genovese, ma Tabarchino e tutti
lo parlano dagli anziani ai bambini.
Dovunque in Italia si fanno tentativi e nascono iniziative per mantenere le tradizioni e non far morire i dialetti ;
qui a Carloforte abbiamo sotto gli occhi un esempio di come la tradizione,
alle volte, sia più forte del passare del tempo.
Ogni volta che vado all’isola io
me ne sto sul ponte, mentre il traghetto entra lentamente in porto tra la diga
di maestrale e la diga di scirocco, a
gustarmi l’arrivo a Carloforte, l’avvicinarsi del paese con le sue case
basse a colori pastello, un
miscuglio di africano e di ligure, i ficus beniaminus giganti e le palme del
lungomare, l’mponente costruzione celeste dell’Istituto Nautico dove
studiano quasi tutti i ragazzi del posto, e la statua di Carlo Emanuele III
proprio davanti all’attracco, un vecchio amico che rivedo sempre con piacere.
Statua originale o vecchio reperto romano su cui è stata attaccata una
testa del ‘700 ? Anche
questa è una leggenda locale
a cui non si sa se dar credito o no.
Quello che provo quando finalmente
scendo dal traghetto è difficile da descrivere.
Dopo un viaggio durato almeno 14 ore fra traghetti dal continente e
traversata della Sardegna ho raggiunto il mio Eldorado, la terra che tengo dentro al mio
cuore, la mia patria segreta. Sento
un’ondata di gioia che mi sale dall’interno, arriva fino alla gola, agli
occhi che si riempono di lacrime, una gioia così intensa che fa quasi male,
eppure liberatoria. So che
ora potrò godermi l’isola in lungo e in largo, parlare con la sua gente,
salire al faro, annusare la sua aria profumata di mirto e rosmarino,
tuffarmi nelle sua acque cristalline, girare per le sua viuzze, e so che,
grazie al mio dialetto ligure, potrò mescolarmi alla popolazione, per cercare
di non sentirmi un’ estranea turista di passaggio.
Ho sempre qualche progetto quando
vado a Carloforte, oltre a quello di nuotare, nuotare, nuotare.
Quest’anno il mio progetto era quello di saperne di più sulla sua
tonnara, ma quando mi sono presentata allo stabilimento per la lavorazione del
tonno, armata di macchina fotografica e con l’aiuto di un carissimo amico del
posto che mi ha presentato con tutte le mia credenziali, un cortese, ma
inflessibile
guardiano mi ha impedito l’ingresso. La proprietà non gradisce i curiosi.
Non mi sono lasciata intimidire e, dopo avere fatto qualche foto
all’esterno, sono andata a cercare le mie informazioni altrove.
E le ho trovate, tra la gente del posto e nel piccolo, bellissimo Museo
che la città ha dedicato alla “sua” tonnara.
Prima di tutto non si parla della
tonnara di Carloforte, ma delle
tonnare di Portopaglia, Portoscuso e Isola Piana, perchè nella storia
Carlofortina queste tonnare sono sempre state in qualche modo accumunate.
La pesca del tonno con le reti in Sardegna e altrove ha origini
antichissime, pare sia già stata praticata dai Fenici, dai Romani e anche dagli
Arabi ; sicuramente gli Spagnoli diedero grande impulso allo
sfruttamento dei banchi di tonno che transitavano numerosi lungo le coste
occidentali sarde.
Anche il termine “mattanza” ha una chiara origine spagnola, “matar” significa
uccidere e la “mattanza” è la fase finale della pesca con la tonnara,
l’annientamento completo di tutti i tonni finiti nella rete.
Tutte e tre le tonnare Sulcitane risultano
in attività da tempi antichi : Portopaglia nel 1420, Portoscuso nel 1594 e
Isola Piana nel 1698.
Noi
parleremo di una sola di queste tonnare, quella dell’Isola Piana o, meglio, di Carloforte, perchè
sono la stessa cosa. L’Isola
Piana non esiste più come stabilimento per la lavorazione del tonno, da molto
tempo è ormai trasformata in un piacevole villaggio vacanze, bello ed
esclusivo, e i suoi stabilimenti si sono trasferiti sull’Isola di San Pietro,
in una località chiamata “La Punta”, gomito a gomito con lo stabilimento di
Carloforte. Le reti vengono
calate lungo la costa settentrionale dell’isola, in una zona ben precisa tra
le “Tacche Bianche” e la
“Punta delle Oche”. Ha
una superficie totale di 1550 m. ; solo il pedale è lungo 1050 m., e il
resto della rete, con le sue sei stanze, ha una superficie di 500 m.
Non si vede quasi niente in superficie, tutto è nascosto sott’acqua,
come una città sommersa. Il
tonno rosso (Thunnus thynnus), pesce pelagico che vive solitamente nei mari freddi del nord Atlantico e
può pesare fino a 400 Kg., in primavera inizia un viaggio d’amore verso acque
più calde ed entra nel Mediterrano dallo Stretto di Gibilterra per riprodursi.
E’ uno strano animale il tonno, segue la costa, dove l’ acqua è poco
profonda e dove la femmina deporrà le uova, e nuota guardando solo e sempre dal
lato sinistro, come se ci vedesse da un occhio solo, così i pescatori tendono
una rete che va dalla riva verso il largo e che si chiama “pedale” o
“coda”, a seconda delle località e che sbarra il passo a questo corridore
dei mari, che vira e la segue, credendola la costa, ed entra così nella prima
stanza della tonnara, la “Camera di levante” da dove passa, attraverso una
serie di porte fatte di maglia di cocco, nella
“grande” e da lì in un’altra
camera, il “bordonaro” e poi un’altra ancora, il “bastardo”, poi
un’ultima stanza, la “camera di ponente” per finire infine nella “camera
della morte” da dove non ha via
d’uscita. Periodicamente
questa camera viene sollevata dal tonnarotti che si trovano sui “vascelli”
e, guidati dal “Rais”, danno inizio alla “mattanza”
tirando prima il sacco tra un quadrato di barche e poi, quando il sacco
è sollevato, uncinando i tonni uno per uno e tirandoli a bordo.
Sembra una cosa crudele, e forse lo è, ma in quel momento i pescatori
stanno compiendo gesti secolari, accompagnati da canti antichi e grida di
esortazione, perché la pesca del tonno è benessere per tutti, se si pescano
tanti tonni l’inverno sarà buono, ci sarà legna per scaldarsi e buon pane
fresco da mangiare e anche, perché no, del buon vino da bere.
La stagione di pesca dura poco, le reti si calano a Maggio e restano in
mare circa 45 giorni. Poi ne deriva un gran lavoro per tutti : le reti da
riparare o da rifare, il pesce da salare e da inscatolare, le uova della femmina
da lavorare per ricavarne la squisita bottarga e tutto questo tiene occupata una
buona parte della popolazione per il resto dell’anno. Ora le cose sono molto cambiate, i tonni non vengono più pescati come in passato. “Ne
passano molto meno”, dicono i pescatori “il tonno ha cambiato rotta”.
Ultimamente è stata di nuovo calata, dopo molto tempo, la tonnara di
Porto Paglia e si dice che sia a causa di questo impianto se il tonno devia
dalla zona di Carloforte. Ma come può essere cambiato il codice genetico di questo
pesce fiero e possente, a cui l’istinto dice
di scendere verso Sud in primavera e di nuotare verso Ponente fin dalla notte
dei tempi ? Non è
il tonno che è cambiato, ma l’uomo.
Un’ inquinamento delle
acque prospicienti Carloforte ha impedito di calare le reti della tonnara per
diversi anni e, una volta superato questo problema, ne è nato un altro. Grosso pescherecci oceanici fanno la caccia al tonno nel
Mediterraneo,
addirittura lo aspettano prima che entri dallo Stretto di Gibilterra.
Hanno strumenti sofisticati e, spesso, anche l’ausilio di elicotteri,
così quando avvistano un banco di tonni, calano in mare delle camere della
morte volanti, direttamente sul pesce, facendo sempre un buon bottino.
Il pesce viene poi lavorato in un primo tempo a bordo e
preparato per essere portato alle industrie per l’inscatolamento o spedito
direttamente in Giappone.
Una cosa molto triste che capita con questo tipo di pesca è che alle
volte, insieme ai tonni, vengono catturati anche dei delfini.
Certe industrie conserviere americane scrivono sulle loro scatolette
che il contenuto è solo carne di tonno e non di delfino ;
questa voce si è sparsa e molta gente ha delle remore a consumare il
prelibato pesce in scatola.
Nella tonnara tradizionale questo è difficile che succeda.
Ora i Rais sono coadiuvati dai sommozzatori che periodicamente
ispezionano le reti e se qualche delfino finisce insieme ai tonni, lo liberano.
La tonnara di Carloforte continua il suo lavoro, sia pure tra i
“mugugni”, e nel 2001 ha pescato 4.000 tonni. Il mio ultimo incontro con
la tonnara l’ho avuto nel piccolo grande
Museo di Carloforte, allestito nel più antico edificio della città e
pieno di attrezzi, modellini e vecchie scatole di tonno, inscatolate sia a
Carloforte che nelle vicine tonnare,
che danno un chiarissimo esempio di quanto i Carlofortini amino questo
tipo di pesca. Lì un plastico
mostra come il tonno veniva lavorato a Porto Paglia, ho visto i terribili uncini
usati per issare il tonno a bordo durante la “mattanza”, i tipi di corde
utilizzate per allestire la grande rete e le macchine usate per fabbricarle.
In mezzo ad una sala ho trovato il modello della tonnara, questo grande
palazzo fatto di reti, ancore e galleggianti.
Dedalo non avrebbe potuto costruire labirinto migliore per far perdere la
rotta ai tonni e permettere all’uomo di catturarli. Al Museo ho anche imparato la
preghiera che i tonnarotti, in piedi e a capo scoperto, guidati dal Rais,
recitavano all’alba del giorno destinato alla “mattanza”.
Voglio riportarla qui di seguito per concludere la mia incursione nella
tonnara di Carloforte. Iniziavano
con una “Ave Maria” indirizzata alla Madonna e un “Credo” dedicato allo
Spirito Santo. Alla fine recitavano
sette “Pater Nostro” con queste
invocazioni :
S.Antoniu,
Cu ne desbarasse u camin e cu n’asciste in te nostre operasuin (S.
Antonio, che ci liberi il cammino e che ci assista nelle nostre operazioni) S.
Giorgiu,
Cu ne libere dai pesci cattii (S.
Giorgio, che ci liberi dai pesci cattivi) S.
Gaitan,
Cu ne mande da Pruvvidensa (S.
Gaetano, che ci mandi della Provvidenza) e a questa invocazione i
tonnarotti rispondevano “ o nu che u l’ha i pigoeggi” (no, che ha i
pidocchi). Questa risposta era un
riferimento a qualche personaggio locale, ma sopratutto aveva un valore
scaramantico. Le invocazioni terminavano con : (S.
Pietro,
che ci mandi una buona pesca) e con altri due Pater Nostro per i
defunti e per i Santi Protettori. Finita la preghiera il Rais
pronunciava il rituale : “In nome
de Diu, molla” , il
segnale per l’apertura delle porte che lasciavano entrare il tonno
nella camera della morte. Solo
alla fine di tutto questo cerimoniale il Rais dava con voce possente ai suoi
tonnarotti il comando tanto atteso : “LEVA”
. A questo segnale i tonnarotti si scatenavano e in un tripudio di urla,
canti e grida di incitamento iniziavano a sollevare la grande rete a forza di
braccia finchè, in un ribollire di schiuma, pinne e code che sbattevano si
concludeva l’eterna sfida tra l’uomo e la sua preda. Foto di Annamaria "Lilla" Mariotti e di archivio
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