Caccuri
tra l''800 e il '900: latifondo e piccole
industrie La conoscenza del passato per costruire il futuro di G. Marino |
Nel
1830 Rachele
Ceva Grimaldi, figlia dell’ultima duchessa di Caccuri, Marianna
Cavalcante e del marchese Giuseppe Ceva Grimaldi di Pietracatella,
Presidente del Consiglio dei ministri del Regno delle due Sicilie,
vendette il feudo di Caccuri, dell'estensione
di 4.571 tomolate (circa 1500 ha) e il castello al barone Barracco per
52.816 ducati. Successivamente, grazie all’acquisto di altri beni come
le proprietà ex ecclesiastici e altre acquisizioni i Barracco
arrivarono a possedere nel territorio di Caccuri ben 19,60 Kmq, pari al
34,20% dell’intero territorio comunale. Dopo Cutro (50,5%) e Isola –
Le Castelle (49,5%) era la più alta percentuale di territorio facente
parte della giurisdizione comunale di proprietà dei Barracco nei comuni
calabresi.[1]
Gran parte del restante territorio era nelle mani di pochi agrari,
spesso dipendenti o comunque legati al barone.
Uno altro dei numerosi fratelli, Guglielmo, che aveva sposato la giovanissima nipote Giulia, figlia di Alfonso, visse a lungo a Caccuri, paese del quale fu sindaco dal 1874 al 1888 (uno tra i più longevi). Furono lui e la moglie che diedero incarico all’architetto napoletano Adolfo Mastrigli di trasformare l’antico palazzo dei Cavalcanti in un finto maniero medioevale con la costruzione di un bastione e di una torre cilindrica merlata per nascondere un antiestetico serbatoio idrico che doveva alimentare il palazzo. Nell’occasione la baronessa donna Giulia fece murare nello spuntone roccioso che svettava sotto il rivellino un catino turchino nel quale cadeva a intervalli regolari una goccia di acqua e che serviva da abbeveratoio per gli uccelli. Vista dal basso la metà del catino turchino che sporgeva dalla roccia sembrava un mezza luna per cui lo spuntone venne ribattezzato con questo nome. Di grande effetto una famosa foto d'epoca, utilizzata anche come cartolina nella quale si vedono decine di operai intenti alla costruzione del bastione della torre.
Contestualmente il barone fece anche realizzare il parco annesso (la villa) la cui cura fu affidata al custode e giardiniere Vincenzo Parrotta. Alcuni anziani caccuresi negli anni ’40 e ’50 raccontavano ancora di quando da ragazzi vennero utilizzati per il trasporto delle piante di pino da mettere a dimora dal luogo dove venivano scaricate dal traino, più o meno nel luogo dove vent'anni dopo verrà collocata la Santa Croce, nella villa e della realizzazione delle vasche e dei giochi d’acqua rimasti in funzione fino agli anni '40 del secolo scorso.
Nel periodo nel quale don Guglielmo
fu sindaco di Caccuri e dimorò nel paese furono costruite anche la
fontana pubblica di Canalaci (1884), le Canalette e il muro di cinta
della vigna di Rittusa del quale rimane in piedi ancora qualche pezzo.
All’interno della vigna vi era un grande palmento i cui resti furono visibile fino a
qualche anno fa. Altro importante opificio dei Barracco a Caccuri era il
frantoio di Forestella, che frangeva le olive raccolte negli uliveti del
barone e nel quale lavoravano mediamente una decina di frantoiani per
ogni turno di lavoro. Le derrate alimentari venivano conservate nei
magazzini del convento, mentre il foraggio per muli e cavalli nell’ex
chiesa di San Marco (Pagliera), attuale villa San Marco.
Tra gli ultimi dipendenti caccuresi dei Barracco, oltre al già citato
giardiniere e custode del parco Vincenzo Parrotta ricordiamo il cuoco e
cameriere Luigi Pizzuti, il soprastante Domenico Loria, il mulattiere
Rosario Pasculli. Tra gli artigiani più apprezzati dai baroni che si
giovavano del loro lavoro figurava mastro Peppino
Gigliotti, fabbro, meccanico e maniscalco tra i più abili
dell’intera regione.
Nella nostra zona i Barracco producevano anche la liquirizia. Nei
pressi di Altilia,
lungo la sponda del Neto, vi era un moderno concio,
opificio nel quale veniva preparata la pasta di liquirizia le cui radice
veniva scavata nelle stesse proprietà del barone da squadre di vangheri.
A questo proposito v'è da osservare che il territorio caccurese (così
come quello di
Cerenzia, soprattutto nei dintorni di Akerenthia) era ed è ancora
ricchissimo di liquirizia. Nel 1845 il barone lo dotò di un pressoio di ferro, uno dei più grandi
fusi nel regno (probabilmente dalle ferriere di Mongiana)
del costo di 1.000 ducati. I Barracco seppero modernizzare la produzione
di liquirizia rispetto al passato quadruplicandola. La stagione del
raccolto e della lavorazione durava da marzo a novembre e tra vangheri, vaticali addetti
al trasporto della radice e della pasta, conciari e spianatrici occupava
molti lavoratori.
Tra le altre attività industriali vanno segnalati anche
le numerose calcare intorno all’abitato che trasformando la pietra
calcarea della zona (soprattutto di Serra Grande) in calce viva,
consentivano di ottenere poi l’idrossido di calcio o calce spenta con la
quale si costruivano le case, i numerosi mulini ad acqua che sfruttavano
le acque dei torrenti Cucinaro
e Matasse e che macinavano il grano prodotto a Caccuri e a Cerenzia e le
botteghe artigianali .
[1] Marta Petrusewicz, Latifondo, Marsilio , 1990, pagg. 66,67 [2] Notizia riferitami da mio nonno Saverio Chindamo di professione zommaro che nel 1902 giunse a Caccuri da Giffone (RC) proprio per cavare la radica caccurese.
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