Capitolo diciassettesimo:
SOLTANTO PAURA
"Cosa fai qui da sola?".
Già.
Cosa stavo cercando in quella mattina tiepida di inizio estate? E, ad ogni modo, avevo la speranza di trovare?
In realtà mi stavo solo straziando di domande inutili, di timori e stupidità.
Per lui sembrava tutto così semplice, naturale, ma io… cosa eravamo ora io e Ken? Tremavo a quel pensiero, atterrita: io non sapevo cosa significasse dividere il tempo, i giorni con un uomo. Lo avevo dimenticato.
Dopo Hiroyuki, io avevo abbandonato ogni desiderio e, naturalmente, ogni affanno: fu semplice sopravvivere sola, indipendente da chiunque, assurdamente forte.
E ora?
Cosa eravamo?
Avrei dovuto domandarglielo, lo so. Ma non ne avevo il coraggio.
Tutto era così maledettamente in lotta dentro di me da togliermi forze e fiato e poi non volevo, non potevo esplodere in un guscio fragilissimo di incertezze e nevrosi proprio di fronte a lui.
Per un momento il cuore tremò al pensiero che per lui quel nostro bacio potesse non avere alcun valore.
"Penso", risposi.
"A che cosa?", chiese sedendosi accanto a me sul dondolo appena in movimento del cortile.
"A tante cose…".
Come potevo raccontargli la mia inquietudine? Ne avrebbe riso o, forse, più semplicemente, la avrebbe detestata.
Meglio il silenzio, cercarlo, forzarlo.
Ma lui sembrava vivere in una quiete incomprensibile, tranquillo accanto a me, come se nulla fosse accaduto.
O, almeno, io interpretavo i suoi gesti a quel modo.
"Hai già fatto colazione?", mi chiese appoggiandomi una mano sui capelli.
Quel contatto sfiorato, che avrebbe potuto concedere tregua ai miei pensieri collosi e cupi, mi ferì ancora di più: un gesto infantile, intenerito, destinato certo ad un’amica, difficilmente ad un’amante.
"Non ancora", risposi.
E continuavo a sentirmi sbalzata tra il reale e il desiderato, ciò che era e ciò che avrei voluto che fosse.
Perché? Perché non trovavo nemmeno il coraggio dei gesti? Perché mi sentivo così in gabbia?
Avrei voluto abbracciarlo, forse. In realtà non sapevo bene nemmeno io cosa mi aspettassi, da me stessa e da lui.
Una di quelle cose che la gente chiama relazioni?
Un bacio?
Una parola? Una domanda? Un gesto o forse il silenzio o un contatto qualunque o le azioni a dire quello che non dicevano le parole?
Cercavo, forse, qualcosa di concreto, un contratto fino a quel momento stipulato senza promesse e quindi intangibile?
Non lo so, non lo so. Lo giuro…
E nell’incertezza massacrante che avevo dentro continuavo ad osservare Ken, distruggendone i gesti e le emozioni.
"Andiamo a mangiare qualcosa?", mi chiese ancora, insopportabilmente spontaneo.
Come se per lui non ci fosse precarietà, né domande, né pensieri.
"Ok", risposi.
Non so perché, ma quando io e Ken, dopo quelle poche parole che avevano avuto per me il sapore della formalità, ci sedemmo al tavolo con i miei colleghi, sentii, nitida, invalicabile, una barriera dolorosa tra noi.
Forse era solo imbarazzo, di fronte ai miei compagni, mi sentivo come sporca, colpevole di non essere più, rispetto a Ken, quello che ero al nostro arrivo.
Perché, pur nel tormento e nella paura, io capivo perfettamente, ed era proprio quella lucidità ad atterrirmi, che, in ogni caso, quel bacio aveva cambiato le cose.
Solo, non capivo ancora in che modo. O non volevo capirlo.
"Allora, Takako, come è andato l’allenamento?", Hiroyuki pose un accento malizioso su quella domanda e mi infastidì.
"Veramente non abbiamo ancora iniziato", ribatté Ken al mio posto.
"No, così… arrivavate da fuori, pensavo…"
"Già… Wakashimazu, perché non dedichi un po’ del tuo tempo anche a noi?", Mizuki fu tanto provocatoria da fare schifo, ma non avrebbe avuto senso una mia reazione.
Non so per quale ragione totalmente stupida io sentissi di non avere il diritto di essere gelosa. Assurdo. Mi ero piegata a quel sentimento quando io e Ken ancora eravamo in quel famoso punto di passaggio e ora, che a ben guardare potevo pure permettermelo, non ne avevo il coraggio.
Mi diede solo una fitta all’anima, ma non uscirono che parole che dichiaravano la mia resa.
"Mi è passata la fame, vado in camera", dissi alzandomi.
Volevo rimanere sola, avevo bisogno di pensare.
"Taro?", sussurrai nella cornetta, coccolata dalla penombra della mia stanza.
"Taka!", esclamò lui annullando la nostra distanza.
"Come stai?"
"Bene… tu?"
"Bene… e poi… grazie per avere detto a Ken del mio compleanno…"
"È il mio regalo… per questo non ti ho telefonato per farti gli auguri…"
"Come sta Kojiro?", gli domandai a bruciapelo.
"Non lo so… è tornato a Saitama approfittando della sospensione… e Wakashimazu?".
Rimasi in silenzio per un po’, cosa dovevo rispondere? Che mi ero innamorata? Che ci eravamo baciati? Che stavo disperatamente cercando di non fottermi di paura?
"Bene", risposi.
"Tutto a posto? Sei strana…"
"Sono solo stanca… e poi mi manchi… solo che…"
"Solo che…"
"No, niente. Una cretinata. Volevo solo farti un saluto…"
"Va bene… torna presto Taka"
"Ciao" e attaccai.
Non capivo nemmeno bene la ragione per cui lo avevo chiamato.
Di nuovo sola. Nel silenzio.
Mi trovavo ad affrontare i miei timori, le mie contraddizioni, i conti che non tornano. Non tornano mai, quelli.
Mi sentivo schiacciata nel petto da questo scontro ed ero sola. Sola a cercare un senso, a dirmi che, in fondo, non dovevo avere paura.
Avere l’età giusta per vivere una storia, per condividere tempo, sogni, corpo e parole con un uomo e non essere certa di farcela.
Avere trovato un ragazzo come Ken, forse niente di speciale se non quella sua capacità di spogliarmi di ogni barriera, di non farmi vergognare di me, del mio passato…
Già. Il mio passato…
Che stupida che sono… farmi domande di questo genere… e ancora non so cosa sarà tra qualche minuto, se per Ken ha un senso o è solo un modo per rendere meno noioso questo viaggio… e poi che senso ha? Anche se fosse, se avesse un senso pensare a lui con una prospettiva futura… come sempre basterebbe dire di no… sempre no…
Il mio passato sembrava non contare per Ken, che fossi una bastarda, che sembrassi senza terra né radici… sembrava non importargli nulla, ma…
Sentii l’istinto di correre fuori dalla tristezza della mia stanza, di correre da lui e dirgli che anche io avevo paese e storia e origini, ma strinsi i pugni per cancellare quel desiderio da me. Se per me e Ken era l’inizio di qualcosa, io ancora non potevo saperlo e così non potevo permettermi di riversare su di lui il peso dei ricordi, del mio sangue.
In realtà mi sento più distante da lui ora di quanto non fossimo prima… non so perché… come se un bacio potesse davvero cambiare le cose… no, no… non voglio crederci… non voglio ma è così… perché?.. perché?.. sentivo di poter parlare con lui… quando gli ho raccontato di come ho conosciuto Kojiro… e di Hiro… e ora mi sembra impossibile persino pensare di chiedergli se tutto questo per lui significa qualcosa… tutto questo… un bacio non è molto, forse è niente… per lui… che sarà abituato a ragazzine isteriche che venerano il suo nome… cosa sono io, di diverso?..
Cercai una sigaretta tastando con il braccio intorno a me. La accesi.
Avevo un piacere malsano nella prima boccata, che mi rendeva pesante il respiro e mi faceva, per un istante, pensare solo che era buono, quel fumo pregno di nulla che mi avvelenava i polmoni. Per me era solo un breve momento senza altri pensieri.
Sapevo che fuori c’era il sole, un sole splendido, forse, caldo, ma io sentivo freddo, esattamente come il giorno in cui Kojiro era venuto a prendermi per andare a Hokkaido. Sfregavo le mie dita gelate contro il futon, pensando, torturandomi senza possibilità di trovare pace.
E lui non si starà certo chiedendo cose così stupide… tutto semplice , per gli uomini, senza sfumature… se è sesso finisce lì, se è amore… beh, allora Dio ce ne scampi… e poi basta… o sentimento o divertimento… persino un idiota capirebbe cosa è meglio scegliere… e probabilmente mentre io perdo tempo a chiedermi cose che non hanno risposta, Ken se ne sta bello pacifico e finire il suo pranzo o a fare niente… basta, basta… voglio solo dormire…
E infatti bastò l’amaro del cazzo della pastiglia a togliermi il peso della mente in perenne movimento.
Non so quanto dormii, comunque abbastanza perché Misa dovesse svegliarmi.
"Taka-san! È tardi! Tra un’ora inizia lo spettacolo e tu devi ancora truccarti e vestirti!".
Aprii gli occhi sul viso agitato, buffo di Misa.
"Ehi, ehi… -cercai di tranquillizzarla- adesso mi alzo… fammi lavare la faccia…".
Mi guardai un istante riflessa nel vetro opaco del bagno: faccia normale, né troppo stanca, né troppo felice, un’espressione rassegnata, direi.
Speravo che i pensieri non tornassero più a torturarmi, sperai inutilmente che il fresco acuto dell’acqua allontanasse ogni cosa: bastò un minuto perché i miei neuroni si riattivassero, impazziti.
Guardai l’orologio: quasi le otto.
Quanto ho dormito?.. non ho nemmeno fame e non mangio da ieri, ormai… sono sparita da ore e Ken non mi ha cercata… certo ci sono molte cose migliori da fare qui a Otsu che passare il tempo con me… Buddha sofferente, mi ha chiamata… non ha torto… sembra che tutte le tragedie del mondo si siano abbattute su di me… ho il melodramma nel sangue… almeno agli occhi di Ken… come ora… che lui non mi cerca e forse è normale, forse è solo che non si può desiderare di stare tutto il tempo possibile con una persona… con una persona come me… perché se non avessi così paura io starei con Ken ogni minuto… ma lui è un mondo inarrivabile per me, evidentemente… forse è un bene che io debba lavorare… il tempo gocciola tra uno spettacolo e l’altro… passeranno i giorni senza farsi sentire… non c’è nulla che possa succedere…
"Andiamo?", chiesi a Misa uscendo dal bagno e stringendomi in vita i pantaloni.
Scendevo le scale della pensione guardandomi in giro, sperando che Ken non fosse lì e insieme pregando di incontrarlo: uno dei miei soliti contrasti interiori che mi rendeva nervosa e sofferente.
Ma Ken ugualmente non c’era, né lì, né al teatro e ancora una volta avrei dato vita all’amore triste di Fedra, questa volta vivendo con lei lo strazio di non poter avere quel sentimento.
Ken… senti che per me è amare, questo? Senti che nel mio modo strano, zoppicante, io mi sono innamorata proprio di te? Perché hai scelto proprio me per divertirti un po’? Quante ragazze sarebbero contente di un tuo bacio? Perché non hai preso Mizuki?..
Ma quel pensiero mi disgustò troppo, pur nell’allucinato vortice di contraddizioni con cui mi trovavo a vivere quel giorno, sentii un dolore soffocato al pensiero che Ken avrebbe potuto avere accanto un’altra, magari davvero come Mizuki, bella e stupida… un cliché fin troppo antico…
Io non ho mai associato automaticamente la bellezza alla stupidità… nella mia vita ho incontrato moltissime persone a sfatare questo luogo comune, ma conoscevo Mizuki, la sua superficiale invidia, la sua malizia ostentata…
O forse cercavo solo una giustificazione alla mia gelosia.
E finalmente finì anche per quella sera, un po’ noioso, un po’ doloroso ripetere ancora e ancora quelle frasi, quei gesti.
Entrai nello spogliatoio stanca, abbandonai a terra l’abito di scena.
"Taka-san?", mi chiamò Misa.
Cercai tutte le risorse e le risposi.
"Misa… perché mi chiami sempre Taka-san? Non merito di essere tua amica e sentirmi chiamare con il mio nome?", glielo domandai senza cattiveria, né rabbia, solo forse non sorrisi come avrei voluto, non ci riuscii.
Misa arrossì: un imbarazzo emozionato che ammirai. Quella ragazzina era una nuvola di dolcezza e spontaneità ed io le volevo davvero bene, forse non proprio un’amica, più un sorellina più giovane, da coccolare, proteggere.
"Takako… -disse un po’ impacciata- prima mi sono dimenticata di dirti che Wakashimazu ti ha cercata oggi pomeriggio, ma tu dormivi… dormivi così tanto che non me la sono sentita di svegliarti…".
Secondo logica avrei dovuto strozzarla: si era dimenticata di dirmelo?!
Ad ogni modo non mi venne nemmeno l’idea di prendermela con Misa: era come se sapere che Ken mi aveva cercata dissolvesse tutti quei pensieri cretini.
Esattamente per venti secondi. Perché subito dopo la mia straordinaria capacità di trovare gli aspetti più negativi delle cose tornò prepotente a dirmi che poteva avere mille motivi ovvi e scontati per chiedere di me e tra questi il desiderio semplice di vedermi, di parlarmi occupava approssimativamente il settecentesimo posto.
Nonostante il viaggio nell’abisso idiota del mio pessimismo fosse ormai partito, io uscii in fretta dal teatro, sperando stupidamente di trovarlo ad aspettarmi come la sera precedente.
Illusione.
Lui non era nemmeno lì.
E a quel punto non aveva più senso nemmeno soffrire, rimaneva l’imbarazzo di un bacio e poi il nero vischioso nel cuore.
Quanto avrei dato per piangere. Ma non mi riusciva e potei solo tornare alla pensione, malinconica, vuota.
"Che cosa ti ho fatto?".
La voce sussurrata mi rimbombò nelle orecchie assordante, mi spaventò anche: nel silenzio irreale del corridoio buio, lui non mi chiamò, né salutò. Chiese solo quello.
Rimasi immobile, il cuore vibrava a mille per la sorpresa e le parole non trovavano vie per manifestarsi.
Mi appoggiai al muro sospirando, cercando di regolare i battiti e capire le sue parole.
"Allora, si può sapere cosa ti ho fatto?", chiese di nuovo.
"Mi hai fatto prendere un colpo!", risposi contrariata, cercando di mettere a fuoco nell’oscurità il suo profilo.
"Non mi interessa. Voglio sapere cosa ho fatto per meritarmi questo!".
Questo… cosa, precisamente? Di cosa stava parlando?
Sei tu che mi hai lasciata da sola…
"Niente" e feci per aprire la porta della mia stanza.
Ken mi strinse una spalla, facendomi voltare: spalle al muro, fisicamente ed emotivamente.
"Non fare finta di niente! Ti sei alzata dal tavolo e da quel momento tanti saluti! Sparita! L’altra cretina della tua amica mi dice che dormi… se hai qualcosa, dimmelo! Io non sono qui per giocare…".
Quell’ultima frase Ken la pronunciò in un tono diverso da tutto il resto, sembrava qualcosa di vero, che lui sentiva profondamente, ma di cui anche si vergognava.
"Io pensavo che fossi tu a non volermi vedere… mi hai lasciata andare via e non hai nemmeno insistito perché Misa mi svegliasse…", dissi, la voce un po’ sconnessa dalla concitazione.
Ken mi liberò la spalla e si voltò.
Ci fu un momento interminabile di silenzio: non riuscivo neppure a capire se desideravo essere lì oppure andare via, fuggire. Fuggire è sempre molto più semplice, forse è da deboli, ma mi aveva salvata tante volte dal dolore…
"Taka… -continuava a non guardarmi- tu sei proprio stupida… non capisci un cazzo. E comunque hai una notte intera per rifletterci, io me ne vado a dormire…".
Si allontanò da me, sentivo che non era solo il suo corpo a lasciarmi nel silenzio rumoroso dei miei pensieri: se ne andava un po’ anche la sua anima.
Avrei voluto fermarlo, chiedere e gridare, piangere anche.
E rimasi immobile finché la sua figura sfuocata non svanì a pochi passi da me, inghiottita dietro la porta della stanza vicina.
Entrai anch’io, richiusi la porta, lentamente, e ci appoggiai la fronte: un colpo contro il legno, due, tre. Il solo suono di quella notte.
Mi allontanai senza accendere la luce, il flacone mezzo vuoto del sonnifero si vedeva appena in contro luce.
No.
Quella sera non avrei chiuso i pensieri, il male nel mondo inerte del sonno.
Forse non avrei dormito nemmeno un minuto.
Forse avrei ceduto alla stanchezza.
Ma certo avrei trovato la risposta.
Perché, quella volta, qualunque cosa accadesse, per me valeva la pena rischiare qualsiasi cosa. A costo di sentire solo dolore, di piangere e ricevere ferite irreparabili, io volevo capire solo una cosa.
Se davvero sto amando, proprio quest’uomo così inafferrabile… il solo che sembra ancora capace di ferirmi nel profondo… se davvero è così… allora… allora devo mettermi di fronte alla realtà… qualunque essa sia…
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