Per piacere, non spazientitevi subito, non mandate al rogo questo giornale, se pongo un quesito all'apparenza paradossale: la recessione economica in atto, così distruttiva e angosciante, potrebbe indurci ad un volontario salto di paradigma nella mentalità, nella cultura economica, nella politica? In altre parole, per scendere subito nel concreto, con il prezzo del barile di petrolio a oltre 60 dollari è realistico, oltre che ragionevole, pensare che la dinamica dei consumi (del consumo delle merci che il mondo del capitale produce) possa tenere il passo? E a quali prezzi, non solo monetari?
Se, da tempo, affermiamo che crescita e benessere si sono disgiunti (almeno per i due terzi dell'umanità), allora le alternative sono: rassegnarci e abbandonare l'idea che tutti abbiano il diritto ad una vita dignitosa, oppure ricercare le condizioni dello star bene e della dignità di ogni persona fuori dai parametri della crescita e dagli indicatori tradizionali dello sviluppo, compreso quello del Pil, produzioni e consumi compresi. Fuori, cioè, dall'attuale assetto produttivo e sociale capitalistico.
Un sociologo americano ha parlato del nostro tempo come affetto dalla sindrome dello scoiattolo in gabbietta: più corre, più il cilindro gira, più fatica per niente, quindi impazzisce. Più si lavora, fino a mancarci il tempo per vivere la nostra vita, per la cura dei nostri rapporti personali, per il nostro accrescimento culturale più ci si impoverisce. Ci hanno insegnato che chi lavora non mangia, e che era giusto così. Ma ora lavorare non comporta più alcuna sicurezza, né di reddito immediato né di assicurazione sul futuro, né per sé né per i propri cari.
C'è chi lavora praticamente gratis, giovani che persino pagano i corsi di apprendimento per poter sperare di entrare nel mercato del lavoro, famiglie che cumulano più redditi per sopravvivere. La lotta sindacale è ormai da tempo una affannata strategia di resistenza, qualche volta con risultati umilianti in termini di difesa dei redditi e del potere d'acquisto.
Sarà sempre peggio. Saremo sempre più soli, frantumati, indifesi, impauriti.
Ma non penso certo alla crisi come ad un salutare elemento taumaturgico scatenante la rivolta e la rivoluzione. Di solito, chi più le prende, più è costretto ad abbassare la testa. La recessione potrà essere benvenuta solo se qualcuno riuscirà a dimostrare con fatti ed azioni che un'altra economia (e un altro modello sociale) è non solo possibile ma urgente. La cosa è meno utopica e più semplice di quanto non si voglia credere.
Basterebbe rivalutare l'economia locale e potenziare l'economia pubblica, come scrive Francesco Gesualdi, del Centro nuovo modello di sviluppo nel suo ultimo lavoro, "Sobrietà". Prendiamo ad esempio l'energia, il cuore che fa pulsare tutto il sistema economico e di potere del mondo del capitale. La corsa contro il tempo è per la sostituzione del petrolio, se non per ragioni di sostenibilità ambientale dovute al surriscaldamento della biosfera, perché tra 30 o 40 anni sarà completamente esaurito anche a costi di estrazione doppi degli attuali. I futurologi si accapigliano: vincerà la lobby nuclearista (ammesso che le tecnologie ce lo diano pulito), quella dell'idrogeno (ammesso che si riesca a produrlo), quella delle fonti alternative rinnovabili (ammesso che i loro costi diventino abbordabili)? Oppure converrebbe mettere subito mano all'unico vero giacimento inesplorato e gratuito a nostra disposizione costituito dagli sprechi, dalle inefficienze, dagli usi impropri che vengono fatti nei processi di trasformazione dalle fonti fossili agli usi finali (calore, forza motrice, illuminazione, processi produttivi) con una dissipazione dell'energia più grande di quella che si riesce a rendere disponibile? A parità di investimento questo tipo di interventi libererebbe risorse, pur non contribuendo ad aumentare il Pil e sicuramente migliorerebbe la qualità della nostra vita.
Un altro esempio: le reti delle imprese dell'economia solidale. Come dimostrano le "pagine arcobaleno" trentine, bolognesi, veneziane consentono alle famiglie di costituirsi in gruppi di acquisto e di organizzare i propri consumi in modo più consapevole, sano, utile. La rivoluzione è meno distante dalla passata di pomodoro di quanto si creda, ci insegnano le famiglie della rete dei Bilanci di Giustizia. La mamma di un mio amico che ha problemi di mobilità mi ha spiegato che la sua vita è cambiata con la scoperta nella sua città di una "banca del tempo"; non deve più rinunciare ai normali rapporti sociali o rimetterci la pensione nei taxi.
Anche nel comparto della finanza, l'accesso al credito con le Mag dimostrano che altri circuiti produttivi e altri mercati sono possibili. Insomma se riuscissimo a dimostrare che potremmo ottenere un migliore tenore di vita (accesso a beni utili, utilizzo di servizi migliori, più tempo per le relazioni umane) pur essendo più poveri, daremmo un colpo mortale alla ragione dell'esistenza stessa del capitalismo; riusciremmo a dimostrare che senza si può e si sta anche meglio.
In fondo può valere anche per noi, occidentali in soprappeso quello che ha dimostrato Vandana Shiva: «La gente non muore per mancanza di reddito. Muore perché non ha accesso alle risorse». Vi sono comunità in ambienti ecologicamente positivi dove si può vivere con meno di due dollari al giorno. Ma non ne bastano mille per uscire dalla povertà se sei gettato in "città morte" (il riferimento è alle storie di inferno metropolitano raccontate da Mike Davis), dove tutto si paga e nulla ti è dovuto.