Capitolo diciottesimo:
ALLA LUCE DEL SOLE
Onestamente non avevo nemmeno domande.
La testa vuota, trascinavo automatici i passi consumando le vie di Otsu. Città strana Otsu…
Camminavo e non avevo pensieri, non mi chiedevo se Takako mi avrebbe cercato, se aveva dormito, se la avevo ferita.
Non me ne fregava niente di niente, quella mattina.
Potrei passare per un bastardo e molto probabilmente spesso lo sono stato, ma non in quel caso. Quel giorno io potevo solo vagare con lo sguardo per quelle strade non conosciute e aspettare.
Avevo cercato di dare certezze. Perché questo sembrava chiedermi lei.
Avevo domandato. Per tentare di comprendere l’incoerenza dei suoi gesti.
Avevo gridato. Perché non sono un martire, non posso sostenere i mali del mondo.
Già.
Anche se il dolore in questione era quello di Takako, della donna di cui, involontariamente, inaspettatamente, io mi ero innamorato, non volevo sopportarne il peso.
Non per egoismo, né per incapacità o insicurezza. Semplicemente perché non avrei mai tollerato che lei mi accettasse solo perché capace di alleggerire il peso dei suoi ricordi. Io volevo che lei scegliesse di dividere qualcosa con me per quello che ero. E poi… e poi nemmeno volendo sarei riuscito a sostenerla. No. Non ce la avrei fatta.
Sono un uomo inutile, forse. Ma, incredibilmente, anch’io dovevo fare i conti ogni istante con me stesso, con la mia storia.
Mi domandavo se Takako si rendesse conto che anche per me esisteva un passato.
Per un attimo pensai che forse era così assorbita, così accecata dal suo ruolo tragico da non curarsi degli altri. Forse la pensai persino egoista.
Ma fu un istante.
Per quanto arrabbiato, deluso e, lo ammetto, anche ferito, io mi sentissi in quel momento, non potevo dimenticare quella sensibilità soffusa che Takako aveva mostrato sempre, nei confronti di Misaki e di Kojiro.
Già, Kojiro…
Mi ricordai di lui solo allora e avrei dovuto sentirmi colpevole, uno stronzo. Perché a volerla vedere obiettivamente tutta quella faccenda con Takako si risolveva ad una semplice cosa: io ci avevo provato con la ragazza di cui era innamorato il mio migliore amico.
Piuttosto dolorosamente ovvio.
Eppure non riuscivo a disprezzarmi, non completamente almeno. Forse perché sapevo che per me Takako non era un accidente, un divertimento leggero di una vacanza.
Lo ho già detto, io ero innamorato.
E non pretendevo che questo mi giustificasse nei confronti di Kojiro, ma mi sentivo incapace di contrastare i miei sentimenti. Forse, in realtà, non volevo nemmeno provare ad oppormi a essi.
Ero innamorato.
Difficile già solo ammetterlo, ma una sensazione talmente nuova, così violenta, da assorbire ogni energia e ogni pensiero.
Come diavolo ero potuto arrivare a ridurmi così per una donna?
Arrivare a pregare che lei mi cercasse quella mattina, arrivare a tradire la fiducia di un amico…
Alla fine mi decisi a tornare alla pensione: razionalmente fuggivo i luoghi in cui avrei potuto incontrala, ma quella sensazione fastidiosa, opprimente di inquietudine non mi abbandonava e mi spingeva inconsciamente a cercarla.
La trovai seduta sul muretto di pietre che recintava il cortile, le gambe nude nei pantaloncini azzurri da ring, gli occhi stravolti forse dall’insonnia. Mi fissava con l’espressione indefinita dello sguardo deciso eppure sofferente.
Provai un moto istintivo di rifiuto per la sua sola presenza.
"Ciao", mi disse senza muoversi.
Mi limitai a guardarla, sentivo il mio sguardo incattivito, duro.
Mi scontrai con il suo silenzio ancor più ostinato e decisi di andarmene da lì: feci per entrare nel cortile.
"Aspetta!".
Mi stringeva il braccio con una forza tremante, che inspiegabile mi raggiunse il cuore e mi impedì di proseguire, di ignorare quel gesto.
"Ken… -iniziò con una voce che non era triste, né singhiozzante, era solo sommessa, la voce di chi sente su di sé il peso di una colpa infinita- Ken… guardami, per favore".
Mi voltai verso di lei, in silenzio.
"Non so se ho capito… quello che volevi che io capissi… ma devo dirti una cosa…".
"Wakashimazu!", la voce chiocciante di Kurata mi punse la testa come una lama inaspettata e insopportabile.
"Mizuki…", sospirò Takako, rassegnata, lasciando andare il mio braccio che fino a quel momento non aveva smesso di stringere.
Mi pulsò il cuore per quell’abbandono.
"Ciao, Kurata", mi decisi a rispondere.
"Oh, lascia stare questi formalismi… Mizuki va benissimo… naturalmente se posso chiamarti Ken!".
Pigolava. Quella ragazza, pur essendo un’attrice, nemmeno troppo brava, ma quella era la mia opinione di profano, non era capace, in presenza di un uomo, di parlare. Riusciva solo a cinguettare come un canarino. Un canarino che avrei spiaccicato volentieri da qualche parte.
Ma non sono mai stato capace di toccare con violenza le donne. Ad eccezione di Takako. Ed è vero che erano allenamenti, ma ero certo, pur senza essere in grado di trovarne la logica ragione, che anche quello aveva un senso.
No che non puoi chiamarmi Ken… ma suppongo che non te ne freghi assolutamente niente di quello che penso… farai comunque quello che vuoi…
"Come preferisci", risposi ancor più svogliato.
"Fantastico! A proposito io e le mie compagne di stanza stavamo per andare a prendere un caffè… l’albergatore ci ha consigliato un locale carino, dove dice facciano i migliori biscotti di Otsu!".
Non me ne frega uno stramaledettissimo niente dei locali che ti consigliano…
"Ma… non saprei…".
"Ma su! Non farti pregare! Offro io, non preoccuparti".
Di questo poi me ne importa ancora meno, se possibile… perché non mi lasci in pace?
"Beh… se la metti così… quasi quasi un pensierino…"
"Splendido! Allora guarda, possiamo anche avviarci… le altre ci raggiungono dopo, hanno spiegato la strada anche a loro… così puoi raccontarmi un po’ di te!", il tutto naturalmente condito da un sorriso smagliante.
Ma credi davvero che io abbia voglia di sentirti gracchiare per ore?
"Va beh, mi hai convinto, però giusto una mezz’oretta".
Perfetto. Un esempio lucidissimo di dissociazione tra pensiero e azione.
Come sempre ero riuscito a superarmi.
Kurata si avvicinò a me afferrandomi un braccio e mi trascinò di nuovo per strada.
Non guardai nemmeno in faccia Takako, la avevo sentita immobile ad assistere a quella scena patetica e non avevo trovato nemmeno il coraggio di dirle una sola parola.
Mi rassegnai a camminare con quel disco inceppato di Kurata che mi martellava le orecchie di parole insignificanti, la mente a Takako.
Quanti passi avevo fatto?
Abbastanza da non poter più vedere l’ingresso della pensione.
Ma questa domanda me la pongo ora, nella lucidità intenerita del ricordo, perché allora fu tutto molto più istintivo, travolgente.
"Aspetta!".
Sentii il calore del suo corpo accogliente contro la mia schiena, mi strinse le spalle con le braccia esili.
"Taka!", esclamò Kurata, irritata da quel gesto improvviso.
Forse sperava di aver messo a tacere Takako. Che ingenua…
"Ehi… -dissi voltandomi verso di lei, continuava a stringermi- che ti prende?".
Non avrei potuto trovare parole più insensibili.
"Non andare… -mi guardava come pregando, ma non supplicava me, supplicava che il coraggio non le mancasse ancora- io non ho ancora finito…".
Guardai dispiaciuto, falsamente dispiaciuto, Kurata che continuava a fissare la scena con disgusto.
Fu proprio quella sua espressione a impedirmi di trattenere le parole.
"Abbi pazienza, ma non me ne importa proprio niente di bere un caffè con te… ciao" e indifferente al suo viso ferito, umiliato, strinsi per un istante le spalle di Takako e iniziai a camminare in direzione del parco.
Sono capace di essere molto cattivo, alle volte, ma Kurata era una ragazza talmente insignificante per me, che non mi sfiorò mai il timore di averla offesa.
"Fermati qui", mi disse Takako sdraiandosi sul prato lucido scaldato dal sole: socchiuse gli occhi per proteggerli dalla luce pulsante.
Mi sedetti dandole le spalle, in silenzio.
"Sdraiati… guarda il cielo anche tu", mi disse.
Ora guardavamo lo stesso cielo vibrante di vita e serenità, i nostri occhi si riflettevano nell’azzurro e si incrociavano pur non guardandosi.
Sentii Takako prendere fiato.
"Non so quanto coerente sarà il mio discorso, ma tu ascolta… fino alla fine, per favore…".
Il mio silenzio le rispose.
"Prima… prima ti ho detto che non so se sono riuscita a capire… insomma sono rimasta sveglia quasi tutta la notte e ho capito solo una cosa, ma non è questo che conta, ora…".
Si zittì per un lungo momento. Vedevo gli stormi compatti volare al di là delle nostre vite, mi persi a pensare alla sensazione ignota del volo, poi pensai a lei, a quello che poteva volermi dire, a me, a quanto forte era quello che sentivo.
"Ho paura", disse e poi di nuovo il silenzio.
Cercò nella sua solita tracolla turchese: la osservai con la coda dell’occhio accendere la sigaretta. Ormai era un’immagine conosciuta: una sigaretta per una parola, per un dolore.
"Io… io lo so che lo hai già capito, ma devo dirtelo… non voglio che tu mi guardi un giorno e mi sputi il tuo disgusto… -la sentii inspirare forte- mia madre era di Shangai…" e si interruppe.
Aspettai qualche secondo, per capire se avevo il permesso tacito di parlare.
"Lo so", dissi infine.
Takako si sollevò di scatto da terra e mi fissò con uno sguardo che mescolava stupore e paura.
Tremava, non sono certo tremasse il suo corpo, ma, certo, la sua anima fremeva.
"Ehi…", mi sollevai anch’io.
La guardavo, distante dal suo viso per un soffio, fissai gli occhi di Takako cercando di spiegarle con un gesto quello che sentivo nell’anima. La abbracciai, stringendola fino a sentire il suo seno acerbo premere contro di me.
"Non mi interessa sapere da dove vieni… non nel modo che pensi tu, almeno… come puoi avere paura di cose tanto stupide?".
Sentii i suoi nervi sciogliersi contro la mia pelle e le spinsi la testa con la mia, per portarla a me, per sfiorare la sua bocca.
Ma quando stavo per toccarla, le parole mi vennero improvvisamente alle labbra.
"Tu credi che i genitori possano odiare i loro figli?".
Takako mi guardò incerta per un attimo, poi premette con le spalle su di me, facendomi scivolare con la schiena al suolo: appoggiò la testa sul mio petto, una mano all’altezza del mio cuore, come volesse sentirne i battiti.
"Io credo di no… se nemmeno mio padre è riuscito ad odiarmi veramente, credo che non sia possibile… tuo padre non ti odia, Ken".
Rimasi bloccato su quelle parole e in un istante mi pentii di aver anche solo pensato che Takako fosse insensibile: non avevo detto mai nulla su di lui, se non quel singhiozzo di vita sulla strada per Otsu, eppure lei aveva capito molto di più. Pur non conoscendo la storia, aveva sentito il mio male.
"Mi manca molto…"
"Parli molto poco della tua famiglia", mi disse e se apparentemente non avevano senso le sue parole incoerenti rispetto alle mie, io capii il loro vero significato.
Sentivo il suo peso sussurrato contro di me e avrei voluto solo poter rimanere così senza pensieri, senza parole anche. Un uomo e una donna vicini per i loro sentimenti, tutto il resto chiuso in una scatola perché non sporcasse quel momento. Ma sarebbe stato solo un’isola felice in cui fuggire alla realtà, un mondo onirico e perfetto. No. Non volevo quello.
Io volevo che per me e Takako ci fosse un luogo nella realtà, nella vita.
"A volte penso di non averla più…", risposi.
"Perché te ne sei andato?".
Già… perché?
Ci sono occasioni in cui nemmeno io ho le risposte.
"A volte mi sembra di non riuscire più nemmeno a risalire alle ragioni… voglio dire… sono sette anni che non vedo mio padre…"
"Sette anni…", ripeté lei, con uno strascico triste nel tono.
"Sono venuto a Tokyo a diciotto anni, poi c’è stato il Messico… io credo che tutto sia partito dal nulla e si sia alimentato del silenzio… sono convinto che mio padre non voglia parlare con me… per questo non mi sono mai fatto sentire, né sono tornato a trovarlo…"
"E tua madre?", mi chiese.
Sentii il timore di Takako nel pormi quella domanda, il timore di ricevere una risposta tetra, di morte.
"Mia madre accetta tutto quello che la vita gli presenta, anche lo schifo…".
Takako si sollevò, le ginocchia piegate, i piedi spampanati di lato. Mi guardava con il viso inclinato, come se fosse indecisa tra il dividere con me quei ricordi e cercare di comprenderne la ragione.
"Perché sei andato via?"
"Perché volevo giocare a calcio", diedi la risposta di sempre, un concentrato di tutto quanto il mondo sembrava aspettarsi da me.
Quella frase, nata anni prima per giustificare le mie scelte, era diventata la mia difesa, placida, conosciuta, tanto che forse me ne ero convinto persino io, ormai.
"Bene –Takako continuava a fissarmi, un po’ mi mancava il suo contatto, ma non lo cercai, teso ad ascoltarla- e dopo questa clamorosa cazzata… vuoi dirmelo il motivo?".
In fondo io prendevo in giro me stesso e un po’ faceva male che lei mi volesse costringere ad affrontare questi angoli bui che tenevo dentro e ignoravo per non soffrire, per sopravvivere.
"Perché… -iniziai zoppicando, non avevo mai parlato con nessuno di questo, non avevo discorsi preconfezionati da presentarle- diciamo che non ha mai condiviso completamente la mia scelta di giocare a calcio… cioè… sperava che io continuassi a studiare karatè, per rilevare la palestra, credo…"
"E tu hai continuato".
Era un’affermazione, lapidaria e dura. Era la verità che mi arrivava dalle parole di Takako.
"Ma questo non è importante… io volevo poter scegliere… vedevo mia madre e attraverso di lei capivo cosa voleva dire accettare le cose senza reagire… se avessi seguito mio padre sarei diventato come lei…".
Non riuscivo ad essere coerente, saldo nel raccontare. Ad essere sincero mi sentivo in difficoltà, chiuso in gabbia senza vie di fuga: percepii come una violazione quell’incalzare di Takako nei miei ricordi, ma scelsi di proseguire.
Non so per quale ragione.
"Ma se ti piaceva combattere… non sarebbe stata una scelta subita…", osservò.
"Non è quello l’importante… non volevo fare qualcosa che sembrasse deciso da lui… volevo prendere una decisione da solo, volevo che la vita mi appartenesse…"
"E ora è tua questa vita?"
"Ora sì", risposi, ma era una risposta ad un’altra domanda, lo sapevo bene.
"Cioè dopo otto anni hai capito che è stata davvero la scelta giusta?"
"No. Dopo otto anni ho un domani".
Mi guardò incerta, uno sguardo di speranza, credo, o di preghiera.
Mi chiesi se forse non le avevo solo fatto del male pretendendo che per un semplice bacio scegliesse me.
Ma non mi diedi il tempo di pensare, feci solo quello che volevo dal momento in cui per la prima volta le avevo detto, a modo mio, con i fatti, quello che sentivo: sfiorandola sentii il sapore del tabacco, pregnante, impastato.
Avevo le labbra seccate, come se il vento o la solitudine le avessero inaridite. Le leccò appena, istintivamente.
E, immediatamente, sembrò pentirsi di quel gesto.
Si voltò, per non guardarmi, per non dover sopportare la mia espressione. Forse la immaginava di stupito disgusto.
Mentre io sorridevo di quel gesto infantile e dolcissimo, Takako aveva preso quella sua smorfia sofferente.
"Questo è il domani", le dissi.
E sul momento, ne sono certo, lei non capì.
Rimase immobile fissando l’erba che le sfiorava le ginocchia nude.
Le sollevai il mento con un dito.
"Hai sentito quello che ho detto?", chiesi.
"Sì –disse piano, cercando di evitare il mio sguardo- che questo è il domani".
Mentre ripeteva quasi automatica le mie parole, mi resi conto del loro vero valore: lei mi domandava una certezza che io non mi ero preoccupato di darle. Chiedeva risposte che non avevo, ma che potevo desiderare: il domani che io chiedevo era lì, davanti a me.
Il domani eravamo io e Takako.
Sorrise ed io mi sollevai sui gomiti: appoggiò la testa sulla mia spalla.
"Sei troppo alta per stare comoda", scherzai.
"O forse sei tu che sei troppo basso", mi rimbeccò.
"Quanto sei alta, Takako?".
Mi sembrò una domanda divertente, di quelle che si fanno per conoscere un po’ di più una persona.
"Un metro e settantadue. E tu?"
"Uno e settantacinque".
Sorrisi di nuovo, la barriera di nevrosi e paura sembrava infrangersi contro la nostra spontaneità: veloce mi avvicinai a lei e la strinsi, facendola scivolare sulle sue stesse gambe, stringendola più forte che potevo.
Non avevo più timore di romperla.
"Ken!", sembrò un grido il suo in risposta al mio abbraccio, ma non la liberai.
Sentii le sue dita intrecciarsi sulla mia schiena.
"La tua vita ti apparterrà sempre… non sei uno da lasciarsi condizionare…", mi sussurrò, la bocca sfiorava il mio orecchio in un brivido che la desiderava con una forza da fare male.
Troppo chiedermi di ignorare il suo corpo, le sue labbra per domandare di spiegare quella frase.
La trascinai a terra sopra di me, il parco deserto delle ore del lavoro e dello studio ci circondava guardando in silenzio il nostro bacio.
Contro l’erba fresca, nell’aria appiccicosa del giugno in cui iniziò ogni cosa, ci scambiammo il primo bacio alla luce.
La forza del sole, che rendeva reali immagini e sentimenti, fu ben più di una firma sul contratto.
Quella luce diceva che entrambi ci credevamo. Che per entrambi aveva valore.
Quella luce discreta diceva che ora eravamo in due.
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