Capitolo quindicesimo:

DELL’AMORE IO SOFFRO OGNI FURORE

"Ahi!".

Hori mi tirava i capelli senza curarsi del fatto che fossero attaccati alla mia testa.

"Non fare scene! Sei così imbranata che non posso lasciarti preparare da sola! Guarda le altre!"

"Lo so, lo so…", accettai osservando di sfuggita le altre ragazze impegnate a vestirsi e truccarsi.

Quando infilai il costume mi osservai per un istante: mi sentii altro da me.

In quell’istante io non ho vissuto.

 

"Che schifo".

Mi guardai rapido allo specchio: non mi sentivo particolarmente a mio agio con quella camicia inamidata. Mi faceva sentire un cameriere: camicia bianca e pantaloni neri. Sì. Decisamente un cameriere.

Perché dovevo mettermi elegante?

E poi, ad ogni modo, portavo i capelli lunghi spampanati sulla schiena: nel complesso un effetto terribile, credo.

 

"Signori! Eccovi dunque una tragedia il cui soggetto è tratto dagli antichi: Euripide per primo cantò il dramma odioso di questa donna. Una donna che certo si macchiò di orribile crimine, ma la cui volontà dovette piegarsi al volere vendicatore degli Olimpi. Osservate: Fedra non è né del tutto colpevole né del tutto innocente: impura di un amore illecito e incestuoso, fulgida nella forza del suo sentimento. Ben sapete come pagherà il suo peccato, dunque a voi, signori, perché la condanniate ancora o la rendiate monda".

 

Nakasu rientrò nelle quinte con l’affanno emozionato del suo primo, pur breve, monologo.

E ora era il nostro turno.

Per l’ultima volta ci guardammo, arrossati appena dalla tensione: Arada e Ikeda entrarono, poi sarebbe toccato alla Tabuuchi. E solo allora, nella terza scena di quel primo atto, anche a me.

Accesi una sigaretta, la mente scollegata, apparentemente svuotata fin della più semplice battuta e insieme consapevole che, da qualche parte, non visibile, ci sarebbe stato Ken ad osservarmi.

Venne il mio ingresso: un piede sul palco, le luci calde, il silenzio.

Di nuovo una prima, di nuovo il piacere di fingermi altro da me.

 

Ancora proseguiva il dialogo tra gli attori quando Takako entrò.

Era davvero Takako?

Finzione e realtà si mescolavano e confondevano la mia percezione.

Dalla mia poltrona morbida di velluto rossastro guardavo il suo corpo scivolato come per errore in un vestito leggero, candido, che mi permetteva di conoscere per la prima volta la sua natura femminile: indossava il nome, la storia di un’altra donna eppure sembrava essere davvero lei. Guardai i suoi capelli, sistemati con cura in volute composte sui lati della testa.

Brillava il suo sguardo di una forza emozionale che mi calamitò in un tempo onirico: capii che il teatro poteva dare sensazioni vive; capii che per lei finzione e realtà avevano confini molto labili.

Le parole giunsero improvvise a colmarmi di emozione commossa.

 

"Non andiamo oltre, cara Enone. Fermiamoci.

Non mi reggo più: la mia forza mi abbandona.

I miei occhi sono straziati dalla luce del giorno che rivedo;

e le mie ginocchia tremanti si piegano sotto di me.

Ahi!"

Davvero mi sento così… Ken fa tremare anche le ossa…

 

Dio… può mancare il fiato per una sola frase, recitata, finta? Perché è finzione, Takako? Dimmi che lo è…

 

Proseguivano le mie parole, sulle note di quel dialogo iniziale, per me straziante perché forma troppo viva di quello che provavo, profondamente, nel reale.

 

"Se saprai il mio crimine e la sorte che mi opprime,

non morirò di meno; morirò più colpevole"

 

Perché mi sento peccatrice se… se… non ho la forza di dirlo a questo mondo…

 

Dimmelo… ti prego… dimmi il vero continuando a recitare… nella vita mi giureresti il falso… lo so…

 

"O strazio di Venere! O fatale collera!

In quali peccati l’amore gettò mia madre!"

"Dimentichiamoli, mia signora e che per il tempo futuro

un silenzio eterno allontani questi ricordi"

"E voi Arianna, sorella mia, di quale amore straziante

moriste sui lidi dove veniste abbandonata!"

"Ma che fate, mia signora? E quale mortale noia

contro il vostro stesso sangue vi trascina ora?"

"Fino al momento in cui lo desidera Venere, di questo sangue miserabile

io muoio ultima e ancor più miserevole"

"Amate?"

 

È questa la vera domanda che dovrebbero pormi… ma io non voglio rispondere… risponderà questa Fedra per me…

 

Rispondi, Takako… vorrei poter vedere dalle tue parole la risposta… come se la domanda fosse reale… è reale, la senti?

 

"Dell’amore io soffro ogni furore"

 

Ecco. Perché queste parole mi sembrano diverse da una semplice battuta?..

 

Lo senti davvero? Dio… vorrei avere risposte… no… vorrei avere il coraggio delle domande…

 

E poi fu solo uscire e poi rientrare, soffocare quello che il cuore diceva, dissonante e assurdo, incompatibile con lo spettacolo… già. Lo spettacolo. Che deve sempre e per forza proseguire. E non importava se sentivo l’anima violentata dalle parole che pronunciavo dando vita ad una storia vecchia, morta, forse. Non importava che io soltanto in quel momento avessi capito.

"Amate?", chiedeva Enone sul palco.

"Dell’amore soffro ogni furore", fu la risposta.

Avrebbe dovuto darla Fedra, quella risposta. E invece… invece fui io. Io risposi con quelle parole.

Capii. E non sapevo se doverne piangere o gioire.

 

Non smisi nemmeno un momento di essere incapace di distinguere la realtà dalla finzione.

Poteva un attrice vivere fino a quel punto il suo personaggio? Ero convinto di no, ero certo che per rendere completamente pulsante, vivo, un essere creato dalla fantasia e dall’immaginario, occorresse sentire dentro di sé le sue contraddizioni, i suoi dolori, le gioie. E i sentimenti. Soprattutto i sentimenti.

Chi rispose veramente di essere stravolto dalla furia dell’amore? Takako o la sua Fedra?

Avrei voluto poter correre subito da lei, ma la narrazione proseguiva e tentavo di non perderne la logica di continuità.

"Sono bravi, vero?", mi domandò una giovane donna seduta accanto a me.

"Già", risposi.

 

"È qui: ogni goccia di sangue si ritira nel mio cuore.

Io dimentico, al vederlo, ciò che stavo per dirgli"

 

Ecco… l’ennesima frase che sono io a dire… perché solo ora?..

 

Takako… è così grande il tuo talento? Continuo a credere che… che… che tu non stia recitando, non ora… vorrei essere davvero io a farti avere queste emozioni… vorrei…

 

E al fine giunse anche la morte di quella donna a cui avevo dato vita con tanta passione: epilogo della tragedia e poi sarebbe rimasto solo il mio corpo immobile sulla scena.

 

"Ho voluto, davanti a voi, mostrare i miei rimorsi,

discendere tra i morti attraverso un cammino più lento.

Ho ingoiato, ho fatto colare nelle mie vene brucianti

un veleno che Medea portò ad Atene.

Ormai il veleno, giunto fino al mio cuore,

in questo stesso cuore morente getta un gelo sconosciuto;

ormai non vedo se non attraverso una fitta nebbia

sia il cielo sia lo sposo che la mia presenza oltraggia;

e la morte togliendo ai miei occhi la vista

rende alla luce che essi insozzavano tutta la sua purezza"

 

E così era finito quello spettacolo splendido, che mi aveva tenuto attento, vigile fino all’ultima sillaba. Il corpo morto della protagonista viveva in quello immobile di Takako.

Poi scese il sipario.

 

Normalità quasi noiosa vedere il sipario alzarsi e ridiscendere più volte: applausi, inchini, fiori per Hori. E poi sorrisi, qualche foto. Il sapore di una notorietà piccolissima e, come tutto, non sincera.

"Complimenti ragazzi! Davvero… -Hori si avvicinò a me nelle quinte- Takako! Grande!".

Mi sollevò tra le braccia, per un istante risi, poi subito mi sciolsi da lui.

"Grazie, Hori-san! Fa sempre piacere vedere che hai un lato umano", scherzai comunque felice di quel complimento che sapevo almeno onesto, sentito.

Non ugualmente pulito fu quello di Mizuki.

"Brava, Takako… sarai contenta di avere fatto un melodramma personale…".

Non risposi. Non aveva importanza. Stupida, cercavo con lo sguardo Ken, pur consapevole, razionalmente, che non poteva essere lì.

"Taka?", mi sentii chiamare.

Era la voce di Ken, lo sapevo, ma sentirla pronunciare il mio nome scorciato, affettuosamente ridotto, mi fece per un istante dubitare che fosse solo un’illusione.

Mi voltai: Ken era davanti a me.

"Come sei passato?", chiesi, ma sapevo che non avrebbe risposto.

Ciò che contava era esserci ritrovati: lui era la sola persona che davvero desideravo avere vicino in quel momento. Per la prima volta volevo il calore umano, un sorriso, dopo avere sputato per l’ennesima volta finzione e realtà unite in un assurdo e indistinguibile composto.

"Sei… -iniziò, sembrava imbarazzato, ma non so, forse era solo la mia impressione sciocca- sei stata capace di inchiodare le mie emozioni sulla scena".

Un complimento simile, così cristallino e particolare, unico, io non lo avrei mai più ricevuto. Mi si frantumò nel cuore e lo inondò di miele e calore.

"Grazie".

Solo questo riuscii a sussurrare, la bellezza di quelle parole sembrava inibire i mie gesti, rendendomi impacciata, incapace. Nemmeno riuscii a sorridere.

"Senpai, andiamo?", mi chiamò Nakasu ed io già mi stavo voltando per seguirlo.

Non volevo andarmene ma nemmeno restare. Una sensazione di contrasto senza logica.

Sentii stringermi il polso.

"Takako… -mi fermai a guardarlo o almeno tentai di fissare i suoi occhi scuri che, ormai lo avevo capito, mi avevano resa innamorata- eri… sei bellissima".

Pensai al mio abito di scena, un soffio di tessuto abbandonato sul mio corpo aguzzo. Arrossii di tutto il sangue che avevo, arrossii, ma non odiai che lui mi potesse vedere in quel momento.

Non ci fu una ragione particolare, so solo che la mente non ebbe potere sull’istinto.

Fu un gesto immediato, incontenibile.

Lo abbracciai.

Strinsi con tutte le mie forze il suo corpo saldo tra le mie ossa, le mie dita si riunivano sulla sua schiena compatta, il mio petto inconsistente, di bambina incapace di diventare donna, premette contro il suo.

Sentii semplicemente il caldo accogliente di lui.

Non potevo nascondere il viso sotto di lui, come ero abituata a fare con Kojiro, Ken era alto appena un soffio più di me. Me ne resi conto solo in quell’istante, solo allora, mentre lui chiudeva le sue braccia su di me e mi regalava qualcosa che aveva sapore di casa, mi accorsi di una cosa tanto stupida.

 

Avrei voluto rimanere così, stringendo forte Takako, ancora per molto tempo.

Sentivo il vibrare dei suoi nervi trovare quiete contro di me ed io fremevo per quel contatto inaspettato, tenero e sensuale nello stesso tempo.

Sentivo di avere un corpo vivo tra le mie dita, un corpo di donna che forse iniziò allora a chiedere di essere riconosciuto profondamente come tale.

Credevo che toccarla avrebbe dato un senso di ruvido freddo, acuminato e invece era morbida, accogliente: non sentii la barriera liquida che sempre avevo percepito inserita tra lei e chiunque la sfiorasse.

E poi era alta Takako. Molto alta per essere una ragazza. Anche questo mi piacque moltissimo.

"Taka-san? –Yama la chiamava imbarazzata- Andiamo?".

Takako si sciolse da me, lasciandomi solo il ricordo di sé e il calore diffuso dove la nostra carne si era incrociata.

"Dove?", domandò.

"Beh… lo sai che c’erano dei talent-scouts? Comunque c’è il solito rinfresco… Hori ha detto che puoi portare anche lui…", disse Yama indicandomi.

"Ah, d’accordo… io però devo cambiarmi… -vidi Takako osservare attenta l’abito lungo, elegante di Yama- ho il vestito di là"

"Senpai –la fermò Nakasu, sempre accanto a quella che ormai avevo identificato come la sua ragazza- Hori ha detto di pettinarti bene, che ci sono persone importanti…"

"Che barba! –esclamò- Va beh, va beh… Ken, tu…"

"Viene con noi, dai sbrigati, ti aspettiamo. Festeggiamo nel salone principale del teatro… muoviti!", scorciò Nakasu afferrando la mano di Yama e invitandomi a seguirlo.

"A dopo", riuscii a dire a Takako prima che scomparisse in una stanzetta vicina.

Seguii Nakasu automatico, come incosciente. Continuavo a ripetermi solamente che dovevo parlare. O agire.

Ho sempre creduto che mi fossero più congeniali i fatti delle parole.

 

In realtà amavo il mio corpo di donna.

Vedermi riflessa in quello specchio gelido non mi disgustava, né feriva: anche se faceva male il pensiero che probabilmente solo io ero in grado di vedere in me stessa la femminilità delle mie forme acute, della mia pelle pallida, io ero felice di potermi vedere in quel vetro.

Scossi un po’ i capelli prima di intrecciarli a cadere sulle mie spalle e uscii.

Tremavano un po’ le gambe, ma forse era solo il pensiero di quel vestito. Indossavo la cosa che più aveva valore, un ricordo di tessuto soffice e accogliente. E non mi importava cosa avrebbero detto gli altri, se si sarebbero resi conto del tesoro che portavo in quel tessuto.

La sola cosa che aveva valore era che io avevo deciso, finalmente, di vestire, di riempire con il mio corpo quei ricami fragili e splendidi.

Indossavo quel dono indimenticabile.

E stavo per raggiungere Ken.

Solo questo importava.

 

Mi voltai istintivamente quando Takako entrò nel salone.

Fino a quel momento ero rimasto fermo, silenzioso, indifferente agli sforzi di Nakasu e di Yama che cercavano di mettermi a mio agio tra quelle persone sconosciute e distanti.

Ma io aspettavo solamente Takako, cercando stupidamente nell’alcool acido che mi riempiva il bicchiere il modo di avere coraggio.

Mi voltai e rimasi senza parole. Forse anche senza fiato.

Takako. Sapevo che era lei, proprio lei, la donna che avevo di fronte in quel vestito brillante di colori che incrociavano il buio e la luce.

La guardai fisso, assolutamente affascinato.

Si muoveva verso di me e la stoffa lucida di quel lungo abito cinese, con un drago di buona sorte intrecciato in rosso, ondeggiava su di lei rendendola una luce soffice, gentile.

Il viso pulito di sempre, i capelli stretti in quella treccia infantile, non riuscivano ugualmente ad affievolire la sua bellezza impura.

Lo so, sono un bastardo, ma pensai proprio quello, che la bellezza di Takako veniva dal suo essere impura, dal suo sangue che mescolava storie e paesi.

Lo capii da quel vestito, che portava con sé una storia antica di luoghi lontani. Lo capii o, almeno, iniziai a capirlo.

Poi però venne lo stordimento idiota dell’alcool e la vista iniziò ad annebbiarsi, la voce ad impastarsi.

 

Vedevo me stessa riflessa negli occhi lucidi di Ken, ma fu una gioia effimera e brevissima.

Non appena mi avvicinai a lui sentii, odiato, l’alcool rappreso.

"Ma quanto hai bevuto?", gli chiesi disgustata, con il solo desiderio di allontanarmi da quell’odore che sembrava impregnarmi le ossa.

"Mi annoiavo", rispose svogliato.

Vedevo perfettamente che era lucido, padrone di sé, eppure mi bastava sapere che aveva bevuto un po’ troppo per avere rifiuto di lui.

"Takako! –venne Hori ad allontanarmi da lui- Vieni, vieni… voglio presentarti a delle persone".

Trottai dietro di lui, i passi pesanti di Ken mi seguivano: cercai di non considerarli.

"Ecco –esclamò Hori fermandosi di fronte a due personaggi inquietanti, serissimi- loro sono inviati della filiale della Miramax di Tokyo… volevano conoscerti… te e Mizuki".

E infatti Mizuki era di fianco a me, solo qualche passo ci separava.

"Kurata Mizuki, molto onorata", disse tendendo la mano e sfoggiando uno dei suoi sorrisi migliori.

Mi disgustò la sua ipocrisia.

"Onore nostro", disse la donna che avevamo davanti.

E poi parve in attesa che anch’io mi presentassi. La accontentai, svogliata.

"Ailing Takako", mi limitai a dire.

"Bene, bene… volevamo conoscervi entrambe… lei, Ailing, per porgere i nostri ammirati complimenti –ma come diavolo parlava?- lei è davvero un’attrice completa, capace di emozionare lo spettatore, ma… -si fermò un attimo, come cercasse le parole- beh… lei è un’attrice destinata al teatro, sarebbe un delitto privare quest’arte di un talento come il suo… mentre… mentre lei, signorina Kurata… vorremmo che accettasse un contratto a tempo determinato con la nostra casa… un film. Con possibilità di conferma…".

Il resto posso solo immaginarlo: solo con la mente posso vedere lo sguardo vittorioso, soddisfatto, di Mizuki di fronte a quella che per lei fu la mia definitiva sconfitta; solo con la mente posso immaginare come proseguì quel dialogo.

Io mi allontanai.

 

Avevo assistito a quel discorso costruito, calcolato. Avevo assistito all’espressione di Kurata che si illuminava per avere battuto Takako in una lotta che lei sembrava non avere mai intrapreso.

E intanto il mio stomaco si sciacquava nel rum che ero riuscito a inghiottire.

Respiravo e cercavo la forza, quella forza senza ragione e senza futuro che solo l’intontimento dei paradisi artificiali può dare.

Takako lasciò Kurata in pasto alle iene della Miramax ed io la seguii.

"Come stai?", strascicai un po’ le parole.

"Come devo stare? Uguale a prima".

Bevvi ancora. Afferrai un bicchiere ignoto mentre anche lei inghiottiva piano quello che mi sembrava Martini.

Ciò che ci rendeva incommensurabilmente lontani era questo: Takako beveva per piacere, poco, quanto bastava a soddisfare il suo gusto; io mi ingozzavo, idiota, idiota, mille volte idiota, per rincretinire i sensi. E riuscire a fare.

"Senti… -sbottò all’improvviso- io me ne torno alla pensione… se tu hai deciso di collassare qui, credo che Nakasu o chiunque altro ti trascinerà in stanza impietosito".

Non avendo la lucidità necessaria a rispondere con freddezza, Takako ebbe il tempo di allontanarsi e di andare a salutare gli altri.

Mi appoggiai allo stipite della porta con la schiena, in attesa che passasse di lì e, anche, sperando che il muro, solido, mi desse saldezza.

Quando mi passò accanto, salutandomi appena, scivolai con lei oltre la porta.

 

"Takako… aspetta un attimo…".

 

Mi fermai, non abbastanza forte o fredda da ignorarlo del tutto.

 

La guardai negli occhi avvicinandomi piano, suppongo instabile, barcollante.

 

"Che vuoi? Vieni in pensione con me?".

 

Sollevai lo sguardo: era così vicina, così semplice sfiorarla.

 

Mi guardava con gli occhi stravolti, stanchi dell’alcool e non so perché non riuscii a voltarmi, ad andarmene.

 

"No. Takako, io…".

 

Non riuscivo più a parlare, mi costava uno sforza tremendo mettere le parole una dopo l’altra.

La toccai.

Secca, asciutta, accolse il mio contatto.

 

Avrei voluto gridare o andare via o rifiutarlo. Invece mi limitai semplicemente a non schiudere le labbra.

Rifiutai l’umido della sua bocca, ma non lo sfiorare delle sue labbra.

 

Quanto tempo?

Non lo so.

Al fine Takako si allontanò da me, senza nemmeno sfiorarmi.

 

"Buonanotte".

 

Nemmeno mi rispose.

Ken, come tutti istupidito, offuscato dall’alcool, rimase in silenzio mentre io me ne andavo. E forse fu meglio così.

Niente da dire, da giustificare.

Perché, ad ogni modo, io avevo già deciso.

Non mi interessava quel bacio.

Non me ne importava assolutamente nulla.

No.

Non in quel modo.

 

 

 

 

 

 

 

La "Phèdre", opera del tragediografo francese Jean Racine, è qui riprodotta senza fini di lucro, il © è degli aventi diritto. La traduzione riportata dal francese è dell’autrice di questa fanfiction.

Capitolo 16

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