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Duns Scoto, il Dottor Sottile

Giovanni
DUNS SCOTO

(1266-1308)

 

 

Giovanni Duns Scoto nacque in Scozia, a Duns, contea di Berwick, da cui l'appellativo Scoto (=scozzese). Francescano, entrņ nell'Ordine nel 1282 nel convento di Dumfries, ma continuò gli studi ad Oxford. Nel 1291 fu nominato sacerdote, quindi visse a Parigi, soggiorno interrotto più volte a causa dell'ostilità di Filippo il Bello, ai tempi in conflitto con Bonifacio VIII. Morì nel 1308 a Colonia.

Considerato per molto tempo l'avversario principale di Tommaso d'Aquino, in realtà gli ultimi studi hanno dimostrato come il vero avversario dell'aquinate fosse Enrico di Gand. Scoto infatti nutrì una certa stima per Aristotele, tanto che il suo progetto teologico fu un tentativo di trovare un accordo tra l'aristotelismo e il neoplatonismo di Bonaventura, maestro naturale di Scoto.

Da ricordare che per la sua tendenza a proporre argomentazioni "cavillose" Duns Scoto passò alla storia con il soprannome di Doctor subtilis, Dottor sottile.

Vi sono da sempre dubbi attorno all'autenticità di alcune sue opere, contaminate dalla produzione dei discepoli. Tra le più importanti vanno ricordate il Theoremata, il De primo rerum omnium principio, le Collationes Parisienses, il Quaestiones super libros Metaphysicorum Aristotelis.

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Sommario

1. La distinzione tra fede e ragione

2. L'univocità dell'essere

3. I due tipi di conoscenza umana

4. La 'quidditas', la 'haecceitas'

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1. La distinzione tra fede e ragione

Argomento della filosofia di Scoto è l'opinione che teologia e filosofia vadano divise e non fuse o confuse, come invece accade per la filosofia tomista.

Per Scoto le verità di fede sono dogmi che hanno un esclusivo valore etico-pratico finalizzato alla salvezza dell'uomo. Ciò vuol dire che la fede non propone necessariamente verità scientifiche ("epistemiche", con riferimento alla loro evidenza incontrovertibile) ma principalmente etiche. La scienza filosofica può e deve rispondere ai suoi metodi, i quali sono quelli della deduzione necessaria e del sillogismo (la dimostrazione logica), la fede è invece una realtà dello spirito che poco ha a che vedere con la ragione essendo maggiormente inerente al sentimento.

Ecco che si possono distinguere, dunque, i principali tratti della teologia di Scoto: essa è una mediazione tra l'indirizzo tomista votato alla razionalità (la scienza filosofica in Scoto è liberata dalle limitazioni della fede) e quello mistico-neoplatonico-agostiniano, portato alla valorizzazione della fede come profonda conoscenza interiore e personale del principio divino. Scoto divide i campi di azione delle tue tendenza teologiche e le rende legittime entro i rispettivi ambiti.


2. L'univocità dell'essere

In disaccordo con le teorie di Tommaso, che sosteneva l'analogicità dell'essere, Scoto afferma che tra Creatore e Creato non vi sia analogia quanto univocità. L'essere divino e quello del mondo sensibile sono accomunati dal concetto stesso di "essere" e di "ente", quindi essi sono univoci, ovvero possono essere definiti per mezzo dello stesso termine.

Da rilevare che Scoto non predica un'identità tra le sostanze divine e materiali (la prima è infatti infinita, le seconda è finita), vi è senz'altro una differenza ontologica radicale fra di esse, tuttavia le due determinazioni dell'essere appartengono allo stesso concetto, quel concetto di ente (cosa che esiste) che è comune sia a Dio che all'uomo e all'intero creato.

Le capacità gnoseologiche dell'uomo (ovvero le sue capacità conoscitive) non sono interamente limitate al mondo dei sensi, è vero che nulla può permettere di percepire Dio con la stessa evidenza per cui percepiamo la materia, tuttavia Dio è percepito comunque dall'intelletto, cosa che sarebbe impossibile se tra la sostanza divina e quella umana non vi fosse alcun aspetto comune.

L'uomo percepisce Dio perché il suo intelletto può venire a contatto con il concetto di infinito, sebbene l'uomo non sperimenti l'infinito relativamente al suo stato di essere finito. L'uomo è nella condizione materiale di "entità finita" (che non è eterna) perché gravato dal peccato originale, il quale lo ha fatto cadere nella possibilità della distruzione e della degenerazione propria di ogni cosa organica e mondana.

Si può notare come nella formulazione di questo argomento Scoto tenti una mediazione tra la differenza ontologica predicata da Tommaso (della quale si conserva la sostanza) e l'esigenza di porre comunque una certa comunanza tra la sostanza divina e quella umana, pur non teorizzando un panteismo di puro stampo neoplatonico.


3. I due tipi di conoscenza umana

La conoscenza dell'uomo si esprime in due modi: Il primo modo è quello istintivo, il secondo è quello astrattivo. Il modo istintivo è quello che permette agli uomini di conoscere per via diretta e immediata le cose sensibili e concrete proprie del mondo naturale, il modo astrattivo è invece la capacità di avere un concetto universale delle cose particolari.

Pensando in astratto, l'uomo astrae (separa, allontana) gli aspetti particolari degli enti per considerare il loro carattere universale e comune, ovvero identifica ciò che vi è universale nel concetto degli enti per mostrarne la natura comune. Infatti, togliendo dalle cose (dagli enti) gli aspetti particolari (ciò che Aristotele avrebbe chiamato "accidenti"), degli enti rimane il concetto comune secondo le qualità considerate dal processo di astrazione (ad esempio, se si tolgono gli aspetti particolari legati all'ente "albero", il concetto astratto definisce l'albero come "un ente vegetale composto da radici sotterranee, da un fusto legnoso, dai rami, e dal fogliame". In esso vi è l'identificazione degli aspetti relativi a tutti gli alberi, mondati dagli aspetti particolari che non ne cambiano il significato).

Tale definizione della capacità astrattiva dell'intelletto si genera entro una logica platonica e neoplatonica, per cui l'intelletto umano è capace di comprendere concetti universali e assoluti.


4. La 'quidditas', la 'haecceitas'

Il problema degli universali si può così formulare: constatato che la realtà creata ha come caratteristica l'individuale (tutto in natura pare finito e unico, ha in sé una sola combinazione di caratteri, ogni uomo, ogni essere vivente e non, è diverso dagli altri), come dimostrare l'esistenza dell'universale (ovvero l'esistenza di esseri e sostanze infinite e assolute, quali, ad esempio, Dio)?

Duns Scoto risolve la questione in questo modo: l'universale non ha la stessa sostanza dell'individuale (Dio non è della stessa sostanza dell'uomo), l'universale è universale per l'intelletto e particolare nella realtà, ciò vuol dire che esiste un terzo stato, una certa sostanza intermedia, la quidditas (ovvero il "che cosa?" dell'ente), che identifica le cose particolari in osservanza dei concetti universali. La quidditas di Scoto è il tentativo molto sottile di tentare una congiunzione diretta tra universale e particolare.
La quidditas fu già considerata da Tommaso D'Aquino che la faceva coincidere
all'essenza, ovvero alla definizione potenziale dell'ente competente all'azione divina. La quidditas di Scoto è molto simile per concetto a quella di Tommaso, anche se ne vuole essere una formulazione più precisa.

La quidditas realizzata nel particolare si chiama haecceitas ("questità"), ovvero la qualità che è propria degli essere individuali, la qualità di essere individuali proprio e solo in una certa forma e non un'altra (la quidditas agisce come concetto dell'essenza che realizza la haecceitas in atto).

 

 

Scheda di Synt - Ultimo aggiornamento 4-10-2004

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