I TEMPI CAMBIANO

di Vincenzo Ballo

Dalle stalle alle stelle

 

[Salta al segnalibro: leggenda - monachesimo - soldi - rocco - principessa].

 

Quando morì la Principessa Annita Drogo di Deliella io partecipai al suo funerale, ma solo per curiosità, come altri ragazzi. Direi che per noi fu un giorno di festa perché non andammo a scuola, non ricordo se marinando o più probabilmente ci fu concesso un giorno di vacanza. Noi ragazzi ci divertivamo a correre avanti e indietro, mentre il corteo procedeva lentamente verso il cimitero. Sicuramente ci sarà stata la banda musicale a suonare marce funebri, che mettono tanta tristezza. Ricordo il fastoso carro funebre tirato da due superbi cavalli neri comandati da un cocchiere in divisa con feluca o tricorno. Ai lati del carro mi pare di ricordare che c’erano dei cordoni tenuti da persone fra cui vedo mio padre, ma forse è il ricordo di un altro funerale, perché non credo che mio padre avesse titolo per tenere il cordone alla principessa, non essendoci alcun tipo di rapporto tra il contadino e la nobildonna, pur essendo parenti alla lontana.

Mia nonna, per la quale, a dire il vero, quasi tutti erano parenti, diceva di essere cugina della principessa, in quanto sua madre era Drogo e forse erano stati fratelli i bisnonni, ma non lo diceva per vantarsi, lei moglie e nipote di contadini e figlia di calzolaio. Diceva di essere cugina della principessa così come diceva di esserlo di un’altra Drogo molto povera.

Questa, di nome Michela, militava nel partito comunista, ed era strano per quei tempi che al paese una donna svolgesse attività politica e addirittura in pubblico. Ce n’era un’altra, giovane, bella e grintosa, che faceva pure comizi, ma erano giudicate male.

Dopo la morte della principessa, che non aveva figli, questa parente bisognosa sperò in un “pensierino” ma ne fu delusa: la principessa lasciò tutto ai parenti del marito, alla Chiesa e in beneficenza. Dei parenti poveri non si ricordò. Mia nonna comunque non ci aveva sperato, perché non le spettava nulla e avendo pane e companatico non si considerava povera. Solo una volta si era rivolta a lei per chiederle un favore.

Fu durante la famosa “Grande guerra”, mio nonno era al fronte e di lui non si avevano notizie da parecchio tempo. La principessa era crocerossina a livello dirigenziale, ma non sul campo, e mia nonna andò a trovarla per chiederle se poteva interessarsi a farle avere notizie del marito. Sicuramente le avrà detto di essere parenti, sperando di ingraziarsela, ma era un suo modo gentile che usava con tutti quelli che riteneva congiunti anche se molto larghi. Alla principessa però non avrà fatto piacere sentirsi cugina della moglie di un contadino. Le chiese gentilmente notizie della famiglia ma non la fece sedere e non le offrì nemmeno un bicchiere d’acqua. Le notizie poi arrivarono senza il suo interessamento: mio nonno era vivo e alla fine della guerra sarebbe tornato.

Questo episodio me lo ha raccontato mio zio Giuseppe a cui ho chiesto notizie di questa famiglia della quale sentivo favoleggiare quand’ero ragazzo.

 

Ho saputo così che il nonno della principessa, Calogero Drogo, era un mezzadro e non doveva passarsela tanto bene se aveva un asino e un vitello che insieme aggiogava all’aratro. Il fatto è alquanto strano: sarebbe stato più logico avere due muli. Probabilmente nei tempi dell’aratura faceva società col fratello, uno aveva l’asino e l’altro il vitello, o più probabilmente un giovane bue o, meglio, una mucca, la quale avrebbe potuto fornire latte.

Un giorno, mentre arava con questa coppia di bestie male assortita, il vomere s’inceppò nel terreno. «Aah!», avrà incitato le bestie a tirare, magari frustandole. L’aratro scattò con uno strappo e saltarono fuori alcune monete. Il contadino fermò il lavoro, sorpreso e meravigliato. Controllò: erano monete d’oro, i suoi occhi luccicarono, il cuore accelerò i battiti. Grattò il terreno con le mani: ce n’erano ancora, ce n’erano tante. Non sappiamo se nella sperduta campagna ci fossero altri contadini che potessero vedere, per cui era consigliabile rimandare la ricerca, ma quando la fece dovette scavare parecchio: sotto terra scoprì una “vitellina”, cioè una pelle di vitello, piena di monete d’oro e d’argento, un tesoro! Ma chi l’aveva nascosto?

 

[Segnalibro: leggenda

Da ragazzo sentivo favoleggiare che in quella contrada ci fosse stato un convento di monaci briganti molto potenti e audaci. Dicevano i ragazzi che ne sapevano di più, che una sera un principe con la moglie e la scorta chiesero ospitalità. I monaci la concessero ma obbligarono gli sposi a dormire separati, appellandosi alla regola che faceva divieto nel monastero a un uomo e una donna di dormire insieme anche se fossero sposati, in realtà era una scusa per tenerli separati e poter abusare della principessa. Non parliamo poi delle razzie nel circondario, dei furti, delle rapine e delle ragazze che venivano rapite e delle quali non si sapeva più nulla.

Momenti bui nella storia ce ne sono stati, ma qui mi pare che si tratti di leggenda. Per chiarire quanto ci potesse essere di vero ho fatto una breve ricerca; purtroppo le notizie attendibili sono scarse.

Poiché quanto detto si riferisce al l’ex feudo di Geraci, un giorno mi recai sul posto per informarmi se conoscessero queste leggende. Ma il luogo è spopolato e lontano dai centri abitati. Ebbi però la fortuna di trovare nella masseria il proprietario professor Guglielmo Fontanazza che, molto gentilmente, mi disse intanto di aver conosciuto la principessa, la quale spesso d’estate dimorava nel vicino ex feudo di Camitrici di sua proprietà, e di non pensare che avesse origini contadine: “Era una nobildonna” affermò. (E’ da ritenere però che, essendo nata da madre nobile ed avendo ricevuto un’educazione adeguata, fosse facile non mostrare tracce delle origini paterne). Aggiunse di escludere l’esistenza del tesoro; nei pressi erano state trovate monete greche ma non tesori. In quanto al convento, di cui rimane la chiesetta, fu fondato qualche anno dopo il 1860, quando il duca di Misterbianco donò al figlio, abate domenicano, le terre di Geraci. Al monastero, che i domenicani abitarono solo in primavera e autunno, fu aggiunta la “roba” (qui nell’accezione siciliana di masseria). L’abate successivo permutò il convento e il feudo di Geraci con quello di Draugrosso, dello stesso duca, che si trova nel territorio di Piazza Armerina. Così il primo rimase vuoto e nel secondo ora ci stanno le monache agostiniane.

 Comunque non gli risultava che nella zona ci fossero stati insediamenti di contadini di Pietraperzia; diversamente che nella limitrofa contrada di Geracello. E qui, avevo scoperto, i monaci vi si erano stabiliti sin dall’alto medioevo.

In un libro del 1883, “Il Gran Priorato di S. Andrea e i Monasteri Benedettini”, custodito nella biblioteca comunale di Enna, alle pagine 64 e 65 si legge: «Nel feudo nobile di Irachello o Giracello (Iracello) posto tra Castrogiovanni e Piazza erigeasi un antico cenobio, i cui frati osservavano la regola dei Basiliani, e nel decimo secolo le condizioni finanziarie erano state migliorate per le concessioni ottenute da Rogiero Kalmuk. Questa comunità è ricordata dalla bolla del Pontefice Alessandro terzo del 1178 descrivendo la Catanese Diocesi. Ignorasi il tempo in cui i Basiliani abbandonarono questo Monastero, e la causa che determinò tale allontanamento; sconoscesi pure l’epoca in cui i Cassinesi l’occuparono. Certo si è che nel 1400 era riconosciuto qual priorato benedettino sotto titolo di Santa Maria di Irachello. Non si rileva da alcun documento il tempo in cui fu abbandonato dai Cassinesi; solo tuttora nel feudo omonimo scorgonsi gli avanzi del Cenobio e della Chiesa».

In altre pagine è scritto che i benedettini furono estranei «alle politiche vicende» e «rifulsero per dovizie e illibatezza dei costumi». Forse però è il caso di leggere un po’ di storia del monachesimo, limitandoci alla Sicilia, con brevi cenni.

 

 

La chiesa di Geraci - 2001, acquerello 31x23

 

[Segnalibro: monachesimo

La vita monastica in Sicilia iniziò probabilmente con Sant’Ilario, venuto dall’oriente nell’anno 363, e proseguì con profughi monaci orientali che osservavano la regola di San Basilio. Questi, “a un’intensa attività ascetica” univano “una splendida attività culturale in ogni campo”. La Sicilia si arricchì di monasteri, in diretto rapporto con Costantinopoli, influenzando le popolazioni locali tanto che si arrivò a parlare greco in gran parte della Sicilia orientale.

Nell’827 gli Arabi iniziarono l’occupazione dell’isola e molti monaci, tra cui ricordiamo Sant’Elia da Enna, si trasferirono in Calabria, cosicché la civiltà greco-bizantina si diffuse oltre lo Stretto. Quelli rimasti pagarono tributi ai musulmani ma non furono infastiditi, ebbero riconosciuti i loro diritti e poterono mantenere rapporti stretti con i monaci bizantini d’oriente fino allo scisma del 1054.

I Normanni poi, superata un’iniziale diffidenza, fondarono altri monasteri basiliani, anche femminili, che diventarono sempre più vitali ed efficienti. Alcuni raggiunsero posizioni economiche grandiose, con vaste estensioni di terre, sia boschive che coltivate da centinaia di contadini o adibite a pascolo.

Allo stesso tempo, i nuovi conquistatori favorirono la fondazione di monasteri benedettini, che crebbero di numero, di potenza e di prestigio fino al XV secolo, utilizzando moltissima manodopera di villici, servi ed anche schiavi. Poi la loro potenza si ridusse, ma continuarono i lasciti dei fedeli che speravano di comprarsi un posto in paradiso. Intanto vescovi e alti prelati ne alienavano qualche parte in favore delle proprie famiglie.

Per i monaci di rito greco-bizantino la decadenza era cominciata nella seconda metà del XIII secolo con la dominazione degli Angiò e degli Aragona in lotta tra loro, che favorirono i monasteri benedettini, tra l’altro con molte sedi vescovili. I basiliani “furono sottoposti all’autorità pontificia e inseriti nei quadri dell’organizzazione ecclesiastica latina”. Nel XVI secolo si avrà la quasi scomparsa del rito greco, ma resteranno tracce profonde nel campo economico e artistico, e numerosi manoscritti bizantini daranno alimento ai secoli dell’Umanesimo. Ovviamente non tutti i monasteri raggiunsero grandezza e potenza. Ve ne furono parecchi minori e che adoravano santi dei quali non c’è traccia in quanto non ci sono rimasti scritti.

Generalmente i monaci erano industriosi, studiosi e pii. Il malcostume conventuale si ebbe col raggiungimento di ricchezza e potenza, quando signori avidi vi si intrusero per approfittarne. Alcuni fondarono anche monasteri propri per farsi eleggere abati, restando laici e governando dall’esterno.

Molti monaci, figli cadetti di nobili, entravano in convento senza vocazione religiosa, e all’interno del monastero perpetuavano la vita agiata e corrotta dei signori. La Regola non veniva osservata e si commettevano molte irregolarità. I monaci poveri, privi anche del necessario sostentamento, abbandonati a se stessi, dovettero sentirsi liberi di provvedersi fuori dalla Regola e dalla legge.

[Nota 08-1: Le notizie sul monachesimo le ho ricavate maggiormente da “Il monachesimo bizantino nella Sicilia e nell’Italia meridionale e prenormanne” di Silvano Borsari, edito dall’Istituto Italiano per gli studi storici in Napoli, 1963; e da “Storia del Monachesimo in Italia dalle origini alla fine del Medioevo” di Gregorio Penco O.S.B., edizioni Paoline, 1961].

Non è da escludersi che ci fossero stati gruppi di briganti mascherati da frati per meglio delinquere. Il motto “l’abito non fa il monaco” sarebbe potuto nascere da tale constatazione. E’ dunque plausibile che banditi, comunque vestiti o camuffati, abbiano potuto nascondere un tesoro, poi non recuperato e trovato da un contadino mentre arava il terreno.

Ma qualcuno dice che il tesoro sarebbe stato composto da marenghi d’oro, il che lascia alquanto perplessi, trattandosi di monete francesi da venti franchi fatte coniare a Torino da Napoleone per commemorare la famosa battaglia del 14 giugno 1800.

In realtà, se tesoro fu trovato, non sappiamo di quali monete fosse composto.

 

[Segnalibro: soldi] 

Comunque, secondo quanto sentiva raccontare mio zio, Calogero Drogo andò a Palermo per vendere alcune monete, cercando di non destare sospetti. E dovette sobbarcarsi a un viaggio lungo e faticoso in quei tempi.

«Come ne siete venuto in possesso?» gli chiese il cassiere della banca, incuriosito nel vedersi offrire monete d’oro fuori corso da un tipo che certamente aveva l’aspetto campagnolo.

«Ma sa» fu la risposta «se uno riceve uno schiaffo porge l’altra guancia».

Che cosa volesse dire non si capisce e forse non lo comprese il curioso bancario, o intuì che era una non risposta e rinunciò a fare altre domande: in fin dei conti alla banca interessava incassare, il denaro non ha difetti, e con le monete di quel contadino, che sicuramente ne possedeva altre, poteva ricavarci sostanziosi guadagni. Perciò gli fu detto di portarne ancora, se ne aveva, e in caso di considerevole quantità, il controvalore sarebbe stato più elevato.

La leggenda dice che Calogero divenne straricco, ma in realtà lo divenne uno dei figli, Rocco, mentre gli altri e il proprio fratello raggiunsero un benessere moderato. In sostanza si attribuisce al padre la ricchezza che accumulò il figlio. Ma non è escluso che abbia cominciato il primo a comperare case e terreni. Ed è perfettamente credibile che facendo ristrutturare o demolire stamberghe per ricostruire, trovasse denaro nascosto nei pavimenti o nelle pareti: in quei tempi non c’erano banche o casse di risparmio al paese e il denaro e i preziosi venivano nascosti in casa, tacendo il nascondiglio perfino ai propri figli.

Venendo alla realtà, è certo che Calogero Drogo era un contadino analfabeta, cosa comune allora, e probabilmente non era benestante, ma ebbe fortuna e fece studiare i figli, uno dei quali divenne prete.

Mi sarebbe piaciuto consultare gli archivi per chiarire l’origine della famiglia, le condizioni economiche nei diversi decenni e conoscere le date dei molti acquisti. Ma sono un emigrante in vacanza nel proprio paese d’origine e non ho tempo né titolo per farlo. Perciò concludo la storia con le poche notizie raccolte qua e là.

 

[Segnalibro: rocco] 

La famiglia Drogo (dall’arabo drogu = saraceno) venne a Pietraperzia, forse proveniente dalla Spagna, nella metà del 1600.

Nel 1644 un don Giuseppe Drogo fu eletto giurato (assessore) e nel ‘700 un Padre Giuseppe fu priore di Santa Maria. Ma l’ascesa della famiglia, che pare fosse “borghese”, cominciò con Calogero, nato nel 1778, di cui abbiamo raccontato la leggenda. Egli aveva due fratelli, Pietro, anch’egli contadino, e Salvatore, sacerdote.

Calogero sposò Anna Dinarello, dalla quale ebbe almeno nove figli, quattro femmine e cinque maschi, dei quali Vincenzo prese l’abito talare e Rocco divenne uno dei personaggi più ricchi della Sicilia.

Questo protagonista di tanta grandezza era piccolo di statura, tarchiato, ma pieno di vitalità e attento osservatore, spregiudicato negli affari e molto interessato al capitale. Diversamente da quello che si potrebbe pensare, pare che non fosse usuraio. E non si parla mai di mafia. Divenne ricchissimo mentr’era ancora giovane, per vari fattori: l’inflazione che avrà favorito operazioni speculative, l’aver preso in affitto il feudo di Geraci (da cui nacque la leggenda del tesoro) e l’esproprio dei beni della Chiesa da parte dello Stato Savoiardo nel 1866. Ma già in vista di questo evento la Chiesa aveva ceduto delle proprietà a prestanomi parenti di preti, che poi non le restituirono e divennero ricchi. Rocco Drogo potrebbe essere stato uno di questi e divenne padrone di ben sei o sette feudi: Aiuolo, Camitrici, Cipolla, Garrasia, Rigiuro, Tallarita, oltre a molti terreni sparsi nel territorio di Pietraperzia e zone limitrofe ed a case e palazzi.

Il figlio d’un contadino, divenne cavaliere, sedeva a fianco dei grandi nobili, rispettato e forse temuto, e poteva aspirare a imparentarsi con loro.

Il 21 gennaio 1871 infatti Rocco sposò la figlia del barone Giuseppe Bonaffini e di donna Brigitta Bettone dei baroni di San Giuseppe dell’Oliva.

[Nota 08-02:  Il fratello primogenito della sposa, Michele, era paragonato a Pico della Mirandola per la sua intelligenza. Poeta precoce e di vasta cultura, impazzì nel 1852 e morì nel 1882, a 57 anni, essendo nato il 16 febbraio 1825].

La sposa, donna Emanuela, era nata il 15 giugno 1841 e lo sposo il 28 agosto 1828. Dunque lui aveva tredici anni più di lei, rispettivamente quarantatré e trent’anni, cosa abbastanza frequente a quei tempi. Meno frequente era che la donna andasse sposa così tardi. Un vecchio detto “A vint’anni o la spusi o la scanni” fa capire che le donne venivano maritate prima, anche a dodici anni. Però poteva capitare che si andasse a nozze tardi, fra l’altro, per molteplici rifiuti o per mancanza di soldi. Strano è però che un barone accettasse come genero il figlio di un contadino, ancorché ricchissimo. A meno che fosse un nobile decaduto. Comunque sia, il matrimonio si fece e dopo quattro anni fu allietato da una bella bambina che chiamarono Anna Brigitta Filippa, più comunemente Annetta o Anita.

E fu l’unica nipote di Calogero che ne portò il cognome, poiché i figli maschi non si sposarono regolarmente ed ebbero prole illegittima, compreso Rocco, e in alcuni casi dovettero tacitare con terreni le famiglie disonorate.

La sposa del nostro eroe fu una santa donna che andava a visitare i parenti poveri del marito, dei quali lui si vergognava, e faceva loro beneficenza. (Questo me lo raccontava mio padre ).

Il cavaliere Rocco Drogo fu sindaco di Pietraperzia negli anni 1890, ’91 e ’92. E presidente del Comitato Archeologico già da prima.

Il nostro paese si trova al centro di molti siti archeologici ma dei ritrovamenti si vede solo qualche coccio in una vetrinetta nel corridoio del municipio. Alcuni reperti si trovano al Museo Archeologico di Enna in una vetrina nella sala V.

 

[Segnalibro: principessa

Di archeologia s’interessava pure un rampollo dei principi Lanza, Nicolò, che veniva a soggiornare nel castello di Pietraperzia, la cui amministrazione era stata affidata a suo padre dai proprietari Branciforte-Lanza.

Il giovanotto chiese la mano di Annetta e pare che il padre di lei non fosse molto d’accordo a causa della giovane età del pretendente, ma abbia ceduto alle insistenze della moglie e di amici del principe. In fondo si trattava di un buon partito: nell’elenco araldico che ho trovato su Internet non è scritto che suo padre, don Francesco Gerolamo Lanza, fosse principe di Trabia, come il fratello, o di Scalea, secondo quanto scrivono i nostri storici, ma è detto comunque Principe Lanza, imparentato con diversi principi, duchi, marchesi e conti. Sua madre, donna Rosa, era figlia di Lucio Mastrogiovanni Tasca Conte d’Almerita e di donna Beatrice Lanza dei principi di Trabia.

Il matrimonio fu celebrato il 6 dicembre 1895 in casa, per mantenere una vecchia usanza dei nobili, facendo figurare che la sposa era malata di artrite reumatica, e andarono ad abitare nel palazzo di via Castello, ora via Principessa Deliella. Entrambi erano nati nel 1875, il 4 ottobre lei e il 24 gennaio lui.

Mio padre e mio nonno dicevano che il titolo di principessa Deliella fosse stato comperato con l’omonimo feudo dal cavaliere Rocco per la figlia, ma forse sbagliavano, se leggo che lo sposo portò in dote tale feudo e quello di Almerita. Poiché non si sa per quali meriti il giovane ventenne abbia ottenuto il titolo di principe con decreto Reale del 12 agosto 1875, quattro mesi prima del matrimonio, si potrebbe sospettare che il suocero abbia brigato per farglielo ottenere e nobilitare così la figlia col titolo di principessa.

Ma il matrimonio non fu felice. Il marito, vizioso e senza personalità, si godeva la vita a Palermo, lontano dalla moglie, sperperando il patrimonio al gioco e con le donne. Rubava senza ritegno le derrate agricole e pare che avesse ucciso l’amministratore di un feudo della consorte per aver riferito alla principessa che gli ammanchi erano dovuti al marito.

La moglie riuscì a salvarlo dal carcere pagando con delle terre un uomo affinché si autoaccusasse dell’omicidio. Il poveretto accettò per sistemare i figli e lui fu condannato all’ergastolo. Ma, vecchio e malandato, ne uscì dopo sei anni. A questo punto però tra gli sposi avvenne la separazione definitiva: Annita assegnò a Nicolò una quota annua e lui si stabilì a Palermo in una palazzina della moglie. Questo leggo, ma c’è da ricordare che lui aveva comunque delle proprietà e forse venivano gestite dalla consorte (3).

Anche la principessa viveva a Palermo ma d’estate veniva a Pietraperzia per curare i suoi interessi terrieri. Preferiva abitare nell’ex feudo di Camitrici, ma quando stava al paese andava spesso a pregare nella Chiesa Matrice, tenendo un libro in mano e una veletta nera sul capo, seduta su un banco a lei riservato di fronte all’altare absidale sinistro dedicato al Sacro Cuore di Gesù. Mentre l’autista in livrea aspettava davanti alla chiesa con la sua grossa auto, l’unica in paese.

Per la sua semplicità nel vestire ma più per la sua origine era detta “la principessa villana”, nel senso di contadina, “viddana” appunto, in dialetto. In quanto a educazione e cultura era una nobildonna istruita da due istitutrici straniere – una tedesca e l’altra francese – ed amava molto viaggiare. Di temperamento forte, pare che montasse bene a cavallo.

Al pari della madre si dedicò a opere di bene. E quando morì, di leucemia, lasciò alle suore Ancelle Riparatrici di Messina il palazzo dove abitava a Pietraperzia e vaste proprietà terriere per il mantenimento dell’Istituto, che avrebbe ospitato un orfanotrofio per ragazze povere, asilo, doposcuola, laboratorio di ricamo e catechismo.

Mia madre mi ha detto che nel palazzo, durante i lavori di restauro per essere utilizzato dalle suore e dalle orfanelle, sotto una tucchiena (ripiano in muratura) fu trovata una pentola piena di monete d’oro. Ma forse si tratta solo di voci: la leggenda si ripete.

 

[Nota 08-3: Per la storia sulla famiglia Drogo devo molto, tra l’altro, a quanto scritto dal sacerdote Filippo Marotta in “La Voce del Prossimo”, ne ha scritto pure il nostro storico Lino Guarnaccia col sacerdote Salvatore Viola e devo inoltre ringraziare i sacerdoti don Giuseppe Siciliano e don Giovanni Messina per la loro cortesia e i bibliotecari signora Giovanna Bevilacqua e Vincenzo Toscano].

 

 

 

Il palazzo Deliella (fotomontaggio elaborato al camputer)

 

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