I TEMPI CAMBIANO

di Vincenzo Ballo

Boom!

 

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Il giorno della partenza si avvicina. La prima volta che lasciai il paese, a parte l’essere andato in giornata a Caltanissetta, Enna e Barrafranca, fu quando mi recai per la visita militare a Palermo. In quell’occasione feci il primo viaggio in treno, le carrozze avevano i sedili di legno della ex terza classe, e dai finestrini entravano granelli di cenere del fumo della locomotiva a vapore. Nei pressi di Termini Imerese vidi per la prima volta il mare, e il suo blu intenso mi fece un certo effetto. L’avevo visto al cinema, nei film in technicolor e forse con un blu ancora più bello, ma a vederlo di presenza sembrava incredibile. Da ragazzo mio padre me lo aveva indicato da un punto delle Serre di Mezzo, ma era lontano e sembrava una piccola pianura grigia dalle parti di Licata. Ora lo guardavo da vicino e in uno dei tre pomeriggi liberi sarei andato a bagnarmi nell’acqua trasparente sulla sabbia di Mondello. Un altro pomeriggio l’avrei dedicato per una visita alla suggestiva grotta di Santa Rosalia sul monte Pellegrino, e con l’occasione avrei ammirato i bei panorami tutt’attorno. Poi, se “chi va a Palermo e non va a Monreale parte cristiano e torna animale”, non potevo rischiare tale metamorfosi. Il detto è sicuramente dovuto all’incantevole Duomo della piccola località, coi mosaici fra i più belli e vasti del mondo, ma scoprii ch’è bello pure l’abside esterno, ammirevole il chiostro con le coppie di colonnine tutte diversamente decorate e, dietro la piazza, come dessert di meraviglie, la terrazza del belvedere sul panorama della Conca d’Oro, allora tutta verde di agrumeti, ora punteggiata di villette. Vi tornai dopo cena per assistere alla trasmissione televisiva in diretta Campanile sera, della quale la cittadina fu a lungo campionessa, e in quella puntata vi furono ospiti alcuni celebri attori che in quel periodo giravano un film a Taormina. Insomma vedevo un mondo nuovo e diverso che m’invogliava di più a lasciare il paese.

A Palermo sarei tornato per tre mesi di servizio militare nel Centro Addestramento Reclute e avrei avuto molti pomeriggi a disposizione per visitare la città, che nel passato è stata fra le più belle del mondo e rimane una delle più belle d’Italia. Potei ammirare i suoi monumenti, le sue ville e giardini con fantastici alberi tropicali, il suo Duomo ed altre bellissime chiese, piazza Pretoria detta piazza Vergogna per la grandiosa fontana con una quarantina di statue di nudi. Ma a scuola non avevamo mai letto delle sue bellezze, non si parlava degli artisti che l’avevano fatta bella, ci avevano fatto conoscere forse solo i tre grandi del Rinascimento (Leonardo, Michelangelo e Raffaello) che vissero altrove. Ancora oggi non ha la fama che merita, molti hanno sentito parlare solo del mercato della Vuccirìa e tutti associano il nome di Palermo alla mafia. Le reclute settentrionali notavano solo che era sporca, non alzavano gli occhi per conoscerla meglio, non si guardavano attorno per esplorarla. A loro non piaceva, forse perché non amavano la vita di caserma e di riflesso non amavano la città, o forse per i pregiudizi verso i siciliani e tutto quello che era siciliano. Ci chiamavano arabi, ignorando la grande civiltà araba e non considerando quella greca, ci giudicavano tutti ignoranti e incivili, dandosi arie di superiorità, persino gli stupidi e gli zotici. A saperlo, si poteva far notare che “cretino” era il nome che designava gli abitanti delle valli alpine. Ma sarebbe stato ugualmente ridicolo basarsi su denominazioni generiche per giudicare le persone. Alcuni ignoravano che la Sicilia fosse un’isola, sapevano solo che avevano dovuto attraversare lo Stretto per venire a Palermo e con ciò la ritenevano staccata dall’Italia e non degna di farne parte.

Il problema principale di Palermo era, esclusa la mafia che su di noi militari non influiva, la scarsità di acqua. I rubinetti restavano chiusi per giorni e le latrine s’intasavano, tanto che il nostro colonnello, persona intelligente, corretta e di buon cuore, mise delle reclute di guardia ai gabinetti per impedire che ce ne servissimo. Poiché non eravamo angeli, nei casi di quotidiana stretta necessità ci nascondevamo dietro gli alberi e le siepi.

Passarono più di quindici giorni prima di concederci la libera uscita, perché bisognava imparare bene a fare il saluto. Chiuso in caserma, anche se non prigioniero, costretto a seguire le istruzioni e marciare sul vasto piazzale che qualcuno aveva chiamato, col titolo di un film, la Pista degli elefanti, la vita strascicava fiacca e si cercava di alleviare la noia con il fumo. Io avevo fumato la prima sigaretta a tredici anni, offertami per prova da un ragazzo più grandicello di me, un giorno che eravamo andati a zappare da soli perché mio padre non era potuto venire: me la confezionò a mano, arrotolando la cartina col trinciato forte, come facevano tutti i fumatori. Ma io ho la fortuna di non prendere i vizi e anche da giovanotto fumavo solo qualche sigaretta quando andavo alle cantuneri per darmi un tono, aspettando che si affacciasse la carusa e, poiché mio padre mi concedeva di uscire solo il sabato sera, per andare dal barbiere, e la domenica, posso dire che fumavo quattro-cinque sigarette alla settimana, compresa quella che mi accendevo per abitudine appena mettevo piede fuori dalla porta, prima di scendere i pochi gradini esterni. (Ma sovente le spegnevo prima che si consumassero, per riutilizzarle in una seconda occasione, com’era uso fare allora). Ebbene, in caserma arrivai a fumarne diciassette al giorno, ma quando cominciai a uscire smisi completamente. Poi avrei ripreso a fumarne qualcuna e dopo cinque-sei anni avrei smesso definitivamente.

Fuori dalla caserma ebbi occasione d’incontrare il compaesano Calogero Rizza, che era stato contadino come me. Ora era sergente, ma parlammo di studio. Ho letto poi, con piacere, che conseguì la laurea in giurisprudenza e divenne tenente colonnello di Cavalleria.

[Nota 19-1: “Io li vedo così” di Felice Guarnaccia, 1989].

Prima che ci trasferissero chiesi una licenza di trenta ore per tornare a rivedere i miei genitori. Bisognava andare per via gerarchica e mi rivolsi al tenente, il quale mi disse di doverne parlare al capitano, che però era in licenza. Saltai la gerarchia e, in una pausa di esercitazione nel piazzale principale, mi presentai al maggiore che vidi passeggiare con un altro ufficiale. Mostrava un aspetto severo ma avevo sentito dire che fosse una brava persona. E infatti mi diede più di quanto chiesi. Cosicché, quando tornai dalla licenza, trovai che tutti i colleghi erano in partenza di trasferimento ed io non risultavo nella lista. Così rimasi per qualche giorno a Palermo e avrei voluto che la permanenza continuasse, perché si faceva la pacchia: la mattina non suonava la sveglia, ci si alzava a piacimento, all’ora del rancio si andava a prendere la marmitta e ci si serviva a tavola, il pomeriggio libero per il giro turistico. Purtroppo restò anche un’altra recluta, forse per causa di malattia. Era un ragazzo bravo e intelligente ma, offuscato dai pregiudizi, non gli piaceva stare e brigò per accelerare il trasferimento. Così anch’io dovetti lasciare il luogo che per me era una delizia e fui trasferito al 155° Reggimento di Artiglieria Semovente di Udine. Lungo il viaggio mi disse: «Ballo (è il mio cognome), andiamo nella civiltà». Mi sentii un po’ offeso e in seguito, vedendo un bambino piccolo sul tram trattare in modo maleducato sua madre, avrei detto tra me «Se questa è la civiltà, io ci rinuncio» (da noi c’era molto rispetto verso le persone più grandi). Ma in generale l’educazione verso il prossimo era notevole: gl’impiegati usavano riguardo col pubblico, i negozianti coi clienti, nelle code ai negozi la precedenza veniva rispettata da tutti e con tutti.

Purtroppo negli anni seguenti avrei constatato che, con il progredire della cosiddetta civiltà, la maleducazione sarebbe aumentata, specialmente negli anni Settanta, in coincidenza col terrorismo, aggiungendosi alla prepotenza e colorandosi di volgarità. Questa, ormai spettacolarizzata, oltre che dal cinema, anche dalla radio e dalla televisione, le quali dovrebbero avere maggior rispetto delle famiglie in cui entrano, l’hanno elevata alla normalità e molti si esprimono con parole e gesti scorretti, in qualsiasi luogo e in presenza di chiunque, senza rendersi conto di essere volgari. Tanti genitori non si controllano davanti ai figli e lasciano che i piccoli li imitino. Una volta l’educazione s’insegnava con gli scappellotti; oggi non è insegnata. Si diceva di non bere in bottiglia e di non mordere rumorosamente la frutta; oggi la televisione mostra il contrario. C’era rispetto per gli anziani; oggi siamo tutti uguali; ma in nome dell’arrivismo ci si scavalca con spudoratezza, inganno, calunnia, cattiveria e prepotenza: la chiamano grinta. Più nessuno cede il posto a sedere, né a vecchi né a donne incinte.

 

[Segnalibro: mattino

Il mattino successivo alla partenza, mi svegliai col vociferare quasi allegro di gente che andava a lavorare in treno. Parlavano un’altra lingua, non era più solo l’accento diverso che avevo sentito dai commilitoni settentrionali (e che due ragazzi siciliani incolti imitavano credendo così di parlare in italiano). Guardai fuori dal finestrino e vidi un’altra terra: una vasta pianura con l’orizzonte piatto che si perdeva nella foschia. Attraversammo un fiume e credo fosse il Po con la sua grande massa d’acqua fra gli argini. Al Nord tutti i fiumi sono pieni d’acqua, con l’eccezione del  Torre, che in alcuni tratti si nasconde sotto il letto, quasi come il Timavo, che addirittura si inabissa in Slovenia e dopo quaranta chilometri riappare in Italia, vicino alla foce, in numerose bocche, grande e calmo da non sembrare neanche un fiume. Durante le esercitazioni sul Carso mi avrebbero sorpreso le doline, piccoli “crateri” nella roccia e sul fondo la terra coltivata, senza che l’acqua vi risiedesse. E c’erano ancora le trincee, dove i soldati della prima guerra mondiale si riparavano e da dove partivano per l’attacco, mandati a morire, facile bersaglio del nemico trincerato in posizione più elevata.

Appena giunto in caserma, un soldato “anziano” mi prese il berretto e strappò coi denti il fregio della Fanteria, come una belva che lacera la preda, felice di poterlo fare. Io la considerai una stupidaggine e lo lasciai sfogare. Quando poi qualcuno, “nonno” in quanto fra i prossimi congedanti, mi chiese di preparargli il letto, mi rifiutai: non accettavo che un uomo dovesse essere servo di un altro, addirittura collega. Ma avrei subito ritorsioni pesanti se fra i congedanti non ci fosse stato un santo protettore nella persona dell’amico e parente alla lontana Sariddu Lisi (Rindone), che a mia insaputa fermò la punizione.

Dopo qualche giorno fui trasferito al Distaccamento di Cervignano e vi trovai una certa democrazia: gli anziani chiedevano solo che gli si portasse il caffè in branda. Anche questo non lo ritenevo giusto e per evitarlo, senza fare storie, mi avviavo quando tutti erano usciti per la colazione e chi era rimasto, in attesa di bere il caffè a letto, aveva già chiesto a qualcun altro di portarglielo. Visto che facevo il furbo, a pranzo o a cena spesso mi ordinavano di portare il rancio a chi stava punito in cella di rigore. Preferivo questo, sebbene mi causasse disagio, dovendo mangiare in ritardo, che fare il servo a un commilitone.

Io non pretesi e non chiesi mai a nessuno di farmi un “favore”, me ne sarei vergognato. Ma una volta, quand’ero anziano, lo fecero altri per me, però sarebbe stato meglio se non lo avessero fatto.

Era successo (dirò poi come) perché io amo conoscere, se ne avessi avuto la possibilità avrei girato il mondo, ma non ho visto nemmeno l’Italia come avrei voluto. Mi piace andare pure nelle zone non frequentate dai turisti, perché lì c’è l’essenza dei residenti e una città diversa da quella conosciuta. Certamente escludo le zone insicure, dove semmai si potrebbe andare accompagnati da qualcuno del quartiere o da un poliziotto di rispetto (ma non da due, perché potrebbero pensare che ti abbiano arrestato e per liberarti aggredirebbero i tuoi angeli custodi). Mi sentirei a disagio tra le bidonvilles del Terzo mondo; e non m’interessa fare l’esploratore, col rischio di finire in brodo o sacrificato a sconosciuti dèi. Escluso il pericolo, sarebbe interessante fare un salto indietro nei secoli e vedere come vivevano in quei tempi, tornando poi però ai giorni nostri. Mi piace vedere le bellezze della natura e le grandi opere costruite dall’uomo, notare i progressi della scienza, i cambiamenti avvenuti nell’architettura, nell’arte e nel modo di vivere. In mancanza di tempo, mi accontento di girare per le strade e le piazze e visitare le chiese. Qualcuno ha sorriso nel sentirmelo dire, perché gli è sembrato che andassi solo per pregare, e non ci sarebbe niente da ridere: visitare le chiese è un modo semplice ed economico per ammirare molte opere d’arte. Mi piace l’armonia del Rinascimento, la grandiosità del Barocco, l’arditezza del Gotico, l’atmosfera mistica di raccoglimento all’interno delle chiese Romaniche.

Poiché a Catania prendevo il treno “Freccia del Sud” e con la prima coincidenza a Bologna sarei arrivato in caserma verso le cinque pomeridiane, mi fermavo lungo il percorso per visitare una città e prendevo un treno successivo che mi avrebbe consentito di arrivare prima di mezzanotte. Quella volta mi fermai a Roma per vedere la Basilica di San Pietro e salire sul cupolone. Avevo controllato il tempo di andata per regolarmi nel ritorno, solo che poi c’era molto più traffico e persi il treno utile per Trieste che fermava a Cervignano. Salii sul successivo che andava a Venezia ma non c’era nessuna coincidenza per proseguire. Così dormii in un posto militare nella stazione di Mestre e presi il primo treno del mattino successivo. Mi aspettavo una punizione di rigore perché il maggiore era molto severo, e quella volta mi aveva dato una doppia licenza premio, per aver disegnato due tabelloni con camion, carri armati e tanks [Nota19-2: Mezzo con due ruote anteriori e due cingoli posteriori], utili per spiegare le esercitazioni militari, e lavorato da manovale muratore nella costruzione di due pareti in fondo alla lunga camerata, al fine di ricavare stanze da destinare ai sottufficiali. Per questi favori certamente ci guadagnava ed era solito dare cinque giorni di licenza, che potevano andare bene per i settentrionali ma per un meridionale erano insufficienti, perciò gli dissi che avrei rinunciato. Generosamente egli mi diede due licenze di cinque giorni più due giorni per il viaggio.

Al rientro, in caserma arrivai tardi, ma ebbi fortuna: per non farmi vedere dall’ufficiale di picchetto passai dalla porta carraia, dove c’era di servizio un sergente amico, e quando giunsi in camerata non mi vide nessuno, perché erano tutti a prendere il caffè. Ma dovetti rimettere a posto la branda preparata per dormire, dato che era ora di riprendere servizio.

A Cervignano avevo fatto amicizia con un commilitone romano, dopo averci litigato, e con un farmacista di Ascoli Piceno, Albertini, che poi fu trasferito a Udine. Lo rividi quando anch’io vi tornai per fare un corso di trombettiere. Era diventato caporale o già caporal maggiore e mi raccontò che aveva proibito ogni sopruso dei militari anziani verso i giovani, chiamati microbi. Qualche volta lo avevano buttato giù dalla branda ma alla fine l’aveva spuntata, pur contro il parere degli ufficiali, che avrebbero voluto continuare a lasciar fare. Ma lui era dalla parte della ragione e della legge: non c’è nessun regolamento che ammette i soprusi; permetterli per stupida concezione di rude militarismo è disconoscimento della dignità umana. Forse il sopruso poteva essere incoraggiato quando i soldati erano elementi di aggressione e di rapina, criminali più che eroi. Oggi hanno compiti di difesa, di protezione e di soccorso nei disastri naturali, per cui è logico un cameratismo con la condotta da cavalieri onesti e giusti. Purtroppo in questi ultimi tempi sono avvenuti dei fatti sicuramente esagerati, che hanno provocato suicidi e omicidi. Il servizio militare dovrebbe essere una scuola di vita, ma tanti giovani tornano rovinati nel fisico e nella mente.

Anche un mio commilitone si ridusse a uno straccio che non si reggeva in piedi, ma non per colpa della naia, bensì dei soldi di papà, che lui dilapidava nei vizi. Era un milanese alto, atletico e robusto, quando si giocava a calcio aveva un tiro potentissimo. Per le molte notti che restava fuori ed altre infrazioni, accumulò settanta giorni di CPR (prigione di rigore) e perciò gliene rimasero altrettanti di naia, dopo che tutti andammo in concedo: le donne e l’alcool, e forse la droga, lo avevano rovinato.

Molti settentrionali amavano la sbornia e avevano uno strano modo di festeggiare: si ubriacavano consapevoli che poi sarebbero stati male e avrebbero vomitato.

Durante la naia mi trovai bene, anche se non mi piacevano i rigidi regolamenti e i riti esteriori, come il saluto militare, le marce e la cura delle armi, che negli ultimi mesi potei evitare stando in fureria. Ma era bello quando si andava nei boschi e avevo la possibilità di visitare luoghi diversi.

Mi piace ricordare Aquileia, l’antica città romana dove, nel 1921 fu designato il Milite ignoto da tumulare all’Altare della patria, e Palmanova, la cittadina-fortezza del tardo Rinascimento con la bastionatura a stella a nove punte, che tanto mi sorprese per la sua integrità e caratteristica. Diversa sorpresa ebbi nel vedere il letame addossato alle cascine. Chissà la puzza in casa. E osavano criticare i meridionali: da noi almeno anche i contadini che vivono in campagna lo depositano a distanza. Ma al di là di quest’uso nordico, apprezzai molto i friulani.

Le gite le facevo con Pisoni, un ragazzo di Milano che aveva portato con sé la motocicletta. Ogni tanto veniva a trovarlo la sua “morosa”. Io non concepivo che una ragazza andasse da sola a raggiungere il fidanzato; oggi i tempi sono cambiati e non mi scandalizzo più se due giovani fanno insieme le vacanze. Ma allora, quando per la prima volta vidi due innamorati che si baciavano su una panchina, mi parve esagerato. Fu a Trieste, mentre visitavo il Castello e mi affacciai tra due merli a guardare il giardino sottostante. Negli anni Sessanta con l’esplosione della libertà dei costumi, si sarebbero visti gl’innamorati baciarsi ad ogni angolo di strada e dappertutto, senza vergognarsi. Anzi la vergogna era di chi vedeva e si imponeva di non guardare.

Il servizio militare di un contadino era un grave problema per la famiglia, in quanto veniva a mancare un aiuto necessario nei periodi di aratura, semina e raccolto. Allora alcuni ricorrevano a uno stratagemma, che adottarono pure i miei genitori. Mia madre si finse moribonda, con parenti attorno al letto affinché il medico e il maresciallo dei carabinieri potessero autorizzare un telegramma in cui si richiedeva il mio rientro urgente. Medico e maresciallo sapevano che era tutta una messinscena, ma doveva essere fatta perché fossero salvate le apparenze.

Anch’io, quando arrivò il telegramma, finsi di essere preoccupato al massimo e risultai molto credibile per qualche mia imbranatura che una persona calma non farebbe.

Ma non servì a nulla, perché piovve appena cominciammo a trebbiare con le mule e, col grano bagnato sull’aia, non potemmo proseguire. In quei giorni si svolsero le esercitazioni campali e mancai l’occasione di sparare qualche colpo di cannone dal carro semovente.

Ora si sta per escludere il servizio militare obbligatorio per passare a quello esclusivamente volontario, perché con le nuove armi non c’è tanto bisogno di uomini per affrontare il nemico, ma di una migliore preparazione tecnologica. I militari saranno in numero inferiore però meglio preparati. E anche per le donne sarà possibile arruolarsi.

 

[Segnalibro: emigrare] 

Finita la naia, decisi di emigrare. Mio padre era ovviamente contrario: “Abbiamo le terre nostre” diceva. Rispondevo che erano sue, e quando mi sarei sposato, io sarei stato il suo mezzadro. Ma contava più il fatto che a me lavorare in campagna non era mai piaciuto e per varie ragioni: primo perché avrei voluto studiare (ma lo studio mi fu precluso per fare il contadino); secondo perché non mi piaceva la fatica dei campi allora molto dura; terzo perché il lavoro agricolo non era riconosciuto per quello che valeva; quarto perché il coltivatore lo si voleva ignorante (uno che leggesse il giornale era criticato e deriso); quinto perché il contadino era considerato persona inferiore; sesto perché volevo la mia libertà. Ero ubbidiente per rispetto ai genitori ma mi sentivo prigioniero, volevo evadere, avrei voluto volare, in senso metaforico, non me la sentivo di continuare a lavorare la terra, volevo vivere in città. E vedevo che tutti partivano, anche uomini sposati, alcuni dei quali abbandonavano i fondi di cui erano proprietari. Certo lasciavo l’aria buona del mio paese, della campagna, lasciavo i genitori, i parenti, gli amici (ma molti se n’erano andati). E soprattutto lasciavo la ragazza che amavo, per sempre, perché andando via decidevo di non sposarmi subito e non volevo che lei mi aspettasse. Non avendo relazioni epistolari né verbali, finsi di non amarla più non facendomi vedere da lei e non guardandola se ciò accadeva. Io ne soffrivo e lei forse più di me, ma sarebbe passata e, bella com’era, avrebbe trovato da scegliere fra vari pretendenti, e sarebbe stata felice.

Volevo emigrare ma non all’estero. La meta interna maggiormente preferita era Milano, ma a me piaceva Roma, però mio padre volle che andassi a Torino perché lì c’era suo fratello. C’era pure il mio amico Vincenzo Rindone che lavorava in ferrovia e trovò una soffitta in subaffitto, dove andammo ad abitare. Mi ritenevo fortunato perché era difficile trovare un abituro per gli scapoli; ed era già tanto trovare un letto dalle affittacamere: le chiamavano “pensioni” ma erano cameroni pieni di brande in cui si andava solo per dormire fra sconosciuti, senza possibilità di far da mangiare, e spesso era proibito anche consumare un pasto freddo. Però c’era il lavoro, che è la cosa più importante dopo la salute.

Le soffitte erano dei sottotetti adibite ad alloggio col boom dell’emigrazione. Per tutti gli occupanti c’era solo un piccolissimo lavabo e un gabinetto ricavati in un piccolo spazio a metà di uno stretto corridoio. Ai lati le soffitte, il tetto spiovente si abbassava a circa sessanta centimetri dal pavimento, si poteva stare in piedi solo nella parte adiacente il corridoio e nel tratto fra la porta e l’abbaino. Nel primo lato si tenevano appesi i vestiti da festa, messi dentro un apposito sacco di nailon perché non si sporcassero, nel secondo trovavano posto il fornello a gas e due sedie; nello spazio che restava, sotto la falda bassa, c’era la branda a una piazza e mezza o due.

In una così misera topaia ci abitavano anche sposi che al loro paese avevano lasciato una casa spaziosa, ma al loro paese non c’era lavoro; ci stavano anche famiglie intere: nella soffitta accanto alla nostra dormivano una donna con tre figlie, il genero e due nipoti, però non credo che fossero abituati a una vita decorosa.

C’era carenza di alloggi e molti proprietari non affittavano a meridionali, specialmente se famiglie numerose, le quali potevano trovare con difficoltà una sistemazione solo in vecchi edifici; poi, col tempo, avrebbero trovato anche appartamenti nuovi. Infine tutti comperarono l’alloggio da abitare, e alcuni pure la casa in montagna o al mare.

La caratteristica dei vecchi caseggiati è generalmente un quadrilatero di edifici congiunti tra loro (detto isolato perché circondato da strade), con all’interno il cortile e in ogni piano i ballatoi (che non sono luoghi in cui si possa ballare, ma stretti e lunghi balconi comuni) sui quali si aprono portefinestre che fungono da ingresso degli alloggi. Nei palazzi del Settecento il cortile può essere unico e avere due o più scale per salire ai piani. In ogni pianerottolo c’è l’ingresso degli alloggi adiacenti e un’uscita verso il ballatoio. Altri isolati hanno la corte separata da muri e ogni condominio ha il suo cortiletto. Gli appartamenti di solito sono composti di due vani consecutivi, il primo adibito a cucina e il secondo a camera da letto, la quale dà sulla strada. In origine c’era il gabinetto in comune in fondo al ballatoio, nell’angolo del casamento, ma poi era stato ricavato nel vano della cucina di ogni appartamentino e in alcuni fu posta anche la vasca da bagno. Chi non l’aveva andava nei bagni pubblici o si faceva la doccia in fabbrica.

In quegli anni di boom generale, oltre ai quadrilateri, si costruirono stabili allineati, ma anch’essi col cortile, delimitato però da semplici muri. Con l’aumento della motorizzazione, questi àmbiti sono stati invasi dalle auto, prima gratis, poi a pagamento in posti assegnati. Una volta vi giocavano i bambini, poi anche i loro genitori convennero che i piccoli, per giocare, dovessero andare ai giardini, ma son finiti per restare in casa con la compagnia della televisione che per loro trasmette mostruosi cartoni animati. Ora è obbligatorio costruire dei box in numero adeguato agli alloggi dei condomìni e i cortili sono stati ridotti a spazi di passaggio delle auto dei condòmini.

Per la tendenza a stare vicini, e anche perché era più favorevole trovare alloggio nelle vicinanze degli amici o parenti, la comunità maggiore dei paesani si raggruppò nel quartiere chiamato Barriera di Milano, seguiva Santa Giulia o Vanchiglia e poi tutti gli altri. Nei primi tempi ci si riuniva spesso in casa di qualcuno, poi a poco a poco gl’incontri cominciarono a diradarsi per il cambiamento di stile di vita e per la crescita dei figli che inducevano ad assecondare le loro esigenze.

Piazza della Repubblica, che comunemente è chiamata Porta Palazzo, come il quartiere in cui si trova, era piuttosto frequentata per il grande mercato omonimo (c’era anche un angolo ufficioso in cui si poteva trovare collocamento per lavori saltuari nell’edilizia) e per le riunioni domenicali. I meridionali vi dominavano pacificamente, con l’armonia della conversazione. Unica stonatura, dovuta a qualche meridionale, tollerata dalle autorità di sicurezza, era il contrabbando di sigarette e, nelle vie adiacenti verso il municipio e oltre, la prostituzione.

Ora Porta Palazzo è dominio degli africani (maghrebini e neri) in conflitto tra loro, che spesso sfocia in furiose battaglie per il dominio del mercato della droga. La polizia interviene in forze per sedare ma si prende la sua parte, perché quegli extracomunitari non la temono e contrattaccano. I vigili urbani, che passeggiano per controllare nei giorni di calma, fingono di non vedere e di non sentire nemmeno le battute ironiche nei loro confronti. La prostituzione si è molto estesa in altre zone della città, con donne nere e dell’est europeo, ingannate con la promessa di trovare in Italia un posto di lavoro e invece, nella nostra nazione cattolica, democratica e civile, sono ridotte in schiavitù.

Noi meridionali venimmo per lavorare e fummo male accolti, considerati degli incivili. Nei nostri confronti si comportavano da educatori anche gl’immigrati piemontesi, molti dei quali avrebbero fatto meglio a tacere: proprio in quegli anni, a due fratelli abitanti in una valle vicina, andarono i piedi in cancrena, perché da mesi non si toglievano le scarpe. Occorre rilevare che il giudizio di paragone si è sempre fatto tra i cafoni del Sud e i cittadini del Nord. Non si nega la nostra eccessiva gelosia nei riguardi delle donne, la possibile reazione violenta nelle controversie (quand’ero militare, i settentrionali avevano paura del coltello che noi potessimo estrarre) e la minor cultura nella media della popolazione. Ma criticavano pure i nostri modi di dire, come “a me mi”, che può rispondere ad esigenze di messa in rilievo ed è quindi ammesso nella lingua parlata; mentre loro dicono “ce n’è tanti”, chiaramente sbagliato. E poi, dopo aver criticato il nostro pleonastico “ma però”, hanno lanciato il loro “poi dopo”, che purtroppo ormai usano anche buoni parlatori istruiti (e qualcuno arriva ad esagerare con “ora poi dopo”). Ci chiamavano “Napuli” (forse perché quando i piemontesi conquistarono il Meridione chiamavano Napoletani tutti i cittadini del Regno delle Due Sicilie); a Milano i meridionali erano “Terun”. Noi avremmo potuto chiamare loro “Pulintuna” e avremmo reso la pariglia, ma in noi non ci sarebbe stato il tono dispregiativo equivalente ed eravamo rispettosi dei costumi e delle idee locali. Ci consideravano quasi tutti mafiosi o comunque omertosi. Ma quando la grande mafia con i suoi tentacoli ha avvinto pure loro, non l’hanno denunciata; e hanno accettato di buon grado la mafietta dei posteggiatori abusivi, i quali pretendono la mancia per il posteggio di una macchina che non custodiscono ma eventualmente danneggiano nel caso in cui non la si desse. Stazionano pure nei parcheggi a pagamento delle piazze, vicino agli ospedali e ai vari edifici pubblici, per cui capita così di dover pagare due “tasse”. Agl’incroci dei corsi più trafficati ci sono i pulitori di vetri, mestiere inventato dai polacchi a Roma, ora esercitato da tutti dappertutto, e tanti bambini mendicanti.

I pregiudizi nei nostri confronti resistettero finché non si diffusero i matrimoni misti e ci facemmo apprezzare per la generosità, la benevolenza, la laboriosità e la pulizia.

I tempi sono cambiati e i nuovi immigrati, extracomunitari, che pure hanno preso il nostro posto nelle dimore e nei lavori pesanti e sporchi, sono stati accolti democraticamente, con il rispetto dovuto giustamente a tutte le persone di qualsiasi razza e di qualsiasi ceto. Ma la nostra buona accoglienza è considerata stupidità, avvalorata dalla legge, che in certi casi concede loro maggiori diritti degli italiani, e da alcune deroghe non scritte. Molti non pagano il biglietto dei mezzi pubblici e non vengono perseguiti. Il trattamento nei loro confronti è molto diverso da quello adottato nei nostri, allora e oggi. Per il decoro degli edifici, ai meridionali era proibito mettere tendoni da sole nei balconi che davano sulla strada; per non disturbare era vietato fare rumore dopo le ore ventidue. Nei casi di trasgressione chiamavano solerti vigili urbani per far rispettare il divieto. Gli extracomunitari fanno quello che vogliono e nessuno osa protestare, per paura delle loro minacce. Se qualcuno denuncia, i vigili non intervengono. E la città è sempre più sporca e insicura.

Ovviamente non sono tutti uguali (i neri sono giudicati più chiassosi e i marocchini subdoli, ma non bisogna generalizzare), ci sono tantissime brave persone, seppure in numero diverso a seconda della provenienza, e quasi tutti sono degli sfruttati. La stragrande maggioranza, che interessa gli sfruttatori, lavora sottopagata, spesso non in regola, vive in condizioni disagiate, e si nota poco. La minoranza crea i disagi, alimenta la delinquenza, si nota di più e preoccupa la cittadinanza. Ma forse sarà quella che raggiungerà il successo, economico o politico, e sarà riverita con grande rispetto.

 

 

Basilica di Superga - 1995/6, olio su tela 80x60

 

[Segnalibro: torino

Di Torino ricordavo una piccola fotografia in bianco e nero sul libro di geografia delle elementari. In essa si notava la Mole Antonelliana e il fiume Po. M’incuriosiva quella guglia che sovrastava la città e mi domandavo quale fosse la sua funzione: era un mastodontico involucro vuoto, monumento che l’architetto aveva fatto a se stesso, non rispettando l’iniziale progetto per una sinagoga, con spese crescenti, a cui la comunità ebraica non poteva far fronte, e subentrò il comune di Torino, che assecondò la megalomania di andare sempre più in alto. Ora, dopo i necessari adeguamenti interni, vi è stato trasferito il Museo del cinema e vi fanno varie mostre, cosicché serve a qualcosa, oltre che consentire di vedere il panorama delle Alpi Cozie e Graie, e quello della città, spesso avvolta però nella cappa dell’inquinamento industriale. A causa dello smog, i palazzi antichi hanno assunto il colore grigio-fumo, ed è ciò che sorprende un campagnolo, arrivando per la prima volta in città. Noi notammo pure che la corrente elettrica non si staccava mai, e non poteva essere altrimenti, perché ogni interruzione avrebbe causato parecchi danni alla lavorazione con le macchine elettriche. E l’abbondanza di acqua, sempre pronta a scorrere quando si apriva il rubinetto. Io notai anche l’insegna di certi negozi con la scritta “Drogheria”, ma non si vendeva droga, bensì vari prodotti di uso domestico, che ora si trovano al supermercato, e quei negozi sono scomparsi.

Torino è una bellissima città, con una caratteristica che consente di fare un lungo giro turistico nel centro barocco in una giornata di pioggia, senza l’ombrello e senza bagnarsi, camminando sotto i portici ininterrottamente per chilometri. Si può partire dall’alberata piazza Statuto, nella quale si trova la bella fontana dedicata al lungo traforo ferroviario del Frejus (km. 13,5), andare verso la stazione di Porta Susa (che sarà spostata per un rimodernamento viario dei trasporti), proseguire per i portici unilaterali di via Cernaia, osservando quello che resta della grande Cittadella e poi ammirare la bella Fontana Angelica, che un ricco volle dedicare a sua moglie. Per via Pietro Micca si raggiunge piazza Castello, al centro della quale sta l’antico maniero, di cui vediamo la facciata settecentesca del messinese Filippo Juvarra. Svoltiamo a destra per via Roma, la più elegante della città, voluta dal fascismo per un bel percorso diritto che ci porta alla bellissima piazza San Carlo, con due belle chiese in prospettiva, circondata armoniosamente dai palazzi seicenteschi del Castellamonte e al centro il Caval d’ bronz, monumento equestre ad Emanuele Filiberto II, che fu anche alchimista. (Tutto il centro è una Torino magica sopra una vasta rete di strette gallerie segrete). Proseguiamo per raggiungere piazza Carlo Felice, oltre gli alberi vediamo la facciata liberty della grande stazione ferroviaria di Porta Nuova, che sta nel  corso Vittorio Emanuele II, dove svoltiamo ancora a destra per raggiungere l’alto monumento dedicato al primo Re d’Italia, posto al grande incrocio con corso Galileo Ferraris, vicino alla galleria d’Arte moderna. Torniamo indietro dalla parte opposta fino a piazza Castello, per andare in via Po, al fondo della quale si affaccia piazza Vittorio Veneto (dove prima c’era un’altra porta della vecchia Torino, che si apriva sul fiume). Oltre il ponte vediamo la chiesa della Gran Madre, diamo uno sguardo panoramico al vicino “Monte dei Cappuccini” con la sua chiesetta sul cucuzzolo inserito nella collina torinese a destra, mentre lontano sulla sinistra nel cielo si staglia la Basilica di Superga, che custodisce i resti di molti Savoia. Se piove rinunciamo a passeggiare nel bellissimo parco del Valentino che sta poco distante sulla destra, lungo il fiume che qui proviene da Sud e rifacciamo la strada dall’altro lato per completare il percorso in piazza Castello, nella quale ora, dietro il vecchio edificio, vediamo il monumento al Duca d’Aosta. Facciamo il giro passando davanti al Teatro Regio e più avanti ci affacciamo sul cortile del Palazzo reale, oltre il quale vi sono giardini interni ed esterni e al suo interno bellissime sale barocche. Ad esso collegata vi è la cappella della Sindone con la caratteristica cupola del ferrarese Guarini. Vi si può accedere dal Duomo, che si affaccia su un’altra piazza, la quale, se non vi avessero costruito un brutto palazzo per uffici del comune, o se lo avessero fatto più indietro, dove ora c’è il vuoto lasciato da vecchi casamenti demoliti, sarebbe bellissima, con la romana Porta Palatina nel lato nord. Oltre, a due passi, c’è il grande mercato di Porta Palazzo. Se non piove è comodo farvi una capatina e se è sabato possiamo raggiungere il Balon (pronuncia Balùn), dove si svolge  il celebre Mercato delle pulci. Oppure torniamo indietro e visitiamo il Museo Egizio (secondo a quello del Cairo), vicino al palazzo Carignano, che ospitò il primo Parlamento italiano.

[Nota 19-3: Ovviamente lungo il percorso ci sono altre cose degne di nota, che abbiamo tralasciato di elencare].
 

 

Giardino del Valentino - 1995, olio su cartone telato 40x30

 

Dopo questa camminata di otto chilometri, compresi i tre di ritorno, sarebbe il caso di pranzare.

La cucina piemontese non è molto famosa, il suo più celebre piatto è la bagna càuda, una fluida crema di acciughe con aglio in burro e olio di oliva, servita a tavola in un apposito fornello di terra cotta, tenuta calda con la fiamma della meta (un piccolo parallelepipedo di metaldeide). In compagnia vi si intingono verdure crude, principalmente cardi di una varietà grossa chiamati “gobbi” perché curvati e tenuti coperti dal terreno per sbiancare, e si beve Barbera.

Più degni di nota sarebbero gli antipasti, in numero esagerato e vario da saziare prima che venga servito il cosiddetto “primo”, che può essere di buoni agnolotti. Per secondo prendiamo il brasato. Tutto accompagnato da ottimi vini e poi finire alla grande con uno degli spumanti per i quali (gli uni e gli altri) sono famose le terre astigiane, il Monferrato e le Langhe.

I piemontesi son detti “falsi e cortesi”. Direi che hanno anticipato una forma di educazione oggi molto diffusa anche da noi. Io posso dire che sono veramente gentili, ma molto riservati. Loro dicono che gli amici s’incontrano al bar, perciò dovette dare fastidio la nostra abitudine di riunirci a casa e parlare ad alta voce, ridere e scherzare. Hanno il difetto di essere un po’ lunatici: oggi ti sorridono e ti fermano a conversare, domani non ti salutano neanche, poi tornano a darti confidenza. Inoltre si potrebbe dire di loro quello che si dice dei genovesi: che sono tirchi, ma essi dicono che sono parsimoniosi. Io comunque mi son trovato bene e ho riscontrato scatti di generosità, sono ottimi conversatori e sanno far baldoria moderata. Cerèa, nèh?

[Nota 20-4: Saluto ormai in disuso, cerea è un’evoluzione popolare della parola signoria, che si faceva seguire al saluto vero e proprio: “Bon dì, cerea = Buongiorno, vossignoria”].

 

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