I TEMPI CAMBIANO

di Vincenzo Ballo

Le abitazioni

 

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Passammo da via Principessa Deliella seguendo la processione del Corpus Domini. Il palazzo omonimo non appare grandioso, si mostra a un piano ma, essendo stato costruito su un pendio ripido, quello che sembra il pianterreno è in realtà il primo piano. Tutta la strada attraversa il quartiere Montagna dal castello alla chiesa di san Francesco, e molti balconi si affacciano sul panorama, che possiamo ammirare pure noi quando attraversiamo le strade che portano a valle e qui sono gradinate. Altri palazzi furono costruiti lungo questa via, inseriti fra le case dei contadini, ma nessuno è degno di nota (eccetto uno per il solo fatto che nell’agosto del 1862 ospitò per due giorni Giuseppe Garibaldi, a cui però è stata dedicata un’altra via un po’ più in basso) e alcuni, abbandonati, sono pericolanti. I nobili, avendo alienato gran parte della proprietà terriera sulla quale fondavano la loro ricchezza, sono emigrati anche loro, per andare a lavorare in città e fare una vita attiva. Altri ricchi, se rimasti, hanno preferito costruirsi una casa nuova in pianura, più comoda per viverci e più vicina alle vie di comunicazione. Cosicché oggi il paese, che conta un terzo degli abitanti di cinquant’anni fa, risulta molto più vasto per l’estensione edificata, ma molte case dei quartieri vecchi sono vuote. Infatti la processione procede per vie con alloggi ristrutturati accanto ad altri completamente abbandonati, con muri cadenti e imposte sconnesse, tra cui alcune rotte da permettere il libero passaggio di estranei. Persino il vecchio palazzo del Governatore, nella piazzetta del Carmine, ha i vetri rotti, le vecchie tende lacerate e uno striminzito ficodindia in vaso abbandonato in un angolo del balcone. Il transito del Santissimo Sacramento lungo strade con case deserte e cadenti sembra voglia testimoniare che comunque il posto non è abbandonato da Dio. Ma gli uomini lo hanno lasciato perché qui è difficile passarci con le auto. Invece nei quartieri nuovi le strade sono più larghe e il terreno variamente pianeggiante.

Le nuove case sono state costruite belle e spaziose oltre le dovute necessità, con grande cucina dove si può mangiare in molti, sala da pranzo per le grandi occasioni, salotto da mostrare agli ospiti, soggiorno con bei mobili capienti, camera da letto larga da consentire la visita di numerose persone in caso di degenza, camerette per i figli, camera per gli ospiti, due bagni e un ripostiglio, tutto al piano superiore; mentre al pianterreno c’e il garage per due macchine, locali di servizio, un gabinetto ed altri vani occupati da cianfrusaglie e grossi oggetti inservibili.  

Le case vecchie invece erano considerate spaziose quando avevano due stanze e la cucina, oltre alla stalla con un settore per la paglia. Costruite in fila congiunta, tra due vie degradanti, l’ingresso principale si affacciava generalmente nella strada superiore e, a seconda del grado di pendenza in cui si trovavano, era preceduto da qualche gradino o da una rampa detta tucchiena, se aveva pochi gradini, o àstricu, con parapetto in muratura o raramente in ferro, se ne aveva molti. In qualche caso la scala era interna e finiva direttamente in una stanza. Un modello tipico di casa era quello in cui, superata la tucchiena, la porta si apriva in un piccolo corridoio che conduceva ad una camera nella quale c’era l’alcova. Le tendine celavano il letto matrimoniale, sopra il quale poteva pendere l’amaca per il lattante. Dall’altra parte c’era un camerino. All’inizio del corridoio, che stava in mezzo ed aveva quindi le pareti in comune con alcova e camerino, c’erano due scale: una portava nella stalla, dove le bestie accedevano dalla strada inferiore, nella stalla c’era anche il pollaio e un altro locale grande per la paglia  e il fieno; l’altra scala portava sopra in due stanze, una delle quali adibita a cucina. Tra i due piani poteva esserci un’ammezzato dov’erano riposte le derrate alimentari: grano da macinare, olio nelle giare, cipolle, olive, frutta secca, mandorle e quant’altro di provviste vi si potesse conservare per essere consumato nel tempo; anche fave per ingrassare i muli.

Ovviamente non tutte le case erano così, potevano avere una grande botola (catarrattu) in una stanza per accedere alla scala che portava alla stalla, o mancare di alcuni locali qui menzionati, essere privi dell’alcova, non avere il secondo piano, avere l’ingresso direttamente in una stanza e poi passare nella camera da letto senza alcova (com’era la casa in cui nacqui, avente inoltre, a destra della prima stanza, la cucina e l’accesso alla scala che portava sotto). Infine, non più molto comuni come nell’Ottocento, potevano essere composte solo di un vano che servisse per tutto e per tutti (comunemente se non si avevano bestie) o un primo locale per le persone e un altro retrostante e buio per il mulo o il somaro, ovviamente tutto a pianterreno. Alcuni di questi “monolocali” avevano, dietro la porta d’ingresso, il gabinetto a raso terra, costituito dall’imboccatura di un tubo collegato alla rete fognaria realizzata nel 1937, contemporaneamente all’acquedotto. (Prima in molte case c’era il pozzo, ma l’acqua non era dappertutto molto buona). Per dare luce al pianterreno c’era una piccola finestra nel muro o nella porta, la quale nei giorni d’estate restava aperta e l’interno era celato da una stuoia paramosche di fusi di ddisa (steli di ampelodesmo) detta issina. Nelle case di più vani, alcuni possedevano una regolare “tazza”, ma molti non avevano nulla e si arrangiavano col vaso da notte, che svuotavano nella strada o nell’immondizzaio di qualche angolo. I contadini avevano la stalla e mischiavano tutto nel letame.

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Il bagno lo si faceva nella pila (vasca per lavare la biancheria) e lo shampoo in una bacinella, asciugandosi i capelli al sole o tenendoli vicino a una fonte di calore, che d’inverno poteva essere uno scaldino.

Le case di una volta erano costruite con pietre di tufo e gesso prodotto in contrada Marano, e molte avevano fondamenta superficiali. Non ci si preoccupava di squadrare le pietre e col tempo i muri “facevano la pancia”, s’incurvavano verso l’esterno e minacciavano di crollare con molta polvere, che si era già formata all’interno di essi. Se non si avevano soldi per fare un muro nuovo, si puntellava il vecchio con delle travi di legno. I pavimenti delle stanze erano rivestiti di mattonelle di terracotta grezza, o smaltata con bellissimi disegni modulari, oppure d’un impasto con cemento, piazzate a scacchi di solito bianchi e rossi. Il pavimento della stalla poteva essere agghiancatu (con selciato), con basole di calcare, ciottoli di fiume o semplicemente di terra battuta.

Le case migliori invece erano costruite con “blocchi” di arenaria della Cava o di Camitrici e malta di cemento con sabbia o con calce, la quale ultima venne prodotta negli anni Cinquanta-Sessanta in contrada Serre, sopra la Santa Croce, dalla famiglia Taibi. Le pietre venivano squadrate sul luogo di costruzione da uno scalpellino che spianava una faccia rettangolare e i quattro spigoli, lasciando grezzo ma non sporgente tutto il resto. Oggi le case si costruiscono con parallelepipedi di arenaria provenienti dalle cave di Sabbucina, in territorio di Caltanissetta, o di Palagonia, e i muri poi vengono rivestiti con eleganza. Purtroppo non sono antisismiche.

[Nota 09-1: Noi diciamo Sabbucino (in dialetto Sabbugginu) ma trovo scritto Sabbucina nell’Atlante stradale d’Italia del TCI e Sabucina nell’Enciclopedia UTET. Perciò ho preferito il termine al femminile ma con due b].

I tetti, fatti con travi, venivano coperti con i vecchi coppi (canala), fabbricati al Ciaramitaro, non molto distante dal Canale, da Napoli, detto lu Canalaru.

L’arredamento tipo consisteva in un letto matrimoniale (ma vi erano anche i singoli per i figli), composto da due alti cavalletti di ferro, ognuno con due gambe e quattro piedi (chiamati trispa al plurale e trispu al singolare), su cui venivano poggiate delle assi larghe circa venti centimetri per sostenere due materassi ripieni di arfa, erba spontanea, con lunghe ma sottili e resistenti foglie rotonde, che cresce a ciuffi nei terreni di argilla grigiastra, generalmente spoglia perché troppo sterile che difficilmente vi nasce altra erba. (Quei ciuffi sono l’habitat di una specie di lumaca piccola e dalla chiocciola fragile a righe biancastre e marroncino smorto. Lumache, vavaluci – correttamente sarebbe da dire conchiglie – un po’ più grosse, più robuste e chiare, ma pur rigate, vanno in letargo, vivono e si riproducono sotto i mucchi di sassi. Altre ancora più grosse – ma non tanto come i lumaconi delle regioni del nord – d’un colore grigio-verde scuro, crastuna, e le simili ma piccole e mai striate, marùculi, è più facile trovarle fra l’erba umida dei ruscelli o ai limiti dei poderi. Tutte vengono allo scoperto dopo la pioggia. Ma vi sono inoltre lumachine biancastre che d’estate si fissano sugli steli di erba alta nelle terre pietrose e incolte. C’è chi le mangia lesse succhiandole dalla conchiglietta, facendo un rumore simile a certi baci che si fanno schioccare aspirando). Sul letto potevano esserci anche quattro materassi, e i due che stavano sopra erano possibilmente ripieni di lana, che però spesso  formava dei batuffoli compressi e quindi fastidiosi. Accanto al letto c’era un comodino, ad      una parete un comò e ad un angolo un armadio a tre ante: due strette e fisse ai lati con aspetto ornamentale e una grande apribile al centro, con lo specchio (se ne vedeva qualcuno scadente che deformava l’immagine e dava un senso di vertigine), il tetto era più alto al centro, in corrispondenza dell’anta principale. Molte famiglie avevano una vetrina chiamata cridenza della stessa grandezza dell’armadio, ma stava in un’altra stanza. Alle pareti c’erano stampe di quadri a soggetto religioso e fotografie di famigliari. La cucina aveva il fornello a legna (tannura) e una cassapanca per mettervi di tutto, dai piatti al pane, alle coperte. Per bere si usavano boccali di terracotta detti giarruna (giarruni al singolare) con quattro o sei labbri nell’orlo, e ognuno poteva scegliere il suo, perché si beveva tutti dallo stesso boccale. L’acqua si teneva nelle quartari (brocche di terracotta). Le sedie non potevano mancare, sia in cucina che in camera da letto, per i numerosi famigliari e per i parenti e gli amici che andavano a fare visita per conversare o quando ci si ammalava. Erano tanti, che l’ammalato durante il giorno non aveva tempo di riposare tranquillo né di avere privacy. Ovviamente s’infastidiva, ma si offendeva se non si andava a trovarlo. Perciò era un dovere a cui non si poteva rinunciare. Purtroppo le visite si facevano anche al mattino, e ancora oggi molte donne vanno a trovare le amiche di buon’ora, senza preavviso e senza necessità.

Il riscaldamento delle case era quasi inesistente, solo pochi avevano un braciere che d’inverno ponevano in mezzo a una stanza. Tutti invece avevano gli scaldini, usati quasi esclusivamente dalle donne.

Solo a partire dagli anni Settanta, nelle nuove case furono messi i termosifoni con caldaia a gasolio, e in alcuni condomini, che intanto si cominciarono a costruire, anche caldaie a gas. Poi, negli anni Novanta, è stato costruito un gasdotto proveniente dalla Tunisia, che passa vicino dal paese, offrendo l’occasione d’interrare nelle vie le condotte del gas metano, invogliando quasi tutti a servirsene.

 

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Girando per il paese, anche in altre occasioni, ho potuto apprezzare il miglioramento generale e l’abbellimento di molte vie. La “Costa”, in periferia del quartiere Canale, verso la sua metà era caratterizzata da un largo e profondo burrone scavato nei secoli dalle acque piovane, che la separava dalla parte bassa del vecchio quartiere Terruccia. Ora è stato riempito fino al ripiano che lo costeggiava, vi sono stati realizzati un piazzale e, lungo l’alto muro di sostegno, una strada che collega i due quartieri. Più su, nel ripido pendio con un tornante, sono stati piantati degli alberi “di bel vedere” che creano un ambiente da ode leopardiana. (Passandovi, mi ha ricordato, chissà perché, “quest’ermo colle” del Leopardi, nei pressi del suo palazzo a Recanati, chiamato monte Tabor. Sarà che “nel pensier mi fingo” (2) luoghi simili per impressioni d’atmosfere, non per fisicità. Come quando, militare, affacciato alla terrazza della caserma, vidi il tramonto sulla pianura padana e mi ricordò il mio paese, dove il sole tramonta dietro le colline, facendomi sentire per qualche minuto a casa).

[Nota 09-2: Da “L’Infinito” di Giacomo Leopardi].

Nuovi corsi e viali sono stati abbelliti con tigli, che a giugno emanano il loro intenso profumo, ed altri alberi ornamentali, alcuni dai belli e caratteristici fiorellini.

La salita di San Francesco, esterna all’abitato, una volta luogo di stazzuna, che emanavano la loro puzza di letame, ora è stata riqualificata e la vecchia trazzera a tornanti, asfaltata, è diventata un’artistica Via Crucis, con le quattordici stazioni raffigurate in bassorilievi di bronzo dello scultore Gaetano Salemi, originario di Mazzarino.

 

Intanto percorriamo le vie addobbate con i drappi più belli e vivaci che gli abitanti posseggono, alcuni messi sulle ringhiere dei balconi, altri accavallati su corde a formare triangoli e rettangoli che attraversano la strada come festoni.

La processione del Corpus Domini, pur svolgendosi di pomeriggio, è sempre suggestiva, sia per la funzione che si celebra ripetutamente per le strade, che per la coreografia di devozione che l’accompagna.

Il bel baldacchino di spesso tessuto di seta con ricami in oro, portato per le aste da quattro uomini, protegge il sacerdote officiante in ricchi paramenti sacri, il quale tiene devotamente davanti al suo viso l’Ostensorio e, malgrado il caldo, porta addosso il pesante piviale di raso    prezioso. Il sindaco, dietro a lui, tiene alto l’ombrellino sul suo capo in segno di onorevole rispetto. Li seguono un paio di assessori e il maresciallo dei carabinieri, poi la banda musicale e numerosi fedeli. Lo precedono due file di gruppi religiosi con rispettivo stendardo, in mezzo alle quali stanno i sacerdoti in cotta e stola, a volte accompagnati da un chierichetto. Un giovane porta un’asta con l’altoparlante che diffonde i canti liturgici. In testa ci sono i ragazzi del catechismo che hanno preso da poco o devono prendere a breve un Sacramento (Comunione o Cresima). Spicca il gruppo di verginelle con l’abitino bianco e il velo in testa, felici di sembrare sposine in erba nel giorno del matrimonio, alcune catechiste controllano l’ordine delle file, quindi vengono le signorine e poi le signore.

Una volta c’erano anche degli uomini incappucciati, con saio e cappuccio bianco, come fantasmi dall’aspetto inquietante, che davano la sinistra impressione di appartenere a società segrete, tipo i Beati Paoli, tranne quando tenevano il cappuccio indietro a lasciare scoperto il volto stanco e sudaticcio, e oggi potrebbero sembrare appartenenti al Klu Klux Klan americano, ma senza incutere terrore; in mano portavano una lunga torcia di cera, che accendevano durante le funzioni religiose serali e la fiammella era protetta da un cilindro di carta che ne aumentava la visibilità e creava un effetto magico e suggestivo (come del resto succede oggi con le pie donne che portano accese candele o fiaccole corte). Erano gli uomini delle Confraternite, che negli ultimi anni sembrava stessero per dissolversi ma poi, grazie all’impegno di alcuni confrati e alla capacità dei nuovi parroci, si sono riorganizzati, vestendo nuovi scapolari e partecipando alle principali funzioni dell’Anno liturgico. Alcuni di loro, nominati dal vescovo, vengono autorizzati a portare la comunione in casa alle persone impossibilitate a muoversi. Lo spirito religioso è aumentato fra gli uomini, anche se nelle processioni c’è minore partecipazione, essendosi ridotto l’interesse a causa delle molte possibilità di svago e di aggregazione che la vita moderna offre.

Lungo il percorso, a distanze variabili, ci sono degli altari provvisori, costruiti per devozione, a volte per voto, raramente per vanagloria. Il sacerdote vi si ferma per celebrare la benedizione, un secondo sacerdote in cotta fa oscillare un turibolo d’argento dal quale esce fumo d’incenso che diffonde un intenso profumo, mentre la banda musicale esegue “T’adoriamo Ostia Divina”, e alla fine tutti si fanno il segno della croce. A volte vengono sparati mortaretti. Ovunque non mancano fiori, abbondano nei vasi vicino o sopra gli altari, molti petali fanno da tappeto davanti ad esso, le donne dai balconi ne spargono sull’officiante. Tanti fiori ma poco profumo. Una volta ce n’erano in minor specie ma in maggior quantità e soprattutto molto più profumati.

Nel ricordare le feste del Corpus Domini dei vecchi tempi mi par di sentire l’intenso e amabile profumo delle rose, bellissime, di vari colori e quasi tutte grandi e vellutate. Ora anche quelle più costose non hanno profumo e sono piccole, l’apprezzamento è per il gambo, che deve essere lungo, quasi a doverle valutare per il numero delle spine.

Allora le processioni erano opportunità per corteggiare le ragazze. I giovani vi partecipavano principalmente a questo scopo, non essendoci altre occasioni per avvicinarle, a meno che ci fossero legami di parentela o di amicizia. Ma in questo caso era disdicevole il corteggiamento, anche se qualcuno a volte lo faceva.

 

 

Fotomontaggio di case

 

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