Capitolo quattordicesimo:

…OGNI FURORE…

Il nostro viaggio di emozioni e parole era proseguito così, quasi casuali i discorsi, nati dal nulla, ma veri o, almeno, vivi.

Una parte di noi ci aveva mantenuti uniti attraverso la nostra voce.

E in quell’equilibrio incerto e desiderato, nulla avrebbe potuto intromettersi a incrinare quel contrasto dolce che ci faceva girare insieme, assoluti. Nulla ad eccezione della voce malinconicamente affettuosa di Taro che mi aveva cercata al telefono.

Forse avevo maledetto il trillo fastidioso che violentò improvviso il mondo distante, imperdibile di me e Ken.

"Ciao!", avevo esclamato vedendo il suo nome lampeggiare sul display.

"Ciao. Come va? Dove siete? A che ora pensate di arrivare?", mi rispose in una grandine di domande dissonanti.

"Bene. A metà strada. Verso le tre", avevo risposto un po’ per gioco, un po’ sperando che percepisse lo stonare della sua telefonata.

"Allora ci sentiamo quando arrivate. Mi passi un attimo Wakashimazu?"

"Sta guidando", avevo inutilmente cercato di obiettare, senza risultato.

E alla fine avevo teso il telefono a Ken, in silenzio, come disturbata da quell’ingerenza. O forse fu solo gelosia…

E di quello che si erano detti non sapevo nulla, Ken disse solo una cosa.

"Ok. Ti ringrazio… Misaki? Ha un senso?".

Ma evidentemente Taro aveva già attaccato: Ken mi porse l’apparecchio e tacque per qualche minuto, immerso in un pensiero che sembrava addolcire i suoi occhi scurissimi, di solito freddi, acidi; un pensiero che lo cullava in uno stato di incomprensibile felicità.

Poi la strada era proseguita costante, erano tornate le parole, a tacitare quell’assurda sensazione di abbandono che avevo provato per quella telefonata.

E ora, alla fine, entravamo ad Otsu, piccola, contenuta città che sembrava avere una storia propria, felice, verde.

 

Non ricordo di cosa stavamo parlando, precisamente.

Se stava raccontando lei. O io.

In quel viaggio che stava ormai terminando c’era il tutto e anche il niente: il tutto del passato, il niente del presente. Apparentemente.

Ad ogni modo le parole si fermarono forse a mezz’aria.

"Dove dobbiamo andare esattamente?", le chiesi rallentando mentre controllava l’indirizzo.

"Mm… dunque… aspetta… -rovistò con una certa ansia frenetica nella piccola tracolla piatta che portava al collo- ecco! La compagnia si ferma in una pensione… Fahrenheit, si chiama… che nome idiota… sembra quel libro…"

"Quale?", domandai.

Per un istante mi scoprii stupito di quelle conoscenze artistiche, letterarie che Takako mostrava con naturalezza e umiltà.

"Fahrenheit 451 di Bradbury, mi sembra… è una bella storia… tipo 1984 di Orwell… l’hai letto?"

"Sì –mi affrettai a rispondere, quasi sollevato dallo scoprire che non la avrei delusa, almeno non in quello- quello del Grande Fratello… abbastanza inquietante…"

"Già… beh, in Fahreneith c’è una specie di grande occhio che controlla che la gente non legga e non possieda libri… li bruciano… 451 sono i gradi a cui i pompieri eliminano i libri…"

"Me lo presti?", domandai accostando.

Takako si voltò stupita verso di me, con una spontaneità davvero intenerita.

"Prestartelo?!"

"Sì –dissi semplicemente- appena torniamo a Tokyo mi piacerebbe leggerlo".

"Oh… -disse come imbarazzata- certo, certo… nessun problema".

Sorrisi guardandola appena.

"Allora, principessa, dov’è questa pensione?".

Spalancò gli occhi mostrandomi quel colore indefinito e affascinante che ancora non ero riuscito a focalizzare.

"È nella piazza del teatro… sai, per non fare affaticare gli attori!", scherzò.

 

Sospirai appena quando Ken parcheggiò la macchina nel cortile sul retro della pensione.

"Eccoci qui", ma la sua voce mi giunse ovattata.

Mi cullavo stupida, infantile nel ricordo del suono zuccherino di quella parola… principessa… e mi sembrava che quel giorno bastasse davvero poco per rendermi felice.

"Takako! –mi richiamò subito alla realtà- non vorrei opprimerti, ma… io ho una fame incredibile: non abbiamo neanche pranzato!".

Già.

Mi misi in ascolto dei nervi esili del mio corpo.

"In effetti anch’io!", esclamai con una foga strana, che stupì persino me.

Scendendo mi trascinai sulle spalle lo zaino consumato dai troppi viaggi.

"Chissà se gli altri sono già arrivati…", pensai ad alta voce.

E d’accordo che era una domanda oziosa, ma il silenzio quasi sostenuto di Ken mi mise a disagio. Accelerai il passo senza una ragione specifica, come volessi mettere una distanza tra me e lui: lo sentii trottare fino alle mie spalle.

"Dici che ci fanno da mangiare?".

Realizzai, come una perfetta idiota, solo in quel momento che Ken, per quanto io avessi reso nota, molto trascuratamente per altro, la sua presenza alla compagnia, non era propriamente incluso come ospite.

"Ken! –esclamai bloccandomi sull’ingresso- Ma tu hai prenotato?".

Mi guardò quasi divertito: come poteva? Rischiava di non trovare posto e, comunque, avrebbe dovuto pagare il soggiorno… mi sentii profondamente inadeguata, egoista.

"Non preoccuparti… un posto c’è di sicuro!"

"Ma…", cercai di ribattere.

Mi posò un dito sulle labbra, un contatto sfiorato, pulito, che non mi disturbò, anzi mi sciolse il cuore in un battito unico, fortissimo, immediato.

"Non preoccuparti –ripetè- e ora andiamo a mangiare"

"Ok", mi rassegnai alla sua tranquillità.

 

Seduti, l’uno di fronte all’altra mangiavamo in silenzio rispondendo all’istinto più antico.

"Sì, va beh… testa nel piatto che qua fuori è un brutto mondo!", esclamò ingoiando un boccone di udon.

Sorrisi.

"Sì… ho proprio fame"

"Anch’io".

La guardai ironico.

"Incredibile! Sono molto colpito".

Rise un po’, tornando presto al suo piatto.

Fu solo quando appoggiò le bacchette sul tavolo che riprese a parlare.

"Sono un po’ tesa… cribbio… è sempre uguale l’emozione…"

"Non ho mai visto la Fedra… a dire il vero non l’ho nemmeno mai letta…"

"E tu come sai che rappresentiamo la Fedra?!"

"Beh –mi divertì vederla così stupita di una cosa tanto semplice- ho i miei informatori…"

"Ah! Ecco cosa voleva dirti Taro!", esclamò, ma non ci credeva nemmeno lei.

"Già, già… ma almeno un biglietto me lo trovi?", le chiesi.

"Certo! Per quello non c’è problema… ma io pensavo… insomma…che non ti interessasse…".

Tacqui un momento: davvero pensava che fossi lì solo per allenarla? Questo era il motivo che lei aveva dato alla mia presenza?

Scossi forte la testa.

"Naturale che voglio vederti… se vuoi…".

Tamburellò le dita sul bordo della ciotola umida, silenziosa.

Mi fermai a guardarla, anche senza imbarazzo, forse, mi perdevo in lei, come un bambino stupito del mondo. Per me lei davvero era il mondo. Illogico, stupido, assurdamente incontrollabile.

Un mondo di carta di riso, pienissimo eppure apparentemente vuoto al quale mi sentivo ammesso e lo pensavo un dono infinito.

Ed era semplicemente amore.

 

Un brusio diffuso interruppe quella conversazione, mi alzai appoggiando davanti a lui un biglietto omaggio per la rappresentazione e, senza curarmi se mi seguisse, non so come ne ero certa, seguii le voci provenienti dalla hall.

"Taka!", mi salutò subito Hiroyuki.

"Ciao a tutti", dissi, generica.

Ken mi richiamò tossendo appena: per un attimo mi sembrò la scena ridicola, caricaturale, di un film.

"Ehm… ragazzi! –chiamai l’attenzione degli altri- lui è…", mi interruppe in un attimo, esattamente come il giorno del mio primo incontro con lui io fermai le parole di Taro che cercavano di presentarmi.

"Wakashimazu", disse secco.

"P… piacere", abbozzò imbarazzata Mizuki.

Non so perché ma quel tentennamento timido mi infastidì. Moltissimo.

"Già, già –scorciai- lei è Mizuki Kurata… lui è Hiroyuki… Hori-san, il grande capo… e poi Ikeda, Kido… Arada e Tabuuchi… Yama e poi… beh? Dove sono Nakasu e gli altri?", domandai rivolta a Hori.

"Arrivano… stanno scaricando i bagagli"

"Poverini –dissi ridendo- la bassa manovalanza tocca sempre a loro…".

Seguii poi come spettatrice alle presentazioni personali: i miei colleghi si avvicinavano a turno a Ken, ripetendo il loro nome, alcuni sorridendo, alcuni socialmente corretti.

Mi chiesi cosa stesse pensando, se quei visi fino ad allora sconosciuti suscitassero in lui emozione o indifferenza. Un po’ divertita, un po’ disinteressata, cercavo di capire in che modo Ken stringesse le loro mani tese.

Ultimi gli si avvicinarono proprio Hiro e Mizuki.

"Sono davvero felice di conoscerti… spero ti troverai bene con noi", Mizuki fissava Ken con un’insistenza maliziosa e insopportabile, per me.

E anche se Ken parve non accorgersene, anche se si mostrò apparentemente incurante, io sentì una mescolanza di rabbia e rifiuto per quella scena, per quella donna che gli era di fronte.

"Beh… io allora sono Kuno Hiroyuki", concluse Hiro.

Non che mi aspettassi distacco o freddezza da Ken, ma nemmeno quell’accondiscendenza gentile, accomodante.

"Oh, piacere! Takako mi ha parlato un po’ di te", gli rispose sorridente.

Assolutamente a loro agio si strinsero la mano quello che era stato il mio eterno ragazzo e quell’essere strano che era entrato nella mia vita da un soffio e già la aveva stravolta.

Forse è solo che io non sono in grado di capire gli uomini e ancor meno lo ero allora. Forse è solo questo, ma mi ferì vederli così, come felici, sinceramente rallegrati dal loro incontrarsi. Non mi aspettavo nulla e non chiedevo nulla, non a Ken, almeno, ma le illusione sono grandi puttane: in quel viaggio, in cui io e lui eravamo rimasti per ore da soli, io mi ero stupidamente concessa una speranza, ma ora, osservandoli, moriva anche quella.

La consapevolezza che se io mi fossi trovata di fronte a Kodachi non avrei avuto quella disinvoltura serena e gioiosa, infranse il sogno.

"Senpai!", il grido infantile mi riscosse.

"Ciao! Finito di fare i facchini?", chiesi abbandonando ogni pensiero rivolto a Ken.

"Ci sei mancata un casino durante il viaggio: nessuno rompeva le scatole perché ripassassimo!", mi prese in giro Noma.

Li fissai scherzosamente agguerrita. Noma, Sendo, Nakasu.

Tre ragazzini, forse avevano appena vent’anni. I miei kohai.

"Ah! Fanciulli! –esclamai- Vi presento Wakashimazu" e mi voltai per cercare Ken.

Lo trovai già lì, a un passo da me, silenzioso, incomprensibilmente disturbato da qualcosa che non riuscivo a capire.

"Ciao", disse con un cenno della mano.

"Takako!", mi chiamò brusco Hori.

"Dimmi buana", scherzai un po’.

"Allora… queste sono le camere: tutte triple. Vedi un po’ come vi sistemate. Io vado…".

"Non sia mai che si strapazzi", mi sospirò Nakasu alle spalle, mentre Hiro svaniva oltre le scale.

 

Perfetto. Ero un perfetto idiota. Così idiota da non riuscire nemmeno a capire il mio livello di stupidità.

Avevo stretto la mano a Hiroyuki con un sorriso ebete spiaccicato sulla faccia… come fossi davvero felice di conoscerlo!

Certo non avrei potuto dargli un pugno, o ignorarlo, ma avrei potuto essere molto, molto più glaciale. Invece mi ero prestato alla parte dell’uomo gentile, affabile: un terribile concentrato di ipocrisia.

Non credevo di poter essere falso fino a quel punto. Quante volte avevo criticato con disgusto l’atteggiamento finto, calibrato di Misaki? Ed ora mi ero trovato a ripeterlo, come per errore.

E poi quella ragazzina impertinente, una caricatura di tutto ciò che può essere sensuale… ma forse se non ci fosse stata Takako avrei accettato senza remore i suoi favori. Non lo so. Credo che farsi domande sulle possibilità mai realizzate sia la cosa più cretina su cui si possa perdere tempo. Perché Takako era lì e il risultato fu che nemmeno mi ricordavo, dopo appena pochi minuti, il nome di quella gattina insignificante.

Non che non la avessi guardata: muso normale, gambe provocanti, vestiti che non lasciavano il minimo spazio all’immaginazione.

Ma mi ero limitato a guardarla. Fine.

Takako si era appoggiata al piano della reception: la avvicinai.

"Che c’è?", chiesi, ma era una domanda che chiedeva in realtà solo attenzione.

"Camere…", rispose vaga.

Guardai il foglio davanti a lei.

"Quanti siete?"

"Mm… dunque cinque, sei… undici senza Hiro-san che ha una singola… cinque donne e sei uomini… adesso richiamo la mandria…" e si voltò verso i compagni.

Immagino che la scena fosse buffa solo per me, che vi assistevo per la prima volta: per tutti loro era solo normalità. È proprio vero che ogni cosa è da rapportare al nostro microcosmo.

"Voi uomini avete due stanze: tre da una parte e tre dall’altra… e per favore… Nakasu e compagnia bella: non otturate il lavandino con i mozziconi…".

I tre ragazzi risero afferrando i loro bagagli e dirigendosi, dopo avere ritirato la chiave, alla loro stanza.

Osservai, subito dopo, Hiroyuki allontanarsi con gli altri due ragazzi, Ikeda e Arada se ricordo bene. Mi sentii sollevato da quel suo allontanarsi senza nemmeno rivolgere la parola a Takako.

Lei proseguì.

"E noi, che facciamo?" chiese alle ragazze.

"Io vado con Tabuuchi e Kido" si affrettò a dire la gattina e trascinò le compagne con sé.

"Bene… -sospirò Takako appoggiandosi con la schiena al marmo dietro di lei- Misa, ti spiace rimanere con me?"

"No, no", scuoteva la testa quella ragazzina dai capelli cortissimi, giovanissima, poco più di una bimba.

Takako sorrise e fu un sorriso nuovo quello, un sorriso che non le avevo mai visto, un sorriso dolce, protettivo. Un sorriso di madre, anche.

"Allora andiamo… staremo più larghe!", invitò Yama a seguirla.

"Senpai…", la chiamò appena rimanendo ferma.

Non so perché ma quella ragazza mi diede una sensazione piacevole di forza intimidita.

"Dimmi", la incalzò lei.

"Ma il tuo ragazzo… voglio dire… la stanza è da tre…".

Takako rise, ma era una risata forzata, amara.

"Misa-chan… lui non è il mio ragazzo e poi non credo sia corretta una stanza mista…", si voltò verso di me nel dire quelle parole, come a chiedere conferma.

"Già, infatti", dissi io secco e mi avvicinai al bancone per chiedere una camera.

Quell’ostinazione che io e Takako mostravamo ogni volta che qualcuno ci prendeva per una coppia iniziava a diventare surreale e molto, molto fastidiosa. Sentii il bisogno di rimanere un po’ solo.

"Dai, inizia ad andare… ti raggiungo subito", sentii Takako dire queste parole a Yama.

Rimasi voltato verso il portiere, mi diede le chiavi, mi indicò vago la strada per raggiungere la mia stanza: numero diciassette. Fortunatamente non sono superstizioso.

"Ken… che cosa hai?", mi domandò appoggiandomi una mano sul braccio.

"Niente, niente… sono stanco". Tagliai corto, quasi con fastidio.

 

In fondo ero felice di essere insieme a Misa: mi piaceva quella ragazzina vivace, apparentemente, solo apparentemente, timida.

In realtà io credo che Misa avesse capito meglio di noi tutti come va il mondo: non sbrana mai chi sembra già debole, già destinato a lasciarsi travolgere. E lei si mostrava proprio così e nulla si era mai accanito su di lei. Poi io le volevo bene per quella che era davvero, con i suoi amori acerbi e assoluti, la madre che si limitava a criticarla in ogni cosa, la vita ancora pulita di liceale svogliata.

"Niente prove, oggi?", le chiesi sedendomi su un futon ruvido, non mio, ma in fondo, c’era mai stato un letto che mi appartenesse davvero?

"Hiro-san ha detto di no… che facciamo?"

"Non so tu, io ripasso un po’…".

Misa si sedette di fronte a me, sul tatami, rassegnata.

"Vuoi cominciare?", mi chiese.

La guardai sorridendo.

"Dai, stupida! Secondo te quel lavativo di Nakasu sta ripassando? Dai, andate a farvi un giro!"

"Davvero?"

"Non preoccuparti".

Uscì come un piccolo tornado, forse un po’ invidiai la sua spontaneità, la sua trasparenza nel vivere quel sentimento che mi limitavo a guardare da lontano, come un piccolo film dolce e illusorio.

Sola. Con i miei pensieri pulsanti e inarrestabili che mescolavano bocconi di battute, emozioni e insofferenza.

Come si chiama… come si dice… la terza battuta, dopo Hiroyuki… perché Ken era così indifferente nel conoscerlo? Perché me lo chiedo? Vorrei fosse qui con me? Avrei davvero ancora qualcosa da raccontargli? Perché sono così stupida da avere paura di essere felice? Avevo deciso che la solitudine mi avrebbe difesa… una morte apparente, magari… ma pur sempre senza dolore… e poi che cosa dico… come se fossi certa che potrei essere felice con lui… in realtà io non so nemmeno se potrei essere con lui… non lo so, non lo… cosa dice Fedra… "…ogni furore"… non voglio… o forse sì e non voglio un nuovo male, non dalla sola cosa che ancora non mi ha ferita…

 

Ero sdraiato a terra, senza nemmeno avere steso il futon, da quando ero entrato in quella stanza. Gli occhi chiusi nella speranza che arrivasse il sonno senza sogni che mi avrebbe liberato dalla rabbia che sentivo nei nervi, nelle ossa.

Niente da fare, non riuscivo a addormentarmi né a bloccare il flusso dei miei pensieri.

Mi sfilai insofferente la maglietta e, ancor prima che la vasca iniziasse a riempirsi, avevo già immerso la testa sotto il getto liberatorio dell’acqua.

Se ne andava un po’ la stanchezza in quella pozza fresca e tornava la voglia di essere vivo. Non che pensassi di essermi semplicemente limitato a lasciarmi vivere fino a quel momento, solo sentivo la voce violenta dell’esistenza chiedermi di essere più presente: come pregasse che io partecipassi a ciò in cui mi trovavo immerso.

Pensai a Kojiro, mentre mi scioglievo nell’acqua. Ci pensai solo per un momento: pur essendo allora solo un ragazzo troppo cresciuto, borioso e orgoglioso, mi faceva male ripercorrere la mia lite con lui, le sue parole in cui si mischiavano rancore e affetto.

Poi tornai con la mente al presente e, svelto, scivolai fuori dalla vasca, incurante delle orme umide che si dilatavano sotto di me: mi rivestii in fretta, i capelli ancora fradici mi sgocciolavano negli occhi e lungo la schiena, impregnando la maglietta e le ossa.

Uscii dalla stanza e dalla pensione, di corsa, i gradini saltati tre alla volta. Nel vialetto che portava alla strada incrociai Yama con uno dei ragazzi.

Forse non avrei salutato, ma lei mi precedette.

"Ciao Wakashimazu-kun, vai a fare un giro?"

"Ciao Yama –dissi il suo nome per dimostrarle che mi ricordavo di lei, stupido, lo so, ma venne spontaneo- sì, vado a fare due passi… a proposito: a che ora inizia lo spettacolo?"

"Alle nove".

Bene. Ancora qualche ora. Ancora qualche ora in cui volevo e insieme detestavo rimanere solo con i miei pensieri.

Avrà un senso affannarmi per cercare una cosa tanto stupida? E se si arrabbiasse? O, insomma! In fondo non avevo nemmeno voglia di parlarle… chissà perché… come se in quel momento volessi essere il più lontano possibile da lei… Dio che fastidio quell’Hiroyuki…ma cosa posso fare? Non ho nessun diritto di giudicarlo… so di lui solo attraverso le parole di Takako… forse vorrei vedere mio padre… forse vorrei iniziare ad essere adulto… non che si possa decidere… responsabilità o felicità? Cos’è davvero la maturità? E poi… credo che dovrei spiegare le cose a Takako… ma non sono fatto per quelle frasi mielose… dovrei fare più che dire… ma quella donna riesce a impedirmi anche questo…

Capitolo 15

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