Caccuri tra l''800 e il '900:  latifondo e  piccole industrie
La conoscenza del passato per costruire il futuro
di G. Marino
 

    Nel 1830 Rachele Ceva Grimaldi, figlia dell’ultima duchessa di Caccuri, Marianna Cavalcante e del marchese Giuseppe Ceva Grimaldi di Pietracatella, Presidente del Consiglio dei ministri del Regno delle due Sicilie, vendette il feudo di Caccuri,  dell'estensione di 4.571 tomolate (circa 1500 ha) e il castello al barone Barracco per 52.816 ducati. Successivamente, grazie all’acquisto di altri beni come le proprietà ex ecclesiastici e altre acquisizioni i Barracco arrivarono a possedere nel territorio di Caccuri ben 19,60 Kmq, pari al 34,20% dell’intero territorio comunale. Dopo Cutro (50,5%) e Isola – Le Castelle (49,5%) era la più alta percentuale di territorio facente parte della giurisdizione comunale di proprietà dei Barracco nei comuni calabresi.[1] Gran parte del restante territorio era nelle mani di pochi agrari, spesso dipendenti o comunque legati al barone.
    La famiglia era originaria di Crotone ed imparentata con i Lucifero. Alfonso Barracco, infatti, aveva sposato Maria Chiara Lucifero e dal matrimonio erano nati i figli Francesco,  Stanislao, Emanuela, Maurizio, Maria, Giovanni, futuro senatore del Regno, Guglielmo, Roberto, anch’egli senatore, Carolina, Eleonora e Teresa.

                                      
                                                   
Stemma dei Barracco



   I Barracco oltre ad essere dei bravi e innovatori imprenditori come tanti calabresi favoriti e incoraggiati dai governi borbonici prima dell’Unità d’Italia, furono anche uomini politici illustri e grandi eruditi. Il barone Alfonso, nato a Crotone  il 17 marzo del 1819, fu nominato senatore il 20 gennaio 1861. Il fratello Giovanni, eletto alla Camera nel 1861, fu nominato  senatore nel 1867 su proposta di Agostino Depretis. Qualche anno prima aveva rinunciato alla carica di ministro degli esteri che gli era stata offerta da Giovanni Lanza. Fu un bravo alpinista e scalatore, tra l'altro il primo che raggiunse la cima del monte Bianco e quella del monte Rosa e partecipò con Quintino Sella, ministro delle finanze,  alla scalata del Monviso. Assieme al politico piemontese fondò il CAI (Club alpino italiano) di cui divenne poi  dirigente. Giovanni Barracco fu anche  un raffinato collezionista e uno stimato intellettuale. Infine  Roberto, ottenne il laticlavio nel 1896.

           
                    
Giovanni Barracco

   Uno altro dei numerosi fratelli, Guglielmo, che aveva sposato la giovanissima nipote Giulia, figlia di Alfonso,  visse a lungo a Caccuri, paese del quale fu sindaco dal 1874 al 1888 (uno tra i più longevi). Furono lui e la moglie che diedero incarico all’architetto napoletano Adolfo Mastrigli di trasformare l’antico palazzo dei Cavalcanti in un finto maniero medioevale con la costruzione di un bastione e di una torre cilindrica merlata per nascondere un antiestetico serbatoio idrico che doveva alimentare il palazzo. Nell’occasione la baronessa donna Giulia fece murare nello spuntone roccioso che svettava sotto il rivellino un catino turchino nel quale cadeva a intervalli regolari una goccia di acqua e che serviva da abbeveratoio per gli uccelli. Vista dal basso la metà del catino turchino che sporgeva dalla roccia sembrava un mezza luna per cui lo spuntone venne ribattezzato con questo nome. Di grande effetto una famosa foto d'epoca, utilizzata anche come cartolina nella quale si vedono decine di operai intenti alla costruzione del bastione della torre. 

 
                        Vecchia cartolina che mostra i lavori di costruzione della torre del Mastrigli             Lapide che ricorda il lavoro del Mastrigli (L'acqua è 
                                                                                                                                                             chiamata Giulia in onore della baronessa)

Contestualmente il barone fece anche realizzare il parco annesso (la villa) la cui cura fu affidata al custode e giardiniere Vincenzo Parrotta. Alcuni anziani caccuresi negli anni ’40 e ’50 raccontavano ancora di quando da ragazzi vennero utilizzati per il trasporto delle piante di pino da mettere a dimora dal luogo dove venivano scaricate dal traino, più o meno nel luogo dove vent'anni dopo verrà collocata la Santa Croce, nella villa e della realizzazione delle vasche e  dei giochi d’acqua rimasti in funzione fino agli anni '40 del secolo scorso.


   
Vincenzo Parrotta, custode della villa

  Nel periodo nel quale don Guglielmo fu sindaco di Caccuri e dimorò nel paese furono costruite anche la fontana pubblica di Canalaci (1884), le Canalette e il muro di cinta della vigna di Rittusa del quale rimane in piedi ancora qualche pezzo. All’interno della vigna vi era un grande palmento i cui resti furono visibile fino a qualche anno fa. Altro importante opificio dei Barracco a Caccuri era il frantoio di Forestella, che frangeva le olive raccolte negli uliveti del barone e nel quale lavoravano mediamente una decina di frantoiani per ogni turno di lavoro. Le derrate alimentari venivano conservate nei magazzini del convento, mentre il foraggio per muli e cavalli nell’ex chiesa di San Marco (Pagliera), attuale villa San Marco. Per quanto riguarda la produzione dell’olio circola una leggenda, probabilmente fondata, secondo la quale il barone faceva raccogliere a novembre le olive dalle quali ricavava l’olio per il consumo della sua famiglia, quando il frutto era ancora verde per ottenere un prodotto di qualità e a basso grado di acidità.  Il resto del prodotto lo si raccoglieva tra dicembre e marzo. Le olive venivano raccolte sia dalle donne che dagli uomini sotto il rigido controllo del soprastante Domenico Loria, cugino di Francesco Loria il giovane perito nella sciagura mineraria di Monongah.

   
                     
Palmento di Rittusa                                                                                    Frantoio Barracco a Forestella

     Tra gli ultimi dipendenti caccuresi dei Barracco, oltre al già citato giardiniere e custode del parco Vincenzo Parrotta ricordiamo il cuoco e cameriere Luigi Pizzuti, il soprastante Domenico Loria, il mulattiere Rosario Pasculli. Tra gli artigiani più apprezzati dai baroni che si giovavano del loro lavoro figurava mastro Peppino Gigliotti, fabbro, meccanico e maniscalco tra i più abili dell’intera regione. Fra l'altro furono i primi "padroni" caccuresi a versare ai lavoratori i contributi previdenziali.


 
Il soprastante Domenico Loria


   Nel XIX secolo a Caccuri e dintorni grazie ai Barracco si continuava a produrre la seta. Caccuri, assieme ad Altilia e a Polligrone,  era sede di una bigattiera di proprietà del barone, ovvero di un locale attrezzato per l’allevamento del baco, attività che impegnava parte della popolazione femminile del paese. Molte donne, infatti, erano addette anche alla raccolta delle foglie del gelso di cui si nutrono i bachi prima di rinchiudersi nel bozzolo  per cui una parte consistente dei terreni caccuresi, era coperta da gelsi. I bozzoli venivano poi lavorati nell’antica filanda di Casino (Castelsilano) e in quella più moderna di Fallistro. In quest’ultima erano occupate una sessantina di persone tra maestre, sbattitrici, scrutatrici, macchinisti e fuochisti.

               
                                      
Bozzoli

   Nella nostra zona i Barracco producevano anche la liquirizia. Nei pressi di Altilia, lungo la sponda del Neto, vi era un moderno  concio, opificio nel quale veniva preparata la pasta di liquirizia le cui radice veniva scavata nelle stesse proprietà del barone da squadre di vangheri. A questo proposito v'è da osservare che il territorio caccurese (così come quello di Cerenzia, soprattutto nei dintorni di Akerenthia) era ed è ancora ricchissimo di liquirizia.  Nel 1845 il barone lo dotò di un pressoio di ferro, uno dei più grandi fusi nel regno (probabilmente dalle ferriere di  Mongiana) del costo di 1.000 ducati. I Barracco seppero modernizzare la produzione di liquirizia rispetto al passato quadruplicandola. La stagione del raccolto e della lavorazione durava da marzo a novembre e tra vangheri, vaticali addetti al trasporto della radice e della pasta, conciari e spianatrici occupava molti lavoratori.
        Un’altra attività industriale presente nel territorio caccuresi all’inizio del XX secolo era quella della raccolta e della prima lavorazione della radica, ovvero il ciocco dell’erica arborea che veniva cavata dai “zommari.” I ciocchi venivano poi sbozzati, cioè ripuliti delle parti malate o compromesse. Questa operazione veniva effettuata da esperti mastri segantini. Si procedeva quindi alla bollitura, un trattamento che serviva per eliminare dalla radica il tannino e stabilizzare la fibra.  Queste prime lavorazioni  pare venissero un tempo eseguite nei pressi del ponte delle Monache.[2] Successivamente i ciocchi venivano avviati alla stagionatura che poteva durare anche alcuni anni.

              
                            Mulino ad acqua sul Cucinaro

   Tra le altre attività industriali vanno segnalati  anche le numerose calcare intorno all’abitato che trasformando la pietra calcarea della zona (soprattutto di Serra Grande) in calce viva, consentivano di ottenere poi l’idrossido di calcio o calce spenta con la quale si costruivano le case, i numerosi mulini ad acqua che sfruttavano le acque dei torrenti  Cucinaro e Matasse e che macinavano il grano prodotto a Caccuri e a Cerenzia e le botteghe artigianali .  
   Tutte queste attività non erano, ovviamente sufficienti a consentire a tutti un tenore di vita accettabile; molto c'era da fare, a cominciare da una buona riforma agraria che soddisfacesse finalmente l'antica fame di terra dei contadini e favorisse lo sviluppo di colture intensive e di pregio in sostituzione di quelle estensive e di scarsa qualità tipiche del latifondo. C'erano da realizzazione di infrastrutture moderne e efficienti, ma  ciò non figurava tra le preoccupazioni dei vari governi e così, pian piano, morirono di "morte naturale" anche queste poche fonti di reddito. 
   Come si vede, dunque, quello che normalmente viene definito come progresso, in realtà per i nostri paesi fu, viceversa, un regresso. Nella seconda metà '900, infatti  queste attività scomparvero e ai Barracco non si sostituì un ceto imprenditoriale altrettanto dinamico e illuminato capace di innovazione, ma non perché non ci fossero persone capaci di intraprendere (i caccuresi quando emigrarono nelle americhe e negli altri paesi europei dimostrarono il contrario), semplicemente perché erano venute meno le condizioni per farlo, né si cercavano di crearne di nuove. I vari governi che si succedettero non avevano alcuna intenzione di favorire la nascita di una moderna industria al Sud, anzi il loro interesse era di mantenere questa parte del Paese depressa e sottosviluppata per utilizzarla come serbatoio di manodopera a basso costo per la nascente industria del nord. Così, dopo le migrazioni bibliche degli anni a cavallo tra la fine dell'800 e il primi decenni del '900  dirette soprattutto nelle americhe, ve ne furono altre molto consistenti negli anni '50 e '60 che svuotarono i nostri paesi di forza lavoro e intelligenze a tutto vantaggio del cosiddetto triangolo industriale. Continuava così quel lungo processo di deindustrializzazione e delocalizzazione iniziato a Mongiana e a Pietrarsa e concluso con lo smantellamento della Montedison di Crotone, della Pertusola e delle altre aziende meridionali. Oggi si paventano analoghi processi anche al Nord e la cosa spaventa terribilmente chi come, al contrario di noi,  non ha mai conosciuto questi fenomeni. Noi, viceversa, parafrasando Marx, "non abbiamo altro  da perdere se non le nostre catene" e, a giudicare da numerosi fermenti che si notano in tutto il Mezzogiorno, nella nostra regione e anche nel nostro paesino, potremmo, tra qualche anno, avere perfino il piacere di veder risorgere e ripopolarsi le nostre contrade. Sono sempre più numerosi  infatti i giovani laureati, acculturati, che conoscono il mondo e le lingue che, invece di "imparare le lingue e andare all'estero" come suggeriva De Gasperi, imparano le lingue, ma decidono di rimanere in Calabria e nel Mezzogiorno e di trasformare in positività quelle che generalmente vengono considerate negatività, di produrre e sfruttare la conoscenza delle lingue straniere magari per vendere all'estero i loro prodotti. Molti di loro hanno già vinto la scommessa e potranno rappresentare un modello e uno stimolo per sempre nuove schiere di ragazzi intenzionati a non emigrare più. La Calabria e il Mezzogiorno devono rivivere:  lo meritano davvero.

  


[1] Marta  Petrusewicz, Latifondo, Marsilio , 1990, pagg. 66,67

 

[2] Notizia riferitami da mio nonno Saverio Chindamo di professione zommaro che nel 1902 giunse a Caccuri da Giffone (RC) proprio per cavare la radica caccurese.