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Quando l’amore, all’improvviso
di Reika

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Ciao a tutti, volevo solo dire due parole, non sarò lunga perché anche io non sopporto  le prefazioni che sembrano papiri.

Questa è la mia prima fanfic che scrivo, non so bene neanche io come mi sia venuto in mente, forse perché mi sono innamorata di slam dunk e dei suoi stupendi personaggi e ho voluto anche io dire la mia su questa meravigliosa opera, non so bene come sia venuto il risultato quindi siate clementi. A tutti i temerari che hanno il coraggio di leggerla, spero tanto vi piaccia e se volete farmi sapere cosa ne pensate o mandarmi le vostre impressioni sarò felice di rispondervi (mailto: msoravit@tin.it)

Un bacione e un grazie di cuore alla mia amica Dany che ha una pazienza straordinaria e che mi aiuta sempre ogni volta che ho una crisi non so come proseguire la storia.

Ciao a tutti e buona lettura.

 

CAPITOLO 1

 

Correva veloce, il vento le sferzava la gonna e le scompigliava i capelli, evitava con agilità gli ostacoli che  le si paravano davanti e nella sua folle corsa non si accorgeva neanche della gente che le passava accanto e la notava con interesse. E come non notarla,una furia rossa che volava portata dal vento. Era in un ritardo terribile, doveva sbrigarsi, oggi giocava suo fratello e lui ci teneva tanto che la vedesse.

Accidenti ma il prof doveva trattenermi proprio oggi? E per cosa poi? Sempre la solita storia…

- Reika dove corri? Cosa voleva da te il professor  Himura?-

- Oh ciao Kira, niente sempre le solite cose -

- Il prof ti tiene sempre in guardia visto il cognome che porti - 

- Già e come se non bastasse mi ha fatto fare tardi, devo scappare, mio fratello mi aspetta -

La ragazza non diede neanche il tempo alla sua amica di rispondere che era già sparita. Affacciandosi alla finestra della classe Kira vide Reika correre nel cortile dell’istituto.

- Accidenti quella ragazza è una furia -

- Kira che fai, parli da sola? Muoviti che dobbiamo finire di pulire la classe -

Un ultimo sorriso al cortile ormai deserto

- Allora Kira ti decidi?-

- Sì sì eccomi… -

Ormai era quasi arrivata, entrando nell’edificio cercò velocemente le scale che l’avrebbero portata in palestra. Eccole , le salì due a due, il fiato corto, ora cominciava ad innervosirsi, quanto erano lunghe. Da lontano le giungevano voci indistinte, poi finalmente una luce, ancora un passo e le grida d’incoraggiamento degli spettatori le rimbombarono nelle orecchie.

- Accidenti, mancano solo due minuti alla fine del primo tempo, ma dov’é mio fratello? -

Cercava con lo sguardo fra i giocatori in campo, ma di lui nessuna traccia. Incominciava ad agitarsi, perché non riusciva a trovarlo? poi in un attimo, il panico. Era là, steso a terra sul bordo campo e perdeva sangue.

- Oh Dio -

Subito sentì una mano posarlesi delicata sulla spalla, girandosi riconobbe il suo amico Yohei, aveva il fiato corto, probabilmente l’aveva vista entrare ed era corso subito da lei. Dal canto suo il ragazzo sapeva già quale sarebbe stata la prima domanda della nuova arrivata, lo leggeva nei suoi occhi.

- Ciao Rei anche tu qui per la partita? -

- Yohei cosa è successo a mio fratello? -

- Non ti agitare, non è niente di grave, ha battuto la testa e si è procurato un piccolo taglio, ma non preoccuparti sai che ha la testa dura. Adesso la manager della squadra lo sta medicando. Vieni con me? Io e i ragazzi siamo qui sotto a fare il tifo -

- No grazie preferisco restare qui -

- Già da dove siamo seduti noi non si vede il bordo campo -

Reika si era voltata di scatto ma Yohei se n’era già andato impedendogli così di vedere il suo sorriso divertito. Il ragazzo sapeva quanto quei due fossero legati, niente e nessuno era mai riuscito a dividerli e sapeva anche quanto la ragazza poteva essersi preoccupata vedendo il fratello a terra sanguinante. Ormai l’incontro era finito. Era stato molto emozionante, fino all’ultimo minuto il Ryonan aveva cercato di tener testa agli avversari e nonostante uno straordinario Sendoh avesse dominato gran parte della partita, per loro non c’era stato niente da fare, 70 a 66, lo Shohoku aveva vinto.

Era stato fantastico, come sempre, gli piaceva vedere suo fratello giocare a basket.  Secondo lei era un vero talento, aveva iniziato da soli tre mesi e aveva già fatto enormi progressi, gli altri potevano dire quello che volevano ma lui era straordinario, un genio, il suo genio.

Yohei cercava tra la folla ma di lei nessuna traccia, chissà dove si era cacciata. Deve essere già uscita pensava.

- Ehi Mito chi cerchi? -

- C’è anche Rei, le ho parlato prima, ma non la vedo, deve essere già uscita -

- Hanamici sarà contento di sapere che la sua sorellina è venuta a fare il tifo per lui. E poi dopo la sua ultima schiacciata si gonfierà come un pallone -

- Sì hai ragione Takamiya, dai andiamo a raggiungere il nostro campione -

Accidenti ma quanto ci stanno? Sono uscita di corsa subito dopo la premiazione, non ho neanche pensato che i ragazzi dovevano andare prima a cambiarsi. Certo però che ora si esagera, peggio delle femmine, ma quanto ci mettono?

Reika continuava ad aspettare seduta sui gradini all’esterno dell’edificio, quando finalmente sentì la sua voce.

- Ha ha ha !!! Allora ve lo avevo detto o no che sono il grande genio del basket, solo io potevo cambiare il risultato perché sono un genio. -

Ormai era andato, quando cominciava a decantare le sue lodi non c’era verso di fermarlo, era partito a ruota libera e come un fiume in piena inondava la testa dei compagni, poi ad un tratto si era fermato. Nessuno dei ragazzi riuscì a dire niente, l’unica cosa che poterono fare fu rimanere immobili, ad osservare allibiti una ragazza coi lunghi capelli rossi, gettargli le braccia al collo e aggrapparsi a lui con forza.

Hanamici aveva smesso di ridere, lo sguardo serio, un’espressione dolce che indugiava timida sugli occhi umidi di lei, un lieve sorriso poi nient’altro, lui abbassava la testa, chiudeva gli occhi e la stringeva forte.

 

L’asfalto bagnato, il profumo della pioggia ancora nell’aria e il silenzio, niente e nessuno tranne lei che veloce correva sulla strada.

 Il fiato corto, lunghe ciocche bionde che ribelli sfuggivano alla coda di cavallo, il sudore che scendeva in gocce, concentrata dietro chissà quali pensieri, solitaria nel suo piccolo pezzo di mondo, aspettava, mentre la città intorno a lei si svegliava.

Erano solo le sei, ma correva già da più di un’ora. Le piaceva farlo, l’aiutava a rilassarsi e a non pensare ai suoi problemi. Si svegliava sempre presto e scendeva in strada quando era ancora buio e la foschia del mattino copriva con una leggera coltre bianca i contorni delle  figure. Quando era ancora presto e in giro non si vedeva anima viva si sentiva padrona di se stessa, nessuno poteva entrare nel suo mondo.

Da sempre una ragazza seria e decisa, dal carattere forte e risoluto. Una ragazza a cui la vita aveva insegnato troppo presto quanto poco di sicuro ci fosse al mondo e quanto velocemente le cose possono cambiare.

Non si può mai essere totalmente padroni di se stessi, ci sono volte, momenti, in cui altri fattori entrano in gioco, sconvolgendoti la vita, ma almeno in quel paio d’ore, sola, a fare i conti con la sua anima, almeno allora tutto era come doveva essere ed era lei a dettare le regole.

Quel lunedì mattina sembrava come gli altri, sveglia alle 5, un paio d’ore di corsa e poi veloce a casa per cambiarsi e prepararsi per la scuola, purtroppo quella mattina non era come le altre, rientrando scorse sua madre sulla soglia, dalla faccia non doveva aspettarsi buone notizie.

Non aveva ancora capito cosa era successo che già si trovava su un aereo diretto per il Giappone, sola, con la sua rabbia. Ma come avevano potuto i suoi genitori decidere tutto senza chiederle niente, questa volta era veramente furiosa, da suo padre poteva anche aspettarselo ma Karen? Lei era sempre stata sua amica e alleata. Anche se non era la sua vera madre le voleva comunque un bene dell’anima e invece questa volta le aveva giocato davvero un brutto tiro.

Kailynn Carson, bellissima ed intelligente, perfetta in ogni cosa. Ogni suo passo, ogni azione lasciava trasparire grazia ed eleganza.  Figlia del primario di uno dei più grandi ospedali di San Francisco era da sempre il modello che tutti volevano seguire, la ragazza perfetta, prima della classe, ottima atleta, insomma, il sogno di tutti.

Ma non erano solo queste le cose che la rendevano affascinante, Kailynn non era solo apparenza, una bolla di sapone fragile e senza consistenza. Forza e dignità le scorrevano come sangue nelle vene. Era decisa e caparbia. Grande già da piccola.

La madre era morta quando aveva solo 5 anni e il padre per quanto amore le potesse dare era molto spesso impegnato per lavoro, cresciuta praticamente da sola aveva imparato presto il significato della parola solitudine e ancora bambina aveva scoperto  che se si vuole stare in piedi in questo mondo, bisogna tirare fuori gli artigli.

Quando aveva 10 anni suo padre si era risposato, la sua nuova moglie Karen, era una donna molto bella e gentile, Kailynn non si era mai opposta al matrimonio, anzi era stata molto felice che finalmente suo padre si potesse rifare una vita, ma aveva subito messo in chiaro che mai e poi mai l’avrebbe chiamata mamma.

Una volta aveva detto a Karen…

- Se ti chiamassi così sarebbe come fingere che mia madre sia ancora viva, ma lei è morta e cercare di non  pensarci non me la restituirà. Non puoi fingere che una cosa brutta non sia successa  solo per non stare male, fuggire dal dolore non serve, abbracciarlo ti rende più forte -

Aveva solo 11 anni, era una bambina, ma mai prima di allora Karen aveva provato tanto rispetto e ammirazione per qualcuno. Non aveva mai sofferto per il rifiuto di non sentirsi chiamare mamma, anzi, era orgogliosa del coraggio che questa ragazzina le dimostrava giorno dopo giorno e sapeva che nonostante tutto Kailynn le voleva molto bene, le voleva bene come ad una madre.

- Eccomi, finalmente sono arrivata a Kanagawa -

Posando a terra le valigie la giovane straniera alzò gli occhi al cielo e respirando l’aria profumata dai ciliegi in fiore si avviò lentamente verso l’entrata della  villa. Era una piccola costruzione in stile occidentale che il padre aveva affittato per il suo periodo di permanenza in Giappone.

Suo padre non si era pronunciato sulla durata di tale periodo.

- Chi lo sa tesoro, magari poi lì ti troverai tanto bene da non voler tornare così presto. -

Sì certo come no, cosa c’era di meglio del trovarsi in un paese straniero sola e senza nessuno.

O forse il bello stava nell’aver lasciato a casa tutti i suoi amici, la famiglia, Sam, insomma la sua vita e tutto per cosa, solo per quello stupido incidente. Suo padre pensava veramente che spedirla all’altro capo del mondo l’avrebbe aiutata a superare la cosa, a dimenticare?

Si era seduta sul divano e con lo sguardo aveva cominciato a vagare per la stanza.  Non avrebbe voluto ricordare ma ormai le immagini le scorrevano vive nella mente ritornando a 6 mesi prima quando tutto era cominciato…

Alle 4 aveva appuntamento con Sam nella solita gelateria. Samantha era la sua migliore amica, si conoscevano dai tempi dell’asilo ed erano sempre andate molto d’accordo. Quel giorno avrebbero preso qualcosa di iper calorico in gelateria e poi via a fare shopping.

 Ormai era una tradizione passare il sabato pomeriggio così, solo loro e un sacco di pacchi da riportare a casa, con conseguente ramanzina dei genitori perché avevano speso troppi soldi.

Quel sabato però era in ritardo, si era dovuta fermare ad aiutare Karen in alcuni lavori ed ora stava correndo a perdifiato ma erano già le 4 e 20.

Questa volta Sam mi ucciderà.

Non aveva neanche avuto il tempo di finire la frase che subito era stata caricata sul cofano di un’auto.  Sfrecciava all’impazzata tra le strade del centro, non aveva osservato il rosso del semaforo e aveva travolto Kailynn che stava attraversando in quel momento. Una frenata improvvisa, lo stridire delle ruote, il suo corpo che  veniva sbalzato sull’asfalto e poi più niente.

La prima cosa che riuscì a ricordare erano un soffitto sconosciuto e i suoi genitori che accanto a lei le sorridevano con le lacrime agli occhi e poi  Sam, ovviamente, era li e le si fiondava addosso abbracciandola. Era il suo primo ricordo dopo 3 settimane di coma.

In seguito l’amica le aveva spiegato quello che era successo nel frattempo. Come era stata portata di corsa in ospedale, le urla disperate di Karen da dietro la porta della sala operatoria, suo padre che la chiamava e l’angoscia di quei giorni, 3 settimane d’inferno in cui tutti avevano smesso di respirare.

 Poi finalmente era successo qualcosa, niente di ciclopico, solo un dito, l’impercettibile  movimento della mano e tutti avevano ricominciato a sperare, poi aveva aperto gli occhi e l’incubo era finito. Al contrario delle previsioni la riabilitazione era stata lunga e faticosa. Per un lungo periodo Kailynn aveva dovuto rinunciare ai suoi allenamenti, ma il suo carattere forte non le concedeva il tempo di piangere e disperarsi. Finalmente dopo 4 settimane di duro lavoro era tornata quella di sempre.

In seguito si era scoperto che il ragazzo al volante si chiamava Kevin O’Neill ed era un’arrogante figlio di papà con molti soldi e poco cervello. Il ragazzo aveva già precedenti penali, non era il primo incidente che provocava ma negli altri casi non c’erano mai state vittime o feriti gravi e il padre, noto finanziere, era sempre riuscito a togliere il figlio dai guai. Questa volta però nemmeno lui l’avrebbe salvato da un lungo periodo in riformatorio.

Orami erano passate diverse settimane dalla sua totale guarigione e Kailynn quasi non pensava più all’incidente, ottimista com’era si era convinta che fosse così anche per gli altri, ma non aveva tenuto conto dello spavento che si era preso suo padre. Per un attimo aveva temuto di perdere la figlia proprio come anni fa aveva perso sua madre.

Già da un po’ pensava che sarebbe stato un bene per Kai allontanarsi dalla caotica vita di ogni giorno e soprattutto rilassarsi, avendo così il tempo di sfogarsi a modo suo e di scaricare il dolore e la tensione.

Ne aveva parlato con Karen e anche lei era d’accordo. Dopo l’incidente, c’era stato il serio pericolo che Kailynn non potesse più usare le gambe ed entrambi i genitori sapevano che questa possibilità l’aveva terrorizzata da morire nonostante non volesse darlo a vedere. In fondo, per quanto forte potesse mostrarsi agli altri, si trattava sempre di una ragazzina di 15 anni. Una ragazzina che nella vita aveva già fatto i conti con il dolore troppe volte per la sua giovane età.

Ormai sono qui, speriamo almeno che le cose vadano bene. Domani è il primo giorno di scuola, che Dio me la mandi buona.

Riempiendo la stanza della sua risata Kailynn si tolse la giacca e sprofondò nel divano del salotto, un attimo dopo era già addormentata.

 

Capitolo 2

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