I TEMPI CAMBIANO

di Vincenzo Ballo

La partenza

 

[Salta al segnalibro: recessione - tempo - guerre]

 

E’ arrivato il momento di partire, tornare nella patria d’adozione. Nei primi tempi erano momenti emozionanti, ai saluti le donne versavano molte lacrime e qualcuna sfuggiva anche agli uomini. Dal paese porto solo poche cose che non si trovano a Torino, o che comunque non fanno altrettanto bene, come i favolosi taralli. Dopo aver sistemato le valigie in macchina, mi viene in mente che una volta, sull’autobus davanti al tempietto della Santa Croce (prima che fosse abbellita la piazzetta), mentr’ero in attesa di partire, guardai fuori attraverso il vetro del finestrino. Quasi in fondo alla via Stefano Di Blasi vidi un uomo che andava verso la piazza e di spalle sembrava mio suocero, morto da un anno o due. Non staccai lo sguardo da quella persona, per poterlo vedere ancora vivo.

Ora ci riaccompagna a Catania mio cognato Rocco Pititto, che nostro suocero non fece in tempo a conoscere (sarebbero andati molto d’accordo sicuramente anche loro due). Lascio il paese con le sue nuove case belle e spaziose e quelle vecchie abbandonate, domandandomi quale sarà il futuro degli abitanti che restano. Faccio in tempo a intravedere la casa che lasciai a ventun anni. Fuori dall’abitato mi volto a guardare un’ultima volta la parte visibile del paese, con la torre dell’orologio, la chiesa Madre, il vecchio castello, prima che scompaia tutto dietro le colline.

Appena superata Enna, ammiro il cono schiacciato dell’Etna con una macchia bianca di neve in cima sul versante nord, come un berretto messo di sbieco, e il pennacchio prodotto da un cratere indistinto. Il monte è quasi nitido ma la base è nascosta dalla foschia che si accumula nella distanza e lo fa sembrare sospeso nell’aria.

Certi spettacoli naturali riescono a incantarmi ancora, seppure fanno parte di panorami già visti altre volte e, ormai abituato a viaggiare, la mente si concede all’ozio e i pensieri divagano senza impegno; diversamente dai primi viaggi, durante i quali oscillavano attivamente tra chi lasciavo e ciò che avrei trovato, mentre guardavo quello che mi scorreva davanti agli occhi lungo il percorso. Ricordo gli operai che lavoravano a torso nudo sulla massicciata della ferrovia nella valle assolata e mi domandavo come facessero a resistere al caldo e al sole cocente; solo il copricapo li difendeva da una possibile insolazione rovinosa per il cervello. Poi mi ricordavo che anch’io avevo lavorato nelle stesse condizioni durante la mietitura, ma si era trattato di poche settimane. Concludevo che ci si adatta, ci si rassegna, lo si fa per vivere. Se molti giovani rifiutano di adattarsi è perché hanno qualche possibilità di sostentamento.

Ci sembrava perciò da signori il lavoro in fabbrica. Quando, incontrando un conoscente, gli si domandava: «Cosa fai?», rispondeva: «Niente», sia per vantarsi di stare bene che per la minor fatica, sembrandogli un passatempo le otto ore impegnate, rispetto alla giornata solare dell’occupazione in campagna. Ma il lavoro era duro anche al Nord, come pure all’estero; molti svolgevano lavori nocivi per le resine e le polveri che aspiravano, o lavorando nella produzione della plastica, la nuova materia per tutti gli oggetti. Io andai subito a lavorare nell’edilizia, dieci ore al giorno, anche il sabato e mezza giornata la domenica, trasportando calce e mattoni, andando su e giù per scale improvvisate. Con l’autunno e poi l’inverno avrei lavorato meno, al freddo e qualche volta sotto la pioggia. Perciò decisi di mettere la testa dentro. Ma nelle fabbrichette la paga sarebbe stata molto più bassa e perciò andai a cercare lavoro in una fonderia per guadagnare di più, incurante della salute. Andai alla Nebiolo, azienda ora scomparsa, che in altri stabilimenti produceva macchine tipografiche e tessili di altissima qualità, e in passato aveva prodotto anche macchine utensili. Fortunatamente mi notò un geometra incaricato di reclutare giovani da avviare a un lavoro qualificato e mi propose di fare il tornitore. Io non sapevo che mestiere fosse, ma al paese in un giornale avevo letto che le fabbriche del nord cercavano tornitori e fresatori, capivo che doveva essere un lavoro interessante e accettai subito. Dovetti però superare un esame di matematica,  fui assunto e mandato alcuni mesi a scuola per imparare i rudimenti del mestiere, pagato più di quanto mi avevano offerto dove avevo cercato lavoro prima.

In quegli anni di boom economico, le offerte di lavoro erano superiori alla disponibilità di manodopera, le aziende assumevano chiunque avesse voglia di lavorare, i cantieri edili invadevano la campagna innalzando edifici e congiungevano le città coi paesi limitrofi. Sicuri del lavoro, si comprava a rate la macchina (600, 500), con la quale si andava in ferie e si tornava caricandola pericolosamente fin sopra il tetto. Da marzo in poi, tutte le domeniche si facevano le scampagnate, finché non ci sarebbe stata la crisi petrolifera che avrebbe fatto aumentare il prezzo della benzina. L’auto allora era un mito che dava prestigio, oggi ce l’hanno tutti e alcune coppie giovani ne hanno tre: una ciascuno per andare a lavorare e una terza per i giri di piacere. Si comprava a rate il televisore (che allora costava molto caro), il frigorifero, la lavatrice (si costruì anche una lavatrice a mano, da far girare con una manovella, ma ovviamente non ebbe successo), la lucidatrice per i pavimenti in cui si spargeva la cera (e bisognava camminarci coi pattini di panno, strisciando i piedi). Ci si adattava a vivere in alloggi di camera e tinello, con mobili letto per i figli anche nell’ingresso. Chi aveva una stanza in più l’adibiva a salotto, da mostrare agli amici o parenti come status symbol (lo mostravano senza far entrare, perché non si sciupasse, e facevano sedere in cucina). Si prese l’usanza di offrire il caffè (anche questo era un segno di modernità, come quello, per le donne, di fumare, che se allora lo avessero fatto al paese non sarebbero state considerate oneste). I figli ballavano con gli amici in casa e i genitori venivano cacciati fuori. Si ballava per pomiciare e se non si riusciva non ci si divertiva, diversamente dai tempi semplici del paese. Si preferivano i balli lenti e si restava a muoversi stretti “sulla mattonella”. Finché il twist non avrebbe separato, facendo dimenare anche i piccoli. Si ascoltava musica dalla radiolina a transistor con l’auricolare, nei bar dai juke-box (una moneta da cinquanta lire per una canzone – quasi un millesimo del salario –, con una da cento se ne ascoltavano tre). “E lasciatemi divertire!” aveva declamato Palazzeschi. Ma dai divertimenti le masse escludevano il teatro.

Il boom finì nel 1963, improvvisamente, chissà perché. I parlamentari ci dissero di stringere la cinghia e loro si aumentarono lo stipendio.

[Segnalibro: recessione]

La recessione obbligherebbe a risparmiare almeno sul lusso e il superfluo, ma l’industria della moda vuole progredire e c’invoglia a cambiare abbigliamento ogni anno. La burbanza di chi può permettersi lo sfoggio si fa discriminante nei confronti di coloro che non hanno molte possibilità di spendere, costringendo i meno abbienti, e sono i più, a grossi sacrifici per non sfigurare ed essere snobbati dagli stessi amici. La pubblicità fa sognare e invidiare, la criminalità spicciola aumenta, i criminali incalliti, che prima avevano avuto almeno rispetto della vita, ora uccidono. Le città cominciano a farsi insicure.

I tanto esaltati “favolosi anni Sessanta” furono belli solo all’inizio, con la tranquillità del benessere e l’illusoria sicurezza del futuro. Ci si voleva bene e c’era vera solidarietà, quella sentita tra persone vicine, non quella richiesta dalle grosse associazioni tramite la televisione. Avendo conosciuto le tribolazioni degli anni di guerra e le miserie di quelli successivi, ci si accontentava di quanto si aveva, anche se si aspirava ad avere di più, ma nel limite delle proprie possibilità.

Favolosi forse furono per quelli che facevano musica in quegli anni, col predominio dei cantautori e dell’avvento dei complessi, che riempivano di pubblico anche gli stadi per il calcio. I Beatles, cantando bellissime canzoni, provocavano isterismi di pianto nelle loro fans, e con le semplici chiome a paggetto ispirarono la moda dei capelloni.

Quasi contemporaneamente nascono i figli dei fiori, o altrimenti detti hippies, sporchi e trasandati, denigratori della bellezza, che rifiutano la società in cui vivono, contestano la guerra e predicano l’amore libero e di gruppo (il loro slogan è "Fate l'amore, non fate la guerra"). Avrebbero cambiato i costumi e favorito la liberalizzazione delle donne, ma il sistema sarebbe rimasto.

Assumono atteggiamenti provocatori, sono trasgressivi e anticonformisti. La musica rock fa da leitmotiv alla loro protesta. Vogliono un mondo migliore, ma consumano droga (hashish, marijuana, l’allucinogeno LSD) e fanno “musica psichedelica” sotto l’effetto dello spinello. Molti passano alle droghe pesanti, che distruggono il fisico, avrebbero rovinato molte famiglie e accresciuto la delinquenza. Dicono di drogarsi per protesta (ma forse la motivazione è suggerita da chi ha interesse a diffondere sul mercato il veleno che manda all’inferno illudendo di far viaggiare in “paradisi artificiali”) e danno la colpa alla società.

Figli del benessere, contestano il sistema borghese capitalistico e criticano il consumismo. Ma negli anni futuri avrebbero preteso il superfluo e il consumismo sarebbe aumentato. Contestano la famiglia, criticano i genitori per non essere stati capaci di farsi rispettare, ignorando il coraggio che avevano avuto nell’affrontare le traversie della vita e i sacrifici che avevano fatto e facevano per dar loro una vita migliore e un’istruzione, diventata obbligatoria fino all’età di quattordici anni. Il divario culturale e di pensiero li fa sentire superiori, chiamano i genitori “matusa” (vecchi, quando la vecchiaia comincia a essere chiamata anzianità) senza tener conto della loro esperienza. Mai le distanze generazionali sono state così larghe, la mentalità di quelli nati nell’anteguerra è molto diversa, in famiglia non c’è dialogo. Ma la colpa dei genitori (non di tutti) è semmai di pensare troppo al lavoro, per il benessere della famiglia, e alla carriera. Concedendo ai figli tutto quello che vogliono, credono di adempiere al loro dovere di genitori, e si sentono con la coscienza a posto. Ma i giovani, seppur dichiarano di essere contro tutti i poteri e le gerarchie, hanno bisogno anche d’autorità e la cercano all’esterno della famiglia, nel gruppo, dentro il quale si dichiarano tutti uguali ma in realtà c’è un componente carismatico che assume il comando.

Mettono in discussione la funzione paterna, forse spinti da qualche moloc intenzionato a strumentalizzarli, e la famiglia va in crisi. Non sanno che fuori l’affettività è superficiale e ipocrita, il mondo è infido. I più ardimentosi prenderanno la via del terrorismo; i più deboli, senza veri punti di riferimento, conosceranno il vuoto esistenziale dell’emarginazione; altri si adegueranno al sistema, che sostanzialmente non cambierà, e si inseriranno nel potere che contestano. 

La rabbia degli studenti si scatena contro i professori e occupano le Università. Tengono assemblee, chiedono di partecipare alle decisioni scolastiche e pretendono il “sei garantito”: cioè vogliono essere promossi senza aver studiato. Ciò porterà alla laurea di molti somari che nei curricula dichiareranno di essere “l’aureati”, ma derideranno la mamma se felice dirà che il figlio ha “preso la laura”. 

Gli studenti si politicizzano. Nelle manifestazioni contro la discriminazione razziale, per la difesa dei diritti civili, contro la guerra del Vietnam e contro l’ideologia americana, tengono alto il libretto rosso di Mao-Tse-tung.

La rivolta studentesca influenza la classe operaia, che prende coscienza di essere sfruttata e negli scioperi del ’69, oltre agli aumenti salariali, rivendica migliori condizioni di vita e di lavoro. La massa dei lavoratori non è disposta alla rivoluzione, come predicano gli estremisti, ma vuole più di quello che avrebbero chiesto i sindacati, costretti ad assecondarli. E si ha l’autunno caldo.

Il 12 dicembre scoppia una bomba nella Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano, causando 16 morti e novanta feriti. Inizia la “strategia della tensione”.

Questa era apparsa in forma blanda da qualche anno, ma ora prende una piega molto cruenta che raggiungerà l’apice nel ’78 con la strage della scorta di Moro, il suo sequestro e l’assassinio dopo cinquantacinque giorni di tragica prigionia. Ma nell’80 ci saranno ancora ottantacinque vittime con la bomba alla stazione ferroviaria di Bologna.

Il terrorismo si era presentato come un mezzo per modificare il sistema in favore della classe lavoratrice, ma ebbe l’effetto contrario; servì a frenare l’avanzata del comunismo e favorì il potere costituito.

I metalmeccanici ottennero un buon contratto, ma seguirono abusi da incoscienti che in fabbrica volevano fare i loro comodi. Non bastava che molti facessero un secondo lavoro, trascurando il primo, con danno per l’azienda, che dava loro tutti i diritti, e per lo Stato, che pagava giorni di malattia per gente in ottima salute. Nel 1980 i quadri della Fiat fecero una loro marcia per riconquistare l’autorità perduta e il padronato cominciò a riprendersi. Grazie alle innovazioni tecnologiche e per la necessità di adeguarsi agli altri paesi sviluppati, iniziò la ristrutturazione delle fabbriche, che ridusse la necessità di manodopera, e molte delle conquiste operaie vennero accantonate. Divenne precipua la difesa del posto di lavoro divenuto a rischio, anche per il fatto che i lavori poco tecnologici ora venivano ordinati all’estero a costi molto inferiori. Era la restaurazione del potere padronale e per i lavoratori italiani iniziava una nuova crisi.

Io ne rimasi fuori grazie a un precedente spiacevole. Lavoravo in un’officina di venti operai, che non conoscevano i propri diritti ed erano anche ruffiani del padrone, il quale manteneva un ambiente oppressivo. Essi temevano di poter essere licenziati “senza giusta causa” perché non raggiungevamo il numero di ventidue dipendenti. Dissi loro, per semplice chiarimento, che col contratto del ’69 tale limite era stato abbassato a quindici. Questa mia delucidazione fu riferita in alto e mi fu comunicato chiaramente che proprio per quello che avevo detto sarei stato licenziato. Ciò che avvenne, ma il pretore (una donna) lo avrebbe giudicato illegale e sarei stato risarcito. Nei pochi mesi che rimasi disoccupato lavorai saltuariamente nell’officina di un mio ex superiore che si era messo in proprio, e intanto presi la licenza di Terza media da esterno. Nel contempo, due amici condòmini, Giovanna e Gaetano De Santis di Introdacqua (Aq), mi informarono di un concorso per aiuto macchinista nelle Ferrovie dello Stato, dove il marito lavorava. Vi partecipai e lo superai, forse grazie al fatto che da poco avevo studiato un po’ di fisica e chimica per gli Istituti superiori e ad altre conoscenze varie, come il valore di are e centiare appreso da contadino. Fui assunto senza raccomandazioni, ciò che probabilmente non sarebbe stato possibile negli anni successivi, perché dall’esame a quiz, col punteggio automatico in base alle risposte esatte, si passò a quello con tema e problema, sui quali i voti sono dati a discrezione dell’esaminatore e quindi variabili di alcuni punti. Tra l’altro non avrei potuto partecipare perché nei concorsi seguenti sarebbe occorso il diploma. Il lavoro era molto disagiato ma gratificante e lo svolsi con piacere e soddisfazione fino alla messa in quiescenza.

 

[Segnalibro: tempo]

Come passa il tempo!… Quando ero ragazzo volevo crescere in fretta e il tempo andava lento; ora che la giovinezza “fugge via” lo vedo passar veloce. Mi sembra ieri un giorno di alcuni anni fa, mentre allora, questi anni trascorsi mi sembravano tanti e lunghi da passare.

Come si cambia… Mi volto indietro, osservo i mutamenti e guardo avanti.

Cambia la vita, le istituzioni (dal ’93 sono state abolite le frontiere fra i Paesi della Comunità Europea), cambiano le mode e i costumi. Ora i pantaloni fanno parte dell’abbigliamento usuale delle donne; quand’ero ragazzo, colei che li metteva era considerata una “puttana”, il che non era vero. Li indossavano però le donne di spettacolo, che allora non erano tenute in alta considerazione. Ora invece, specialmente se raggiungono la celebrità, anche per condotte scandalose, salgono i gradini più alti della scala sociale. Belle ragazze che sculettano davanti alle telecamere diventano famose e conquistano i cuori di uomini ricchi e celebri. La televisione (con l’avvento delle private, da cui spiccano, a contrastare quella pubblica, le televisioni di Berlusconi, divenuto l’uomo più ricco d’Italia e il politico più importante) ha sicuramente cambiato lo stile di vita, il metro di giudizio su quel che si dice “comune senso del pudore” e il comportamento della gente, coinvolgendo tutti in un’ubriacatura edonistica la quale toglie ogni velo nel momento dell’esibizione. Persone che normalmente ritengono sconveniente rivelare certe questioni private anche ad amici, vanno in televisione per dirlo davanti a milioni di telespettatori. L’occhio televisivo del “Grande fratello” descritto da Orwell in 1984 come futuro strumento di controllo del Comunismo sui cittadini, e che vediamo adottato dalla nostra società capitalistica con finalità di sicurezza, è diventato mezzo per mostrare la propria privacy, che diversamente si vuol tanto proteggere, ma che viene svelata nella misura utile ai fini pubblicitari. Dicono che la pubblicità sia l’anima del commercio, ma si potrebbe dire che è il commercio dell’anima, il Faust dei nostri tempi. Con la sua forza lusinghevole, essa ormai si è resa indispensabile per il successo di qualsiasi prodotto, riuscendo a farlo apprezzare qualunque ne sia il pregio e l’utilità. Impone le mode e costringe a spendere molto di più del giusto e del necessario.

 

A Catania salimmo sul treno preveniente da Siracusa e prendemmo posto nel compartimento con le cuccette prenotate. La pulizia lasciava a desiderare e l’aria condizionata non funzionava. La compagnia spendeva parecchio per promuovere la propria immagine ma trascurava la manutenzione. Ciò mi ricorda La signora dalle camelie di Dumas figlio, Traviata nella musica di Giuseppe Verdi, che sta morendo di tubercolosi, ma quando sente tornare il suo Alfredo si preoccupa di imbellettarsi, per apparire bella e in buona salute.

Qui nacque Vincenzo Bellini a cui la città ha dedicato la sua più bella Villa. Grandi musicisti, che in un paio di mesi componevano ore di musiche indimenticabili. Oggi, i compositori di canzonette impiegano un anno per scriverne solo una bella e non sempre ci riescono.

Il treno si muove ed accelera il suo “tra-tra-tran, tra-tra-tran, tra-tra-tran” delle ruote sul binario, che diventerà monotono al raggiungimento della velocità di linea. Un fischio ripetuto precede l’ingresso in galleria, dove il treno comprime l’aria e il rumore s’ingrossa; all’uscita si allontana.

Volgo gli occhi a destra e guardo il bellissimo blu oltremare dello Jonio, dall’aspetto profondo e misterioso. (In un tratto di esso Verga immaginò il naufragio della “Provvidenza” dei Malavoglia). Si vede qualche barca e, oltre, un grosso mercantile. L’orizzonte lontano è vuoto. Quale reazione di ansia, paura e coraggio avranno provocato le apparizioni delle navi nemiche cariche di uomini rapaci?

 

[Segnalibro: guerre]

Le guerre… Dopo due conflitti mondiali, il secondo peggiore del primo, ci ripetono sempre “mai più guerra”. Ipocriti! Sanno che è impossibile. Ci saranno sempre dei prepotenti che vorranno sopraffare gli altri. Ci sono troppi interessi legati alla produzione e al commercio delle armi, necessarie per la difesa ma utilizzate per l’offesa. Bisogna smaltirle per continuare a produrne: si trovano sempre scuse per attaccare. Una volta si facevano guerre per questioni personali, oggi si dichiarano per l’interesse della nazione, le guerre colonialiste si facevano per civilizzare, quelle moderne per la democrazia. Mi vien da ridere. Basta girare lo sguardo e ci si accorge che ci sono problemi peggiori che i guerrafondai non vedono. Non si fanno le guerre per il bene dei popoli ma per gl’interessi economici delle classi dominanti e per la cupidigia di potere.

Si è rischiata una terza guerra mondiale con la crisi di Cuba, superata per il timore che le due superpotenze nucleari si distruggessero a vicenda. Le profezie di Nostradamus la facevano temere per la fine del secolo e sembrò potesse succedere con la guerra del Golfo del ’91. Ma ormai la superpotenza comunista non era più una minaccia. Il sindacato polacco Solidarność, con l’appoggio spirituale del papa Giovanni Paolo II e la guida dell’elettricista Lec Walesa, futuro presidente della Polonia, aveva provocato un primo scardinamento. Nel 1989 era caduto il muro di Berlino. L’anno successivo l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, a cui Gorbaciov aveva dato un po’ di democrazia, si sarebbe disciolta in tanti Stati autonomi. Il mondo esultò vedendo allontanare il pericolo di guerra fra grandi potenze, ma aumentarono i conflitti locali. E, venendo a mancare il deterrente comunista, la classe padronale acquisì più potere e arroganza.

 

La nostra classe politica invece, a partire dal 17 febbraio ’92, sarebbe stata travolta dai propri scandali di tangenti denunciati dai giudici milanesi, che avrebbero avviato l’operazione Mani pulite. Dalla disgregazione della Democrazia Cristiana sarebbe sorta quella che si vuol chiamare seconda Repubblica, in quanto sono cambiati parecchi uomini di governo, ma è dubbio che siano cambiati i sistemi tangentizi.

Tutto si fa per i soldi, si pensa all’arricchimento, anche se si è già ricchi, si vuole sempre di più, l’avidità sfrenata (forse perché il potere è proporzionato alla ricchezza) non si ferma di fronte a nulla, ed anche le più grandi disgrazie possono servire all’arricchimento, muovendo a compassione gli altri, fingendo interesse, per fare i propri interessi. Penso ai terremoti, che giustamente richiedono grosse spese per la ricostruzione, ma i terremotati restano a invecchiare e morire nelle baracche.

 

Non ci sono più segni del terremoto del 1908 che causò 150 mila vittime e distrusse Reggio e Messina. Ora questa è una bellissima città moderna, affacciata verso lo Stivale, col quale dicono di volerla congiungere fra qualche anno, con un ponte che dovrebbe essere una meraviglia della tecnica costruttiva. Se ne parla sin dal tempo dei romani, quando un console ebbe il problema di portare al di là dello Stretto 140 elefanti catturati ai cartaginesi. Dopo l’unità d’Italia, un ingegnere ebbe l’incarico dal governo piemontese di elaborare una teoria fattibile e propose una enorme coltivazione di cozze per favorire la messa in opera dei piloni! (Ciò nel 1982 avrebbe ispirato un fumetto con zio Paperone). Nel secolo scorso furono spesi oltre due mila miliardi di lire, corrispondenti a circa un miliardo di euro, per fare progetti seri e dal 1979 ci dicono periodicamente che il ponte si farà. Purtroppo ci sono interessi contrastanti e pareri diversi, c’è chi vorrebbe il ponte, chi un tunnel e c’è chi si oppone ad entrambi.  Ora pare che tutte le difficoltà siano state superate e abbiano deciso per il ponte, da completare nel 2010, ma si potrebbe arrivare a dieci anni dopo, se lo faranno. Il ponte dovrebbe essere leggero, aerodinamico, robusto ed elastico (ma non troppo), per resistere ai terremoti, agli spostamenti tettonici delle due sponde che si allontanano di un centimetro all’anno, alle sollecitazioni violente e al vento, che potrebbe farlo crollare se entrasse in risonanza con la frequenza delle oscillazioni elastiche, molto elevate per una struttura a 64 metri sul mare, sospesa su due piloni di 376 metri, distanti 3330 metri, per scavalcare lo Stretto tra Scilla e Cariddi. Occorreranno funi del diametro di un metro, fatte ciascuna dall’intreccio di oltre 44 mila fili, ancorate a due montagne di cemento. Le tecniche per superare tutte le difficoltà ormai ci sono, negli ultimi anni si sono raggiunti traguardi che solo cinquant’anni fa erano fantascientifici.

[Nota 20-1: Da "La Stampa", Torino, Articoli di R.Masci,  F. Ceccarelli e P. Bianucci a Pag. 3]

Ormai siamo nell’era del futuro, perché la scienza ha superato i limiti dell’invenzione e con la ricerca si è avvicinata alla creazione. Riusciranno gli scienziati a creare un cervello capace di sostituire quello umano e magari superarlo e quindi creare superuomini artificiali che potrebbero distruggere il nostro genere? E’ auspicabile che ciò non accada. 

 

Il treno entra a spezzoni nel traghetto. Saliamo sopracoperta per prendere una granita (che solo in Sicilia la fanno bene) e goderci il bellissimo panorama. (Una volta attraversai lo stretto di sera e ricordo il fascino creato dalle luci sulle coste. L’incanto mi faceva immaginare terre lontane; ma i posti più incantevoli, se non c’è la civiltà, di sera restano al buio e non possono incantare). La motonave retrocede per uscire dal porto. La Madonnina ci benedice con la sua immagine sulla colonna posta all’uscita. La saluto segnandomi e mandandole un bacio. E un pensiero, anzi due, uno alla terra che lascio e un altro alla città che mi aspetta, alle mie figlie, che sono nate e vissute a Torino ma si sentono siciliane, e ai miei nipotini che invece sono proprio torinesi, anche se nel Dna hanno solo un quarto dei piemontesi. Guardo la distesa blu che congiunge lo Jonio col Tirreno e divide la Sicilia dal Continente. Un giorno ci sarà un lungo ponte di collegamento, ma forse non farò in tempo a vederlo.
 

 

Ingresso nel porto di Messina - 1995, olio su cartone telato 40x30

 

Torna all'inizio
                           Vai all'Home page