ALLE FOCI DEL PO CON

PAVESE, MORSELLI ED HEMINGWAI

 

Racconto di Vincenzo Guerrazzi

 

In quel periodo soffrivo d'insonnia. Non riuscivo a dormire più di tre ore per notte. La mia casa è rumorosa come una fabbrica: è stata costruita in mezzo a due autostrade. Decisi di andare alle foci del Po, in quella pianura desolata e grande quanto un pezzo di mare coltivata ad erba medica e frumentone.

Mi fermai ad Oca Marina, poche case sparse qua e là_nella pianura.

C'era un bar ed una chiesa fatta con i finanziamenti della Riforma. Dietro il bar c'era l'argine del Po. Guardai l'acqua e mi sembrò ferma come quella di un lago. Entrai nel bar. Seduto ad un tavolo c'era un signore sui sessant'anni, non tanto alto, piuttosto magro e ben vestito. Salutai: "Buongiorno". La donna del bar rispose mentre l'uomo borbottò: " Lo sapevo, lo sapevo che sarebbe andata a finire cosi". La sua faccia era turbata. Continuò: "Me l'immaginavo. Io ho sempre creduto in quello che facevo, eppure mi è capitata la cosa peggiore di tutte". L'uomo continuò a parlare da solo. "Ecco: sono stato uno stupido, e come tutti gli stupidi ho commesso un sacco di stupidaggini, ho lavorato per niente". Si girò verso di me e disse: "Vieni avanti, Guerrazzi, siediti qui con me".- Come fa a conoscere il mio nome ? - pensai sedendomi al suo tavolo. L'uomo mi offrì un caffè. I suoi capelli color ginestra, appena grigi, erano impomatati di brillantina. L'uomo tossì e si raschiò la gola. Ci guardammo per qualche minuto negli occhi, poi mi disse: _Sono Guido Morselli". Ci toccammo la mano. Lo guardai, dovevo avere un'espressione strana. Ebbi uno scossone vedendo i suoi occhietti che scintillavano come quelli di un gatto nel buio. Lui notò il mio turbamento e distolse lo sguardo da me. Mi offrì una sigaretta e fumai con lui. "Nella Valle dell'Oca si sta veramente bene" disse. Non risposi e ripetè: "Qui, a Ca' dell'Oca si sta bene perché ci vive gente semplice". Un po' confuso risposi: "E' la prima volta che ci vengo, non saprei dire".

Morselli rimase un momento zitto, come se riflettesse; poi si spinse indietro con la sedia, mise la mano in tasca e tirò fuori una lettera. L'aprì, la guardò un attimo, la piegò e la posò, sul tavolo. Disse: "Un pomeriggio piovoso ero nel bar del mio paese, bevevo un caffè come adesso, lo bevevo così per vizio, senza slancio. Quel giorno ho ricevuto questa lettera. La fissavo come adesso perché non avevo il coraggio di leggerla. Mi rispondevano quelli della Mondadori". Le sue mani delicate si agitarono e ripresero la lettera. Si mise a leggere: "Caro dottor Morselli, come le avevamo detto per telefono, le rimandiamo il suo dattiloscritto. Lo stato di stropicciatura in cui si trova, e ce ne scusiamo, testimonia il fatto che è stato visto da più persone e discusso a lungo. Per chiarirle i nostri dubbi le stralciamo il brano più significativo della recensione che è stata fatta qui in casa editrice.-...perché il materiale de "Il Comunista" risulti utile ci vorrebbero delle modifiche radicali, una diversa organizzazione del materiale (trasversale, probabilmente per argomenti), un puntuale sforzo d'intervento e di spiegazione. Mi sembra che questo sia inaccettabile per l'autore. Consiglio perciò di non pubblicare questo romanzo così com'è, spiegando all'autore che in letteratura si è liberi di dire la propria verità, con le luci, i buchi e i significati profondi che si vuole nascondervi: ma i requisiti politici di un romanzo politico sono ben diversi. -

Dio mio com'è ributtante un giudizio cosi! Ma cos'hanno letto quelli?" esclamò. Rimise la lettera in tasca. Morselli non riusciva a sfogare la sua agitazione né con le parole, né con le esclamazioni. Nel suo viso lessi un senso di sconfinato disgusto che lo tormentava fino a strappargli il cuore. Si alzò e camminò come un ubriaco avanti e indietro per il bar. Si guardò attorno, si avvicinò a me e disse: "Vieni, andiamo a fare una passeggiata sull'argine del fiume". Pagò il conto e uscimmo.

C'incamminammo entrambi in silenzio, poi lui disse: "Hai già trovato dove dormire?" Risposi di no.

"Io ho una piccola casa che divido con un amico qui vicino, a Gorino Sullam. C'è un posto anche per te". Non risposi.

Incominciava ad imbrunire e noi continuammo a camminare lungo l'argine del Po dove ormai c'era soltanto l'impronta del giorno. L'acqua del fiume vibrava al profumo dell'aria sotto l'ultimo spettro di luce.

La casa era quieta e buia. Nessuna luce era accesa. Non so perché seguivo quell'uomo dai modi gentili e mi trovavo completamente a mio agio anche se l'avevo appena conosciuto. Vieni avanti, vieni avanti" mi disse, e lo seguii in una stanza dove c'era un uomo che si pettinava. Lo vidi nello specchio ansimante e bianco come la calce. Le sue mani scarne si arrestarono come fiori sui capelli. Si girò verso di noi e Morselli disse guardandomi: "Ti presento Pavese". L'uomo mi lanciò un rapido sguardo che mostrava una specie d'avversione. Mi porse la mano e mi chiamò: "Guerrazzi...."I suoi occhi erano scuri, neri. Morselli girò la testa e si avviò verso un'altra stanza dove io e Pavese lo seguimmo. Pavese in piedi, vicino a me, si aggiustò gli occhiali leggermente affumicati e mi chiamò ancora: "Guerrazzi.. .. "Lo guardai e lui mi pose la mano sulla spalla. Quel contatto mi fece rabbrividire. Cercai di ritrarmi. "Non toccarlo, lascialo stare" disse Morselli. A quel richiamo la sua faccia già bianca si scolorò ancora di più e con voce dura e aspra mi disse: "Ma che diavolo sei venuto a fare qui, nella Valle dell'Oca?" Morselli rispose per me: "A casa sua non riesce a dormire la notte per i troppi rumori. E' venuto qui per riposare." L'abito che indossava Pavese gli scendeva giù come il sacco che copre lo scheletro di uno spaventapasseri.

Ci sedemmo sulle poltrone che erano sparse per la stanza in modo disordinato. Morselli poggiò la fronte sul bordo del tavolo accanto alla sua poltrona e stette un momento a pensare. Poi alzò la testa e gettò a Pavese uno sguardo indifferente. Si girò verso di me, si alzò, andò alla finestra e l'aprì. Un mezzo raggio di luna, allargandosi attraverso l'aria umida, entrò con una luce giallastra e diluita e illuminò parte della camera e il viso di Pavese. Morselli aspirò una boccata d'aria fresca e umida di rugiada. Il suo viso appariva sconvolto e amareggiato. Disse: "La gente si contenta di vivere anche in un mondo miserevole, pur di vivere". Pavese si passò la mano gracile sulla fronte e gli andò vicino. Erano sorprendentemente simili. Morselli si diresse verso la scrivania, aprì un cassetto e prese un'altra lettera. Pavese disse: "L'uomo è vigliacco. E' un vigliacco perché accetta di vivere in qualunque maniera pur di vivere". Si risedette ed io lo guardai con curiosità. Morselli cominciò a leggere la lettera. Le righe gli ballavano davanti agli occhi: scorse la lettera con lo sguardo, si fermò su di un passo e a voce alta lesse: "_E' un problema che nella mia qualità di lettore di casa editrice non mi riguarda da vicino. Il suo romanzo, signor Morselli, se riscritto lo troverò senz'altro stuzzicante. Da quel che lei dice nella sua lettera d'accompagnamento al testo, la sua vita di scrittore senza fortuna è divisa in tre parti. Non sia pessimista e abbia fiducia nella vita. Mi permetto di darle un suggerimento da amico: si legga i nuovi narratori americani e poi riscriva il suo romanzo. Noi dell'Einaudi saremo ben lieti di fare di lei un narratore fortunato. Suo Cesare Pavese".

Il viso rigido e serio di Pavese lentamente si coprì di rossore. Rispose: "Il fatto primordiale per il quale io ho respinto il tuo libro, all'Einaudi, scrivendoti quelle sciocchezze, è stato un atto d'amore, un atto d'amore verso un giovane che si vedeva realizzato solo se fosse riuscito a fare lo scrittore. Nella vita ci sono altre cose più importanti, come l'amore di un bambino, il corpo caldo di una donna che ti ama e che ti sta accanto... Altro che scrivere libri! "Morselli teneva ancora stretta fra le mani, la lettera. Tremava tutto e cercò di rispondere, ma la voce gli s'incrinava. Fece uno sforzo finalmente disse: "Il corpo di una donna ti può scaldare per cinque minuti, per un'ora o al massimo per un giorno se sei un tipo troppo freddoloso. E poi? Poi ti rimane solo il ricordo, che al massimo dura un altro giorno. E' troppo comodo parlare così quando si sono già avuti le pubblicazioni, i premi e i successi che non durano un giorno o una vita...." Morselli agitatissimo s'interruppe. Pavese rispose: "Ti sbagli. Ho visto il mio nome ambulare su tutti i giornali e ti assicuro che non ero felice. Mi sentivo come un invalido che si spinge fuori nella notte ad implorare l'elemosina, ma io non avevo nemmeno questa forza perché ero un invalido debole e spettrale, sul quale si era abbattuta inesorabile l'ora della morte". Morselli lo guardò in silenzio, aveva il volto pallido, quasi triste, e non rispose. Pavese continuò: "No, non credo di avere fatto male a rifiutare il tuo romanzo..."Fece una lunga pausa e guardò distrattamente Morselli.

Improvvisamente notai un cambiamento nei suoi occhi: il suo sguardo distratto si era trasformato in uno sguardo attento, interessato, come l'obiettivo di una macchina fotografica quando mette a fuoco l'oggetto. Chiese in modo quasi brusco: "Ora che hai il successo, sei felice?" Morselli si raschiò la gola e senza entusiasmo rispose: "No, non abbastanza". Il viso magro e asciutto di Pavese aveva un'espressione strana. Disse: "La letteratura non potrà mai darti la felicità. Sono contento, tanto contento che tu non sia felice per il successo che hai".

"Basta!" esclamò in tono deciso Morselli. "Tu sei invidioso perché non vuoi che altri raggiungano il tuo successo, il tuo terribile successo". Pavese corrugò la fronte, rifletté un attimo e rispose: "Guido, scaccia via le ombre, le false felicità e i fantasmi del successo. Io non sono mai stato invidioso di nessuno. Io ho invidiato solo coloro che sono riusciti ad avere una donna nella loro vita. Hai ragione, ho avuto molto successo, un 'terribile successo' come lo chiami tu; ma sappi che proprio nel periodo in cui il mio nome ballava con ritmo frenetico da un giornale all'altro, la mia vita procedeva esitante; e ti assicuro che ho penato molto". Morselli gridò: "Niente, niente, non c'è proprio niente di più penoso che lavorare una vita e non raccogliere nulla". Si fissarono negli occhi. "Le donne" disse ancora Morselli "le belle donne io le ho avute tutte, anche quelle grinzose, quelle che si caricano di gioielli e si imbellettano il viso per dimostrare un'eterna giovinezza... Tutte le ho frequentate, e non ho trovato quella pace e serenità che tu pensi che diano. Le donne....! Solo la pagina scritta ti può dare la gioia e il sapore della vita. "Una ricca e bella pagina scritta non ti potrà mai dare quel calore e quella serenità che ti danno la voce e il corpo di una donna" rispose Pavese. "Quando riuscivo a scrivere una bella pagina, ricca di aggettivi e sostantivi, la leggevo e rileggevo più volte e alla fine non sentivo e provavo nessun calore. Il calore lo provavo al massimo solo quando trovavo il coraggio e la forza di bruciarla. Ma era un calore che durava un attimo o poco più: il calore della fiammata, un calore effimero. Al contrario, quando mi capitava di imbattermi in una bellezza senza equivoci nel fiore della propria femminilità, provavo sensazioni che mai pagina scritta mi aveva dato. E quando il mio sguardo supplice vagava alla ricerca di un conforto anche sfuggevole e superficiale, tutta la mia vita si accalorava e provavo emozioni cosi grandi che nessun successo letterario non potrà mai dare".

Morselli si alzò e si mise a camminare irritato senza fermarsi. Agitava nervosamente la mascella, il suo viso si era incupito e aveva assunto un'aria quasi violenta. Rispose: "Sai che ti dico? Tu deliri".

"No, non deliro" rispose Pavese con molta calma, e aggiunse: "Non era bello entrare in una casa dove ristagnava solo l'aria cupa dei libri, dove mi torturavo e straziavo e non sapevo nemmeno io cosa facevo. Ero solo con gli scritti... E così un anno, e poi ancora un altro e poi un altro ancora. Mi ero ammalato e non smettevo mai di torturarmi: ero solo con il successo ma senza la voce di una donna. Con me c'erano le parole mute dei miei libri che prendevano corpo solo quando leggevo a voce alta". Morselli lo squadrò da capo a piedi, poi rispose: "Ti ripeto: _Ho scalato tutti i gradini che portano alle donne; ho frequentato compagnie vivaci; ho fatto una vita allegra con donne sempre diverse, quelle che tu hai cercato per tutta la vita. Mi hanno dato tutto e non mi è rimasto nulla. Solo di alcune ricordavo qualche particolare, alcune espressioni che già all'indomani erano svanite. No, Cesare, tu hai avuto tutto, tu hai ancora tutto". Pavese si irrigidì e rimase immobile come un morto. Lentamente si tolse gli occhiali e lo guardò.

Nella stanza ora c'era silenzio, un silenzio di tomba che durò alcuni minuti. Poi Pavese si alzò, si diresse lentamente verso Morselli e si fermò ad un passo da lui. Incominciò a parlare, ma la voce gli tremava talmente forte che gli morì in gola. Si rimise gli occhiali e si scrollò nelle spalle come se avesse un brivido. Rifletté per qualche secondo e infine disse: "Se tu non hai quella data donna è come se la luna risalisse sempre più in alto e ti succhiasse e risucchiasse il cuore..." Ebbe un sussulto come se un pensiero gli avesse attraversato il cervello. Ritornò verso la poltrona e si rimise a sedere. Morselli scosse la testa e borbottò qualcosa tra se. Pavese continuò : "Ricordo quelle spalle coperte e quel collo. Tutto in lei era studiato e ricercato con cura straordinaria. Scopriva quel tanto che mi portava a perdizione. ."Questi sono falsi problemi. Non mi riguardano" rispose secco Morselli. "Io ho penato molto. Ho passato notti e notti insonni tormentato dai rumori e dai rifiuti degli editori". Il suo viso divenne di fuoco. "Le sensazioni e il calore di una pagina scritta, non c'è donna al mondo che te li possa dare. Tu questo non vuoi accettarlo perché hai avuto tutto". Pavese si voltò e lo guardò commosso. Disse: "Va bene, pensa quello che vuoi. Io non so più niente, so solo che ora stiamo percorrendo la stessa strada e che abbiamo la stessa meta". Gli occhi di Morselli si fecero terribilmente, immensamente infelici. Mormorò: "Non capisco". Pavese abbozzò un leggero sorriso, quasi amaro, e disse: "Non capisci? E' che capisci, tu non vuoi capire. Non hai fatto così anche tu? Mi spiego. Anche tu hai saltato l'ostacolo, sei riuscito a superare l'asticella... Potevi fare a meno di saltarla perché avresti potuto essere felice con le tue donne e i tuoi amici, ma non hai resistito alle seduzioni della pagina scritta e del successo. Possibile che tu non abbia mai visto che nel corpo caldo di qualche tua donna si nascondeva un bambino?" Morselli si passò la mano sui capelli. Appariva svogliato e stanco. Mormorò bruscamente e in tono severo, girandosi dall'altra parte come se si vergognasse: "A me i rumori danno fastidio, e i bambini ne fanno molto". Pavese sollevò la testa e lo fissò in silenzio, con sguardo duro, quasi selvaggio disse:" Io non ho mai avuto bambini perché non ho mai avuto una donna; io ho avuto solo il successo, quello che tu hai tanto cercato, quello che non mi ha liberato dalla solitudine. A me i bambini non davano fastidio e il rumore mi piaceva perché nel rumore ci vedevo la vita". Gli occhi di Morselli scintillavano di collera. Rispose: "Adesso ce l'hai la famiglia. Siamo una famiglia, viviamo assieme". Pavese si volse verso di me e disse: "Questa casa mi opprime, usciamo". Morselli rispose: "Prima beviamo qualcosa, perché ho tanta sete da bermi il Po". E si diresse verso un piccolo frigo ch'era lì in un angolo. Tirò fuori delle lattine di aranciata e ne offrì una a me e una a Pavese. Disse: "Io ho sempre amato scrivere... I miei racconti non sono imitazioni: non sono nemmeno originali, ma sono veri. Nel bar quasi sempre deserto del mio paese passavo intere giornate a scrivere". Mentre parlava si agitava, Pavese sorrise malignamente. Morselli fece finta di non vedere e continuò: "Forse scrivevo delle cose stupide, ma è il mondo che è stupido". Posò la lattina vuota sul tavolo e aggiunse: "Che il diavolo si porti via tutti gli editori".

Pavese rispose: "La cosa migliore era andare a ballare. Tu ci sei andato, ma non ti sei fermato. Hai tradito te stesso".

"Uh, uh, uh," sghignazzò agitato Morselli, e si fermò di colpo. Appariva turbato, sconvolto; il suo viso assunse un'espressione penosa e vuota. Disse: "Il ballo è un vero schifo, è una porcheria. A me non piace ballare. Che vadano i critici a ballare!" Volse lo sguardo verso di me. Vidi tanta rabbia in quel viso gentile, ma subito si dissolse perché scoppiò in una gran risata. Pavese si alzò e disse ancora: "Perché non usciamo da questa casa? Andiamo a fare una passeggiata sull'argine del fiume. Vediamo i pescatori di anguille e che cosa pesca Hemingway". Morselli non rispose e sprofondò ancora di più il suo corpo nella sedia. "Andiamo a vedere pescare" insistette Pavese.

Uscimmo. La luna era alta nel cielo e si specchiava nell'acqua scura del Po, Migliaia di lucciole accendevano ad intermittenza il loro sedere nella notte cieca e oscura di Gorino Sullam. Un gallo cantò e un altro gli rispose. Si misero a gara. A tratti la luna spariva dietro nuvole cariche di pioggia e si faticava a distinguere le cose. Pavese chiamò: "Ernest, Ernest!"

"Che ti venisse un accidente, figlio di un cane!" rispose una voce dura e rude "Mi hai fatto scappare un rainato grosso più di cinque chili". Alcuni cani si misero ad abbaiare. Arrivammo sulla riva del fiume. Nascoste tra le canne che crescono nell'acqua c'erano tante barchette. Al centro del fiume c'era un burchiello con sopra un uomo dalle spalle larghe e leggermente curve sulla cui barba si riflettevano i raggi della luna. "Ernest" chiamò ancora Pavese."E fai silenzio!" gridò l'uomo "per Dio questa non è l'ora di venire qui a rompere le scatole". Pavese rispose: "Ma che ti succede, Ernest?"

"Chi c'è lì!?" disse l'uomo diffidente. "Ma siamo noi, Cesare e Guido" lo rassicurò Pavese. L'uomo in barca non rispose subito; poi con voce irritata disse: "Bene, andate a puttane, voi che non avete capito nulla della vita, del mare, del fiume e dell'erba d'erba umida". Pavese guardò Morselli e disse: "Vedi, Guido, noi due messi assieme facciamo un Hemingway. Tu con le tue donne, io col mio successo". Morselli non rispose. Intanto una nebbia fitta e lattiginosa si levava lentamente dal fiume. Pavese e Morselli s'incamminarono. Cercai di seguirli, ma non ci riuscii. Chiamai: "Signor Pavese, signor Morselli, aspettatemi, sono rimasto indietro, non ce la faccio a tenere il passo perché le vostre gambe sono troppo lunghe.

Nessuno rispose. Restai solo mentre loro venivano inghiottiti dalla nebbia.

 

 

 

Vincenzo Guerrazzi


Vincenzo Guerrazzi
H o m e P a g e