Capitolo tredicesimo:

INCOMPRENSIBILMENTE GELOSIA

Era stato davvero, semplicemente, un litigio?

Non sentivo quella rabbia naturale, persistente che segue lo scontro: avevo quella strana sensazione di completezza, liberatoria.

"Ci fermiamo in un bar? –chiesi a Ken un po’ imbarazzata- Devo andare in bagno…"

"Ma dai… tra tutti i difetti che hai, sei anche incontinente?"

"Ma scusa…", qualche volta anch’io pigolo come le ragazzine.

"Ma scusa niente. Siamo partiti da due ore e già dobbiamo fermarci! Va beh, va beh… se vedi un bar avvertimi".

Ordinai anche per lei.

Appena entrati in quel posto buio, un po’ antico, Takako era corsa via, buffissima e impacciata.

È proprio strano come i bisogni più naturali e fisiologici creino tanto imbarazzo.

"Mi fa un caffè americano e un the?", avrei voluto chiederlo alla vaniglia, ma non ero molto fiducioso sulle possibili offerte di quel bar.

"Americano d’orzo?", mi domandò il gestore.

Non me lo ricordo molto bene, ma direi che un’approssimativa via di mezzo tra il tenente Garcia e Godzilla potrebbe descriverlo al meglio.

"Americano di caffè", gli risposi parecchio scocciato.

"Ehi! –saltellai accanto a Ken come una bambina- Cosa hai preso?"

"Ti va un the, vero?", mi chiese serio.

"Beh… sì…"

"Allora ti va se ci sediamo un attimo?".

Mi indicò un traballante tavolino consumato sul quale fumavano appena due tazze opache.

Non dissi nulla, sarebbe stato inutile: Ken aveva ordinato per me come se fosse la cosa più naturale ed io non volevo rovinare con le parole la sensazione di pace che sentivo in quel momento.

Sedendomi rimasi un istante a guardare il piano del tavolo.

 

"Cosa guardi?", le domandai vedendola come affascinata dai segni davanti a lei.

Sollevò la testa e la inclinò un po’ di lato, abbassando subito lo sguardo.

"Chissà quante storie sono raccontate su questo tavolo… hai visto? Ognuno ha scritto qualcosa… un amore… o una data…"

"Vuoi scrivere qualcosa?".

Da uomo non avevo notato le parole scavate nel legno morbido.

"Ma dai! Cosa vuoi che scriva?", mi chiese candida.

Non mi sembrava così assurdo pensare che anche lei, come tutti, avesse qualcosa da raccontare. Avessi potuto io ci avrei scritto, stupidamente, il mio nome.

 

"Potresti mettere la tua data di nascita".

Io so che Ken non aveva nessun fine mentre diceva quella frase, che l’aveva pronunciata come fosse la cosa più scontata e stupida, ma io, che ormai dovevo piegarmi all’idea che il mio compleanno sarebbe arrivato troppo presto o troppo tardi e comunque mai al momento giusto, non volevo rispondere. Assolutamente.

"Beh… magari un’altra volta… se ripasso di qui, magari avrò qualcosa da scrivere…".

Come era ovvio Ken non sembrò accorgersi del fatto che avevo volontariamente evitato di dire quando ero nata.

Fu una cosa senza senso, mi rendo conto, ma mi sembrava inutile dirgli che avrei compiuto ventidue anni giusto il giorno dopo. Qualcosa come costringerlo a ricordarsene. E non mi piaceva per nulla l’idea.

Ripensai a Kojiro, quando mi disse che aveva detestato l’ipocrisia degli altri alla morte di suo padre: molto più in piccolo, molto più scioccamente, anche io odiavo la falsità.

"Mm… -riprese lui- anche io vorrei avere qualcosa da scrivere… certo, se avessi una ragazza non ne scriverei il nome… mi mette tristezza solo l’idea…"

"Ma a quindici anni magari lo avresti fatto… come tutti…"

"Perché tu l’hai fatto?", mi chiese.

Istintivamente sapevo che saremmo finiti a parlare di qualcosa che per me era solo confusione e incertezza, eppure proseguii.

"Beh… io no… ma questo non c’entra… e tu?"

"Io una volta ho scritto un acronimo sul nome di una ragazza… una cosa imbarazzante, se ci ripenso…"

"Mm… scusami l’ignoranza… ma un acronimo è quello per cui si scrive una frase e le parole della frase iniziano con le lettere che compongono il nome?", penso di non essere mai caduta più in basso di così nello spiegarmi.

"Beh… sì…", mi rispose un po’ titubante; credo che nemmeno lui avesse capito molto bene quello che avevo detto.

"E perché imbarazzante?"

"Ma scusa mi ci vedi a fare una cosa del genere?", lo disse ridendo o, almeno, provandoci.

"Ti vedo volere bene a qualcuno", risposi ignorando la sua ironia finta, amara.

Ken rimase interdetto: forse non si aspettava che io parlassi così, forse non me lo aspettavo nemmeno io. Forse si stupì solo della mia presunzione: come potevo dire una cosa del genere? Su quali basi potevo avere la pretesa di conoscerlo e di sentirmi autorizzata ad avere un’opinione su di lui?

"Quello sì… -lo vidi sospirare a fondo, come raccogliendo forza o coraggio per proseguire- cioè… anche se ho detto che non sono mai stato innamorato, ho voluto veramente bene ad una persona…".

Non so la ragione che fa soffrire il cuore quando ascolta il passato altrui. Anche se so che soffrii perché i ricordi che stavo per ascoltare erano quelli di Ken, gridava forte l’anima di non volere sentire, ma non fui capace di non chiedere, di non conoscere.

"Per lei hai scritto l’acronimo?", incalzai.

"Sì… per un Natale… cioè, per l’unico Natale che abbiamo festeggiato insieme…".

Rimanevo zitta, a quel punto se Ken avesse voluto raccontarmi qualcosa di sé, lui di cui io non sapevo nulla perché troppo bravo ad evitare le domande o a impedire che gli venissero poste, avrebbe proseguito da solo.

Tamburellò con le nocche la sua tazza e poi, davvero, continuò.

"Kodachi… -lo guardai interrogativa- si chiama Kodachi… non sono tanto bravo a parlarne…".

Perché ti fa ancora male quel ricordo?

Lo pensai istintiva, soffrendo per quella cosa stupida e incomprensibile che è la gelosia, gelosia che nemmeno potevo permettermi… in fondo che diritti avevo su di lui e, soprattutto, sul suo passato?

"In teoria era una di quelle storie normalissime da ragazzino… vederla, parlarci… un po’ di sano e puro sesso…".

D’accordo. Gli uomini, su questo argomento, io non li capirò mai. E mi sarei alzata gridando che non poteva esprimersi in quel modo, che avrebbe almeno potuto cercare un altro termine… ma rimasi zitta, in attesa.

Perché lui stava parlando e solo la mia stupidità avrebbe potuto fermare quelle immagini che, dalla sua memoria, stava richiamando per me. O, almeno, per farle conoscere a me.

"Poi però… non so, forse ero troppo giovane e era già difficile scegliere per me solamente e così mi trovai ad accettare che lei decidesse per me… forse era anche per i problemi che avevo con la mia famiglia… non che andasse male con loro, ma mio padre… beh… magari Kojiro ti ha detto che non ci parliamo più… che quando ho deciso di andare per due anni a Mexico City per giocare a calcio abbiamo smesso di avere contatti… ma va beh… questa è un’altra cosa, cioè… un po’ c’entra con Kodachi ma non del tutto…"

"Ken?", lo fermai.

Non volevo si sentisse costretto a parlare.

Come sempre sollevò le sopracciglia per farmi proseguire.

"Non sei obbligato a raccontarmi queste cose… ero solo un po’ curiosa…", cercai di giustificarmi.

"Non le racconto mai… –disse secco, inappellabile- se lo sto facendo non è certo perché me lo hai chiesto".

Bruciarono un po’ quelle parole dentro di me: mi senti come fortunata per avere quel dono, ma anche un semplice strumento, qualcosa di funzionale… capii che, forse, quello che Ken aveva provato quando avevo parlato di noi come di un passaggio doveva avvicinarsi a questo.

"Comunque… il succo di tutta la storia è che Kodachi mi ha chiesto di trasferirmi definitivamente a Tokyo, al primo anno delle superiori, ed io ho accettato… per farmi esibire davanti alle sue amiche del cazzo…"

"Esibire?", chiesi.

Se ero solo un mezzo per permettergli di liberarsi dai suoi ricordi, divisi sempre e solo con se stesso fino a quel giorno, tanto valeva esserlo fino in fondo.

"Kodachi era una bambina viziata… i soldi a volte creano degli strani esseri umani convinti che tutto sia loro dovuto… lei diceva sempre che ero un ragazzo capace di far morire di invidia tutte le sue compagne… e siccome lei mi piaceva moltissimo, come un deficiente, ho accettato di essere messo pubblicamente in mostra…"

"Ma lei ti voleva bene…", volevo che la mia fosse un’affermazione, ma non riuscii a dare un tono deciso alle mie parole.

"Onestamente credo di sì. A modo suo mi voleva bene… ma l’affetto è per i cani… per gli animali… insomma lei era affezionata a me… so che era il massimo sentimento che poteva provare, ma avrei voluto avere la forza per rifiutarlo e invece… invece lei era così bella e affascinate… come magnetica… che non riuscii a dire no… continuai a stare con lei fino a che…".

Se Ken avesse potuto sentire il male che mi procuravano le sue parole, sono certa che avrebbe smesso. Ma mi sforzai, violenta, di non lasciar trasparire le mie emozioni, di non fargli capire che il pensiero che il suo amore, o qualunque cosa fosse, era stato per un’altra mi massacrava.

"Insomma… fino a che Kojiro non mi ha fatto capire…"

"Ma Kojiro cos’è? Il salvatore delle nostre vite?", per quanto sembrino stupide queste mie parole, erano esattamente quello che pensavo in quell’istante.

Sembrava che Kojiro non fosse capace di avere una vita sua e prendesse in prestito quelle degli altri, con i loro dolori e le loro gioie…

"Forse… -disse lui accennando un sorriso- certo che a me ha solo risparmiato di sentirmi un cretino… Kodachi ci aveva provato con lui e il risultato, oltre ad un sonoro due di picche, fu che Kojiro mi riferì tutto, io ne parlai con lei e lei mi salutò…".

Lo guardai perplessa.

"Mi ha lasciato lei, sì. Senza nemmeno troppe spiegazioni… in fondo finché rimanevo zitto e tranquillo non le davo problemi… dimostrandomi vivo sì e così le è stato più comodo piantarmi… così poi i problemi li ho avuti io…"

"Fa male essere rifiutati?".

Fu proprio una domanda. Perché io non sapevo cosa significasse: sembrava che in tutta la vita io avessi solamente rifiutato senza mai subire.

"Non lo so… fa male perdere una persona a cui vuoi bene… e forse per questo io sono contento di non essere stato innamorato di lei… già mi ha ammazzato trovarmi come un cretino a Tokyo da solo, senza più un legame con la mia famiglia… cioè con mio padre… io sono figlio unico… e poi, come sempre, subito mi trovai a dover decidere del mio futuro sportivo.. tra il Toho e l’estero…".

Probabilmente non avrebbe ugualmente continuato a parlare, a quel punto, nemmeno se lo avessi spronato.

"Mm… andiamo? Se ritardiamo troppo mi scuoiano…"

"Hai ragione –mi disse mentre mi avvicinavo alla cassa- e lascia perdere… anche questa volta sono stato più svelto di te!".

Mi sorrise.

"Ma volevo ricambiare", protestai.

"Ti ho già detto che devi permettermi di essere cavaliere".

E sia. Mi diressi verso l’auto cercando di recuperare lucidità e distacco, cercando di rimuovere da me quel senso di nausea provato ascoltando Ken.

Davvero speravo finisse lì.

Pur desiderando con tutte le mie forze capirlo, non riuscivo a tollerare quel discorso. Preferivo il silenzio o il gioco.

 

Credevo che avrebbe fatto molto più male. Parlare di Kodachi, intendo.

Certo, non che mi fossi spiegato perfettamente, o a fondo, ma ugualmente era la prima volta che ripensavo a lei ad alta voce e temevo di non riuscirci, di incastrarmi nel flusso dei miei ricordi.

E invece mi era sembrato che la presenza viva di Takako, di fronte a me, che beveva il suo the e aveva il naso arrossato dal vapore, mi desse quiete e mi permettesse di parlare sinceramente.

E credevo che per lei fosse ugualmente felice ascoltarmi e poi raccontare, per questo domandai.

"E tu, invece? Davvero non ti hanno mai lasciata?"

"Beh… non so se è proprio così…".

La sensazione immediata fu che rifiutava di parlare, le costava fatica e forse non riusciva a trovare risorse per farlo. Io non ero, e non sono, particolarmente curioso, né insistente, di solito. Però insistetti, quella volta.

"Cioè?", riavviai il motore e riprendemmo la strada, ormai vincolati alle nostre stesse parole.

"Cioè… che l’unico ragazzo che ho avuto in effetti lo ho lasciato io, ma una volta mi sono sentita abbandonata… però… però… non saprei dire se era una sensazione… come dire… sentimentale… mi sono sentita abbandonata e basta"

"Da tuo padre?".

Ancora mi chiedo se il mio cervello fosse collegato alle parole: come potevo avere fatto davvero una domanda del genere?

Takako sorrise appena, un soffio leggero, divertito anche.

"No. Da suo figlio…".

Forse se mi fossi fermato qualche secondo in più a riflettere, avrei capito senza bisogno di domandare. Se lo avessi fatto sarebbero cambiate un sacco di cose. Almeno in quel giorno.

"Scusa?!"

"Dai, hai capito benissimo. Io ero una bambina, però mi sono sentita completamente persa quando ci siamo separati… -emisi un debole mugugno di attenzione- no, stupido! Non siamo mai stati insieme… avevo dodici anni! Però volevo molto bene a Hikaru e, al momento, non capii che era perché eravamo fratelli…".

Piano ricomponevo la storia di Takako: figlia dello stesso padre di Matsuyama, madri differenti; un’infanzia nell’isola di Hokkaido, credo nella stessa città di lui; poi, per qualche motivo, lasciò Hokkaido, per Tokyo , più precisamente, per Saitama, quello non riuscivo a sistemarlo nella mia mente; e poi, alla fine, un "mezzosangue" sputatole in faccia, con rabbia, forse solo per vendetta.

Ugualmente non stavamo parlando di quello, ma di sentimenti. Più o meno.

"E poi?", chiesi.

"E poi basta. Cioè… poi è venuto Hiroyuki, ma molto tempo dopo e quella è stata effettivamente una storia ed è finita per causa mia… io ho detto basta. Per intolleranza, credo…"

"Intolleranza a lui?"

"No. Agli uomini, in generale… Hiro chiedeva giustamente che io fossi più… partecipe alla nostra storia e io mi sentivo solo inadeguata… una separazione abbastanza dolorosa, in fondo… io odio gli uomini che supplicano e si disperano… mi mettono a disagio e non so che cosa dire…"

"Probabilmente lui era innamorato…", azzardai.

"Sì. Per questo è stata un’agonia… soprattutto perché lavoravamo… lavoriamo insieme…"

"È nella tua compagnia?", chiesi e dentro di me c’era una strana inquietudine.

Avrei forse dovuto vederlo? Trovarmi di fronte al solo uomo che era stato con lei, che probabilmente la aveva sfiorata, amata?

"Sì… lo conoscerai".

Sembrava che per lei questo non avesse alcuna importanza, davvero, forse, aveva deciso di eliminare gli uomini e, ovvio, i sentimenti per loro dalla sua vita.

"Ma non te ne importa nulla di lui?"

"Non più… ora siamo più o meno amici… cioè fondamentalmente ora ci parliamo… dovendo lavorare in tandem, abbiamo fatto un tacito accordo di non belligeranza…".

Sorrisi per quell’immagine strampalata che solo lei sarebbe riuscita a creare. Sorrisi, ma non riuscii ad allontanare da me la frustrazione. A quel punto volevo capire cosa era stata per lei quella storia, quanto valeva ancora, se valeva.

"Siete stati insieme molto tempo?"

"Quattro anni", disse quel numero con una noncuranza quasi fastidiosa.

Avrei dovuto sentirmi solidale con quell’Hiroyuki, a prima vista sembrava avere vissuto la stessa situazione a cui mi aveva costretto Kodachi. Avrei dovuto. Se non fossi stato innamorato di Takako.

Perché fu questo sentimento, ormai definitivo dentro di me, a farmi sentire quasi tranquillizzato dalle sue parole. Tranquillizzato e poi subito turbato, infastidito. Va bene, non aveva uno di quegli amori strazianti alle spalle che rendono le donne persino noiose, un pozzo di rimpianti, ma da come parlava sembrava anche rifiutare la possibilità, presente o futura, di viverlo questo sentimento assoluto che sembra piegare qualsiasi volontà.

Mi sentivo stravolto da quel contrasto di pensieri.

"Ehi! –mi richiamò lei, evidentemente mi ero davvero perso nel flusso della mia mente- Cosa pensi?"

"Niente, niente…".

No. Così non andava. Certo non potevo dire completamente il vero: nella migliore delle ipotesi mi avrebbe piantato da solo su quella provinciale assolata. Ma non potevo fingere il nulla. Non perché non tolleravo il dubbio, semplicemente perché ero ormai certo di una cosa: perché Takako parlasse dovevo farlo io per primo.

"Ok…", si rassegnò subito lei.

"No… ascolta… pensavo che non deve essere bello… stare così tanto tempo con qualcuno senza amore…"

"Io credevo di volergli bene davvero… a volte le emozioni si confondono e viene solo un gran casino… però… ora so che davvero non ero innamorata di lui…"

"Ora… cioè dopo tanto tempo?"

"No. Dopo avere conosciuto te".

Non sono molto bravo a spiegare le emozioni, so solo che il cuore può accelerare i battiti fino ad un punto così inafferrabile da azzerarsi e ti sembra di non averne più nessun controllo. Nessuno.

E così rimasi senza parole. Emozione troppo forte. Troppo bella, perché riuscissi ad accettarla fino in fondo.

Avrei voluto essere in grado di vedere in quelle parole una speranza, un affetto per me, invece, naturale, mi ritrovai oppresso nell’eterno conflitto tra l’anima che chiedeva un sogno e la mente che chiedeva il reale.

"Ma… -ripresi dopo quel silenzio che mi era parso eterno- …è molto tempo che non state più insieme?"

"Beh… un anno, più o meno…".

Mi venne in mente la domanda più stupida, più scontata, talmente ovvia che ancora non gliela avevo fatta.

"Ma tu quanti anni hai?".

Sono certo che sorrise a quella domanda, ripensando a tutto ciò che avevo mostrato di non sapere di lei.

"Ventidue –rispose- tu venticinque come Taro e Kojiro?"

"Sì… cioè quasi venticinque…".

Non chiese nulla. Mi sembrava naturale domandarmi quando avrei compiuto quei venticinque anni che, raccontandoli, parevano pieni di niente o di illusioni o di non so cosa. Non chiese ma non me ne curai, ancora rivolto con la mente al desiderio di capire, di sapere di più.

"Quindi… -feci un rapido calcolo- siete stati insieme da quando tu avevi diciassette anni…"

"Sì… facevamo la stessa scuola…"

"Dove ti sei diplomata?"

"Tecnicamente da nessuna parte –si sporse verso di me, fissandomi con un’eco imbarazzata che non riuscivo a comprendere- perché quando avevo quattordici anni ho iniziato a recitare… quindi studiare per me voleva dire frequentare la scuola di recitazione…"

"A Tokyo?"

"No… ho iniziato a Saitama"

"E hai conosciuto Kojiro… ho qualche problema a ricostruire la cronologia della tua vita!", esclamai ridendo.

"Anche io", mi rispose e non capii, davvero, se era ironica o seria.

E intanto la strada correva, sempre simile e differente a se stessa, cambiavano appena i colori, forse diventavano più dolci i suoni e gli odori, ma chiusi nell’abitacolo sembravamo esistere solamente noi due, in quella danza tra passato, ricordi, dolore e sentimenti che non avevo la forza di dire e che pregavo avesse anche lei.

Il mondo può mutare velocissimo, impazzito, come in quel momento si mescolavano in un unico battito le mie emozioni.

Fino al momento in cui prosegue la strada prosegue la vita. Ed io non avrei mai smesso di guidare.

Se la mia vita era quella, andava bene così.

Capitolo 14

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