CAPITOLO 12
La fiducia nella moneta

 

Per gran parte della storia, l'umano consesso ha gestito i propri traffici ed effettuato i propri pagamenti utilizzando monete che avessero, per il materiale di cui erano costituite o col quale ne era garantita la conversione, un loro valore, chiamiamolo commerciale, indipendente dal fatto di essere monete: "All'opposto di altri tipi di misure, come il metro, il litro, il grammo, che sono misure astratte, il tipo dei valori è, intrinsecamente, un valore esso medesimo: il gregge, il grano, le pelliccerie, i metalli inferiori hanno un valore commerciale; tale è dell'oro e dell'argento che sono sempre stati molto ricercati, anche presso le popolazioni preistoriche e selvagge. Non è dunque la legge che dà loro arbitrariamente un valore fittizio; questo valore essi l'hanno in loro; l'hanno sempre avuto prima di essere rivestiti della stampiglia che ne fa delle monete, e l'avranno fin che l'umanità esisterà" . Queste parole, scritte da Babelon nel non lontano 1897, sono indice del fatto che non era prevedibile che la moneta potesse un giorno divenire un valore totalmente astratto; e tra le merci, l'oro e l'argento erano visti come i più adeguati esponenti a svolgere degnamente e in maniera affidabile il ruolo di moneta. Non potevano essere sostituiti, se non in casi contingenti ed occasionali, da nessun altro materiale: né dal rame, né dal ferro, né tantomeno dalla carta, "la storia è là ad attestare che una simile eventualità non si verificherà mai" , sentenzia Babelon. La misura dei valori doveva avere essa stessa un valore, questo era, secondo Georg Simmel, un fondamento logico spesso richiamato: "Si dice che uno strumento di misura debba essere della stessa specie dello strumento misurato: una misura di lunghezza deve essere lunga, una misura di peso deve essere pesante, una misura di volume deve essere estesa nello spazio. Una misura di valori deve quindi essere un valore" . Questo fondamento logico è franato nel momento in cui la moneta di carta, svincolandosi dalla conversione in oro da cui era sempre dipesa, si è imposta. Certo, anche la carta ha un suo valore commerciale, ma la sproporzione tra quest'ultimo e il valore con cui viene accettata sotto le vesti di moneta è tale da farlo apparire azzerato. La carta che avvolge i salumi ha più o meno lo stesso valore commerciale della carta di una banconota da cento dollari, ma chi trovasse per terra la prima si chiederebbe chi è il maleducato che contribuisce in modo inopinato al degrado urbano, chi trovasse la seconda passerebbe cinque minuti di felicità dimenticando il suddetto degrado e cercando un ufficio di cambio. Avendo presenti gli episodi descritti nei capitoli precedenti, di finanzieri audaci e cliché per stampare i biglietti sempre troppo produttivi, sembrerebbe quantomeno bizzarro che la carta abbia proseguito con successo la sua carriera di moneta. Non si saprebbe dire se è stato un semplice bisogno di comodità a favorire le banconote, assai più facili da conservare e da trasportare, o la capacità di queste ultime, non solo di creare disastri, ma anche di far rifiorire l'economia: la sensazione di rinnovata floridezza che sapevano portare le emissioni cartacee non avevano avuto eguali nella storia. Anche perché le monete di carta incoraggiavano molto le spese e dunque una più veloce circolazione del denaro. Una banconota, essendo inutile in sé, offre una ragione in più per disfarsi di essa, ma siccome il denaro si usa in modo esattamente opposto rispetto alle cose utili, cioè privandosene, ne risulta che quella di carta è un'ottima moneta. Dice Vittorio Mathieu: "La legge di Gresham, secondo cui "la moneta cattiva scaccia quella buona", non è altro che un corollario di questo principio: perché moneta "cattiva" è, per definizione, quella di cui uno cerca di sbarazzarsi. Al limite, se una moneta fosse così buona che ciascuno si attaccasse ad essa come a un bene in sé, essa non servirebbe più da moneta" . In fondo il pregiudizio che prima o poi tutto andasse a rotoli per una eccessiva prodigalità di stampa, era ciclicamente superato con la fiducia che il pubblico era sempre disposto a ridare. I Francesi, scottati dalla traumatica fine del "sistema" di Law, impiegarono più di settant'anni prima di osare ancora l'uso della cartamoneta, ma riprendere fiducia è solo una questione di tempo. Al di là delle ragioni che si possono addurre, rimane il dato di fatto che la carta ha superato per importanza i metalli in modo graduale ma spedito. Se si volesse indicare una data che segna maggiormente l'emancipazione della carta come moneta, ritengo che si dovrebbe risalire al 1971. Ma procediamo con ordine. Non erano mancati precedenti episodi in cui la cartamoneta era già stata dichiarata inconvertibile, ma si trattava di momenti particolarmente critici concomitanti, guarda caso, con le spese da sostenere in periodi di guerra. Inoltre l'inconvertibilità riguardava solo determinate nazioni, mentre il commercio internazionale continuava a privilegiare l'oro. In Inghilterra, per esempio, il corso forzoso, cioè l'impossibilità sancita dallo Stato di convertire le monete di carta in metallo prezioso, debuttò nel 1797: era in atto la guerra con la Francia e la nazione adottò questo sistema per pagare le ingenti spese che il conflitto richiedeva. L'argomento, se fosse giusto o meno far circolare monete che non valevano nulla e che, per di più, non rappresentavano nulla dal momento che non potevano essere convertite, fu all'origine di un accesissimo scontro tra coloro che ne sostenevano la legittimità e chi era di avviso contrario. Il motivo è semplice: tolto l'ultimo ostacolo alla creazione del denaro, ovvero le riserve auree della banca necessarie a convertire, a richiesta, le banconote - un ostacolo invero spesso superato con disinvoltura - chi poteva porre freno alla stampa di semplici biglietti di carta? Nel 1821 la situazione ritornò quella precedente al 1797, cioè venne revocato il corso forzoso. Anzi, a partire da quella data, per quasi un secolo la sterlina diede prova di una tale stabilità da guadagnarsi incontestabilmente il ruolo di moneta "internazionale". Accettata ovunque, come l'oro con cui si era sicuri di poterla convertire. Proprio con una valigetta carica di sterline, "quelle belle banconote che hanno corso in tutti i paesi" , Phileas Fogg, l'enigmatico gentleman inglese inventato da Jules Verne, poteva permettersi di fare il giro del mondo in ottanta giorni senza mai perdere tempo prezioso a cambiare i soldi. Ciò non toglie che il corso forzoso diventerà un espediente costante cui far ricorso nei momenti economicamente difficili, difficili per lo Stato s'intende. E così esso venne imposto durante la Guerra di Secessione negli Stati Uniti (1861-1865), durante la Guerra franco-prussiana (1870-1871), nel primo conflitto mondiale e anche durante il secondo da quasi tutte le nazioni belligeranti. Nel 1944, verso la fine della Seconda Guerra mondiale, le nazioni alleate contro le forze dell'Asse, si riunirono in una ridente località montana degli Stati Uniti, Bretton Woods: l'obiettivo era quello di fondare un nuovo assetto monetario internazionale che garantisse una maggiore stabilità. Vennero prese in esame alcune proposte, ma tra le delegazioni presenti emerse fin dall'inizio del negoziato la maggior forza contrattuale di quella degli Stati Uniti : senza entrare nei dettagli degli accordi presi a Bretton Woods è sufficiente dire che in quella sede si stabilì, in sintesi, un nuovo sistema monetario internazionale a cambi fissi, ancora basato sull'oro, ma in cui il dollaro si impose di fatto come nuova moneta internazionale cui le altre valute dovevano fare riferimento. Le varie banche centrali, da quel momento, non avrebbero posseduto esclusivamente riserve d'oro a garanzia (per quello che valeva) delle proprie monete nazionali, ma dollari che le autorità americane si impegnavano a cambiare a richiesta delle banche centrali in oro. Venne anche stabilito un prezzo fisso di conversione dell'oro a 35 dollari l'oncia. L'impegno dichiarato dagli Stati Uniti di garantire un'oncia d'oro per 35 dollari viene espresso dal nome dato al sistema: Gold Exchange standard (Sistema monetario a cambio aureo). Inoltre c'era un'altra questione da stabilire. L'Europa era a pezzi, non solo per l'enorme perdita di vite umane, era a pezzi dal punto di vista materiale perché le città erano state dilaniate dalle bombe, e anche dal punto di vista economico: per la ricostruzione avrebbe avuto bisogno di danaro, e molto. Gli Stati Uniti, che all'epoca possedevano i due terzi delle riserve auree mondiali, proposero un piano di ricostruzione noto col nome di Piano Marshall: gli Stati Uniti prestavano il denaro che occorreva all'Europa per rialzarsi; tuttavia non prestavano oro, ma dollari sotto forma di doni o prestiti a basso tasso di interesse. Chiaramente, l'aiuto che gli Stati Uniti fornivano all'Europa non era del tutto gratuito: "In cambio pretesero che gli altri paesi accettassero di collegare le loro monete nazionali all'oro e al dollaro, e che togliessero al più presto i dazi doganali e il controllo dei cambi che gli USA temevano costituissero un impedimento all'espansione commerciale delle grandi imprese americane" . Le implicazioni che questo sistema creò divennero presto evidenti: gli Stati Uniti, imponendo il dollaro nei pagamenti internazionali, si attribuirono un grande privilegio, che è quello di pagare i debiti con l'estero con la moneta del proprio paese. Chi assicurava che il governo americano non stampasse una quantità di moneta, e soprattutto non spendesse all'estero una quantità di dollari tale da non poter essere più coperta dalla riserva aurea di cui realmente disponeva? Naturalmente nessuno. Tutti i paesi del mondo hanno continuato per anni a vendere case, aziende, opere d'arte, in cambio di dollari. Fino a quando la riserva aurea che garantiva questi dollari rimase rassicurante, tutto andò bene, ma agli inizi degli anni sessanta la situazione era cambiata: la riserva aurea americana non era più sufficiente a coprire i dollari internazionali, cioè i dollari spesi all'estero. A questo punto, le banche centrali non americane cominciarono a preoccuparsi del valore internazionale del dollaro e si mostrarono sempre più propense a far valere il diritto di conversione dei dollari in oro. I metodi utilizzati dagli Americani affinché ciò non avvenisse hanno fatto giustamente parlare di imperialismo monetario americano o imperialismo del dollaro. Da un lato vi fu una sempre più accanita tendenza da parte dei teorici (in prevalenza americani) a costruire una massiccia campagna di denigrazione dell'oro: "Essi hanno preso a considerare l'attaccamento ai metalli preziosi come una spiacevole eredità del passato, ossia come un pregiudizio e, senza svelarne la genesi, hanno spiegato la corsa all'oro con le sue manifestazioni esteriori: l'isteria, il timor panico, la temporanea follia" . Si guardava l'oro come un feticcio ammuffito che ritardava il "progresso dell'efficienza e della razionalità" . Probabilmente, molti di questi teorici auspicavano, seppur con ragioni diverse, che si avverasse il desiderio di Lenin di trovare luccicanti vespasiani aurei nei centri urbani. Negli accordi presi a Bretton Woods, gli Stati Uniti insistettero su un sistema monetario basato sull'oro, perché era proprio l'oro che essi possedevano in abbondanza a consentire agli uomini d'affari americani di pretendere di pagare i loro debiti all'estero con la moneta del proprio paese: "Finché servì a questo scopo" commenta criticamente Backlund, "l'oro venne considerato economicamente, politicamente e moralmente irreprensibile. Quando nel 1960 cominciò ad ostacolare questo scopo, l'oro divenne a un tratto - secondo gli Americani - economicamente, politicamente e moralmente riprovevole" . Dall'altro lato, mentre la bilancia dei pagamenti americana con l'estero registrava deficit sempre più elevati, le richieste di conversione dei dollari in oro vennero sistematicamente disattese: è il caso delle ripetute richieste di conversione di dollari presentate dalla Banca di Francia, che iniziarono quella che venne definita la "piccola guerra" del franco contro il dollaro. In una situazione così svantaggiosa, infatti, solo il governo francese cercò di contrastare apertamente il sistema privilegiato di cui godeva la valuta americana. Il generale De Gaulle, allora presidente della Repubblica francese, un uomo che cocciutamente non accettò mai la sudditanza americana , orientò con determinazione la posizione del suo governo affrontando il problema in una conferenza stampa del 4 febbraio 1965: Le condizioni che hanno potuto a suo tempo provocare il gold-exchange standard si sono, difatti, modificate. Le monete degli stati dell'Europa sono oggi restaurate. […] Ciò significa che la convenzione che attribuisce al dollaro un valore superiore come moneta internazionale non poggia più sulla sua base iniziale, ossia il possesso da parte dell'America della maggior parte dell'oro del mondo. […] Quello che gli Usa devono all'estero lo pagano, almeno in parte, con dollari la cui emissione dipende soltanto da loro. Tale facilitazione unilaterale attribuita all'America continua a far sfumare l'idea che il dollaro sia un segno imparziale e internazionale degli scambi, mentre è un mezzo di credito proprio di uno Stato. […] Riteniamo dunque necessario che gli scambi internazionali si stabiliscano, come era prima delle grandi catastrofi mondiali, su una base monetaria indiscutibile e che non porti il marchio di alcun paese. Non credo sia scorretto affermare che gli Stati Uniti, dopo la Seconda Guerra mondiale si siano incaricati di essere, dal punto di vista monetario, lo Stato degli stati (almeno di quelli che avevano aderito agli accordi di Bretton Woods). Si ripensi al periodo in cui i governi di ogni nazione emettevano proprie banconote e ne garantivano ai cittadini la teorica conversione in oro. Quando i debiti del governo diventavano tali da non consentire la conversione, o si svalutava la moneta o si dichiarava il corso forzoso. Ebbene, dichiarare il corso forzoso del dollaro fu ciò che fece Richard Nixon il 15 agosto 1971, con un comunicato a sorpresa e insindacabile, tipico di un monarca di altri tempi. Con questo provvedimento, l'amministrazione americana aveva compiuto due passi importantissimi: il primo, quello di sganciare la moneta da un bene che avesse una pur minima parvenza di valore commerciale, e contemporaneamente aveva apparentemente liberato l'uomo dal mito dell'oro. Legandolo però alle catene del dollaro: "L'umanità si è emancipata dalla schiavitù del metallo, per sostituirla a quella della riserva Federale americana" . Il cercatore d'oro che procura le pepite conta meno del boscaiolo che procura gli alberi per la carta. La moneta fiduciaria ha fatto l'ultimo decisivo passo con l'inconvertibilità del dollaro. Se nel dopoguerra il sistema monetario internazionale venne basato sull'oro, la ragione è che gli scambi, sul piano internazionale hanno sempre richiesto un bene il cui valore fosse da tutti riconosciuto. L'oro è il bene che per una convenzione millenaria ha sostenuto la sua fama di avere un "valore". Spiegarne i motivi è stata l'ambizione di tanti studiosi e forse non si saprà mai chi di essi ha veramente ragione, ma è così: è una mera constatazione che su l'oro e l'argento la considerazione umana non sia mai venuta meno, indipendentemente dalle leggi. La loro importanza precede ed è indipendente alla loro monetizzazione. Anche i popoli che non li usavano come moneta li hanno sempre rispettati o addirittura venerati. Oggi nondimeno, relegati nelle vetrine dei gioiellieri, conservano nell'immaginario collettivo il loro significato di simboli di ricchezza. Sono un bene, scrive Marco Bianchini, "la cui liquidità è garantita da una millenaria convenzione" ; certo, sempre di una convenzione si tratta, e il fatto che sia millenaria non garantisce con sicurezza la sua perpetuità, soltanto la fa presupporre e questo è sufficiente. Centinaia di generazioni hanno tenuto viva questa convenzione; tra le spiegazioni più plausibili di questo amore quasi genetico per l'oro e (in misura minore) per l'argento, vi è quella che fornisce Bernardo Davanzati nella sua Lezione delle monete scritta nel 1588: [tra i metalli] i più perfetti e rari sono l'oro e l'ariento, che li due luminari sembrano di colore e di splendore. Fuoco, tarlo, ruggine, uso non li consuma; in filo e foglie si distendono a non credibili sottigliezze e lunghezze, ed hanno un non so che del divino. Infine, in tempi più recenti, ci ha pensato anche Freud a dire la sua, sostenendo che l'attaccamento dell'uomo all'oro è profondamente radicato nel suo subconscio. Per questi motivi, chi possedesse una cassa piena d'oro sarebbe ricco in quasi tutte le società di tutte le epoche. La carta non gode della medesima fama; anzi, nonostante sia un'invenzione di portata epocale nella storia dell'uomo, per certuni suoi usi cui spesso viene associata, gode di fama radicalmente opposta, e non risulta da alcuno studio che sia profondamente radicata nel subconscio di qualcuno. Inoltre le manca un'altra caratteristica importante, quella di essere rara. Tuttavia è possibile utilizzarla come moneta qualora esista la fiducia in un organismo che abbia il potere di garantire che quella carta possa essere in futuro convertita in oro, oppure che ne garantisca la stabilità del potere d'acquisto: questo concetto, quello della garanzia, che funziona in modo discutibile a livello nazionale, non può sussistere a livello internazionale, a meno che non venga riposta una fiducia simile in un potere sovrannazionale riconosciuto da tutti. Bertrand Russell, intellettuale il cui genio prese di mira quasi tutti i campi del sapere , riteneva che tra tutte le attività umane generalmente considerate utili, quella di andare in miniera a estrarre oro fosse la più assurda: "L'oro si estrae in Sudafrica e lo si manda con infinite precauzioni perché non sia rubato o non vada perduto, a Londra o a Parigi o a New York, dove sparisce di nuovo sottoterra nelle casseforti delle banche. Tanto valeva che fosse rimasto sottoterra nel Sudafrica" . Russell, usando parole non del tutto nuove esortava a fare un passo avanti con l'immaginazione e supporre che l'oro fosse già estratto, convenientemente trasportato e al sicuro nelle casse delle banche, ma di lasciarlo invece tranquillamente sottoterra. Egli stesso si rendeva conto che si trattava di una soluzione impraticabile senza una banca mondiale, un unico tipo di valuta e un governo centrale; e si rammaricava di come i popoli si ostinassero in una chiusura nazionalistica - del resto piuttosto forte nel momento in cui Russell scrive, nel 1935… - che impediva l'attuarsi di un sistema del genere, e che si fosse generalmente più desiderosi di mantenere gli stranieri in povertà piuttosto che arricchire la propria nazione. Parole vere le sue, che in fondo non sono poi tanto discordanti con il pensiero di John Maynard Keynes, forse il più importante economista del XX secolo. Keynes forse non prevedeva di lasciare l'oro in Sudafrica, ma scriveva: "La moneta ideale dell'immediato futuro dovrebbe essere probabilmente sottoposta ad un regime internazionale" . E questo regime internazionale doveva essere retto da un collegio composto dalle varie banche centrali cui affidare tutto l'oro , e in grado di gestire una valuta fiduciaria che avesse la funzione di mezzo di scambio internazionale e di valuta di riserva per le banche nazionali. Sfortunatamente gli accordi di Bretton Woods, non generarono una nuova moneta internazionale, ma stabilirono come moneta internazionale il dollaro. Ma il dollaro non può rivestire coerentemente tale ruolo, per il semplice motivo che il governo degli Stati Uniti e la Banca Centrale americana (la Federal Reserve) non rappresentano un governo centrale equanime e mondialmente accettato. Potrà essere deludente per chi sogna un mondo "migliore", ma non è ancora giunto il momento in cui gli uomini si sentono tutti appartenenti, non già a questa o quella nazione, ma ad un unico grande Stato: le diversità culturali, seppure sempre più appiattite e svilite da una scialba catalogazione geografica in diverse zone del mondo (Nord-Sud, Occidente-Oriente), persistono; così come persistono i nazionalismi, termine desueto e ormai quasi ripugnante per tutte le catastrofi che ha causato la sua più estrema idealizzazione, ma che, se moderato, rappresenta l'unico freno all'omologazione (qualcuno la chiama americanizzazione del pianeta) che tende a voler fare tutti gli uomini simili, tutte le nazioni uguali, togliendo il "piacere della diversità": e mentre è comune a tutti elogiare le diversità, commenta Sergio Benvenuto, le uniche diversità tollerate sono quelle che si riducono a differenze che attirano i turisti, le differenze puramente estetiche. Eppure si può notare come proprio l'appiattimento delle differenze sia il presupposto di monete comuni a più stati. Una moneta unica mondiale, che apparentemente non è ancora possibile, si sta sperimentando invece a livello europeo dal momento in cui gran parte delle nazioni del vecchio continente si sono sforzate di creare un'unica valuta comune; e se ci sono riuscite, è anche perché sono culturalmente meno diverse rispetto al passato. In particolare, scrive Benvenuto, si sono tutte un po' americanizzate. E che l'euro, il quale in definitiva potrebbe essere una sorta di risposta all'egemonia del dollaro qualora dovesse superarlo per importanza nelle transazioni internazionali, debba ringraziare l'americanizzazione dell'Europa, è una specie di paradosso. La fondazione della Banca Centrale Europea, infatti, e il rimpiazzo delle diverse monete nazionali con una unica, non sono finalizzate solo alla creazione di un più comodo mezzo di scambio europeo, ma anche a divenire una potenziale minaccia all'attuale primato del dollaro. Ragioni economiche, politiche, strategiche l'hanno vinta su quello che spesso viene definito un comune spirito europeo, ma da un punto di vista idealistico forse sono ciò che più si avvicina al sistema che auspicava Russell. Rinunciare alle diverse valute nazionali non era facile, perché, come ha commentato Daniele Archibugi in una recente intervista, "la moneta, come la bandiera, l'inno nazionale e la squadra di calcio, è un emblema che caratterizza lo stato nazionale" , rinunciarvi significa perdere una porzione dell'identità nazionale o, per tornare a concetti espressi poc'anzi, a parte della propria diversità: il nome, la forma, il colore della propria moneta non avevano eguali in nessun altro luogo del mondo. Viaggiare per mezza Europa senza mai dover cambiare i soldi e senza fare impegnativi calcoli aritmetici per stabilire quanto sarebbe costata la cena appena consumata, è una comodità indiscutibile, ma quei disagi erano un segno immediato che ci si trovava altrove, all'estero, in un paese diverso, e qualche fregatura per un errore di calcolo, ora impossibile, era quasi un piacevole inconveniente del viaggio. Ma come diceva Keynes, nel caso di un sistema monetario i vantaggi della varietà, della tradizione e delle preferenze personali hanno scarso rilievo rispetto al benessere economico. Senza dilungarsi ulteriormente sugli accordi di Bretton Woods, sulle caratteristiche del sistema monetario internazionale, sul dollaro, sull'euro e sulla Banca Centrale Europea, sulla diversità, vi è un solo ultimo dato da rilevare: con l'avvento della carta l'uomo ha raggiunto gradualmente la fiducia totale nel denaro, una fiducia tale da essere quasi incoscienza di ciò che esso sia. Marx riteneva che le difficoltà non risiedessero nel capire che il denaro è una merce, ma come, perché, grazie a che cosa una merce è denaro ; ora nulla di tutto ciò ha più importanza se non riguardo il passato: si è persa l'unica certezza che il denaro fosse una merce, forse tra un po' di tempo la moneta non esisterà nemmeno più fisicamente, il denaro è denaro, una tautologia che spiego usando le incisive parole di Simmel: "Il denaro ha valore per noi perché è il mezzo per ottenere valori" .

 

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