Capitolo dodicesimo:

SOLO UN PASSAGGIO

La trovai già sulla strada.
Lo zaino appoggiato sull’asfalto, agitava la mano verso una finestra sopra di lei.
Forse riconobbe subito la macchina: quando accostai si avvicinò per aprire la portiera.
"Ciao"
"Ciao".
Ma non ci fu nulla sul suo viso a trasmettere emozione, anche solo semplice piacere di vedermi e così rimisi subito in moto, mentre lei guardava malinconica la finestra dietro la quale, credo, Misaki stava osservando la sua partenza.
Quante volte quella scena si era ripetuta senza che io ne fossi minimamente cosciente?
 
"Mm… senti… io pensavo di prendere la provinciale fino a Kyoto e poi seguire le indicazioni per Otsu… sono più o meno cinquecento chilometri… dovremmo arrivare per le tre del pomeriggio…".
Non che mi importasse davvero rendere Takako partecipe dell’itinerario, ma non tolleravo il suo silenzio di cagnolino triste.
"Per me va bene…", mi rispose, assolutamente disinteressata alle mie parole.
 
Iniziai a chiedermi se non fosse stato un errore: partire con lei, impicciarmi della sua vita… cosa me ne importava, in fondo?
Sì, lo so: sono bravissimo a mentire a me stesso.
Io volevo essere lì, su quell’auto, insieme a lei, volevo conoscere la sua vita ed entrarci, se possibile, volevo lei, anche. Ma quella sua espressione ferita, quel suo silenzio incurante mi facevano rimanere in bilico tra la gioia soddisfatta per avere ottenuto, e quanto facilmente, ciò che desideravo, e una fastidiosa inquietudine.
Non mi pentii nemmeno un secondo della mia scelta, ma in quel momento il ricordo delle aspettative che nutrivo su quel viaggio cozzava violento con la realtà: semplicemente uno spostamento geografico, che fossimo insieme sembrava non avere nessun valore per lei.
 
"Posso mettere una cassetta?", mi chiese indicando l’autoradio silenziosa, inerte.
"Se non è una schifezza romantica…", un genio.
Alle volte mi stupisco da solo della mia mancanza di sensibilità.
"No. I Nirvana. Vanno bene?"
"Quale?"
"Nevermind"
"Ok… è carino…"
"Carino?!", sembrava essersi riscossa dal torpore dei suoi pensieri.
"Dai, dai… mettila su che la strada è lunga."
 
Senza parole, con solo una nenia ritmata a riempire il vuoto dell’abitacolo, i pochi metri già percorsi sembravano infiniti e ancor più interminabili erano quelli che sarebbero venuti.
 
"Posso fumare?"
Si limitava ancora solo a queste domande scontate e, fondamentalmente, inutili.
Non mi imbarazzo facilmente, ma in quei minuti mi sentivo soltanto a disagio, inadeguato e stupido.
"Fa’ quello che vuoi", probabilmente, pur contro il mio volere, il tono fu quasi seccato.
Involontario, ma fece smuovere qualcosa dentro di lei, credo. O forse fu soltanto casualità. Già… più ripercorro questa storia nella mia mente, più mi convinco che davvero ogni cosa in noi fu casualità.
"Sei arrabbiato?", mi chiese voltandosi a fissarmi: fino a quel momento aveva tenuto lo sguardo fermo sulle sue ginocchia.
"Sei tu quella che ha qualcosa", la aggredii.
No. Non che ci fosse rabbia nelle mie parole, ma avevo evitato di rispondere girando su di lei la responsabilità.
"Mm… mi sa che hai ragione… scusami".
Sarebbe finita lì, credo, se non avessi insistito perché si spiegasse.
"Che cosa c’è? Sembri triste… non volevi andartene?".
O magari ti sei pentita di avere accettato la mia proposta…
Ma anche questa frase finì, con molte altre, nella scatola stupida dei non detti.
"Ma no… no… sono un po’ agitata… è pur sempre una prima e poi…"
"E poi?"
"Ma scusa, non ti sembra assurda la situazione?".
Noi uomini siamo un po’ come bambini, alle volte. Probabilmente capiamo sempre, o quasi, perfettamente quello che stanno cercando di dirci, eppure continuiamo a domandare fino a che non ci viene data una spiegazione elementare e lineare.
"Quale?"
"Dai, sii serio. Questa. Di me e te che andiamo a Otsu e… insomma… io sarò anche un po’ particolare, ho un modo strampalato di rapportarmi agli altri, ma… fare questo viaggio con te mi dà una strana sensazione…"
"A me fa piacere…".
Avrei potuto dire moltissime cose più articolate e più sentimentali, ma non me ne venne in mente nessuna. Vuoto totale. Ero così concentrato sulle parole di lei da non avere tempo di formulare le mie.
 
Durante quel viaggio avrei percepito fino in fondo e definitivamente, l’abisso invalicabile e meraviglioso che separa uomini e donne.
 
"Anche a me! –esclamò lei, con un tono acceso, quasi si scusasse- E forse è proprio questo… Ken?".
Mi piaceva quel modo di chiedere la mia attenzione: mi chiamava piano e abbassava un po’ lo sguardo, senza parlare fino al momento in cui non le davo, in qualche modo, il permesso di proseguire.
Mi voltai verso di lei per un attimo, il minimo indispensabile concessomi dalla guida.
"Noi non siamo amici… ma nemmeno…", tentennava, quasi la intimorissero le sue stesse parole.
"Ma nemmeno stiamo insieme?", le chiesi, a modo mio, provocatorio.
"Ecco. Magari io avrei cercato un eufemismo…".
Si mise a ridere: non aveva una risata sfacciata, né pigolante. Abbastanza cristallina, ma come sussurrata. Rise un istante, poi tornò seria, improvvisa, incoerente.
"Cosa c’è che non va?", le chiesi.
Onestamente per me la cosa era perfettamente lineare: contro tutti i miei propositi, avevo dovuto accettare la nascita irruente, improvvisa e inaspettata, dei miei sentimenti verso di lei; ora io avevo semplicemente seguito il flusso dei miei desideri. Non volevo partisse… o meglio non volevo partisse senza di me.
Piuttosto ovvio.
"Voi ragazzi vi fate molte domande in meno… -sospirò, forse invidiando, per un momento, ciò che mi rendeva diverso da lei- Comunque! Sono contenta di essere qui… davvero… pensavo fosse molto più doloroso…"
"Che cosa?"
"Beh… conoscerti. Conoscere un ragazzo senza che sia amico…"
"Sì, però così non sono un tuo amico e non sono nemmeno il tuo ragazzo… facendo due più due… non sono niente!".
Mi sforzai di far passare quella frase come una battuta, ma non lo era. Non lo era assolutamente. Non ero stanco o annoiato dalla situazione effettivamente surreale in cui ci trovavamo io e Takako, ma nemmeno mi era così facile sopportarla.
Se la mia scelta fosse stata tra l’esserle amico e non essere nulla, bene. Io sceglievo il nulla. Perché io ero disgraziatamente innamorato di lei e non mi importava dell’affetto amicale che poteva darmi.
No. Decisamente non sarei stato un buon amico, né obiettivo, né disinteressato.
Takako si fermò un po’ a pensare, forse anche per lei quelle parole apparentemente casuali, giocose, avevano avuto un senso molto più profondo.
"Beh… -iniziò, un po’ incerta, come si muovesse in un luogo sconosciuto- esistono anche degli equilibri unici, non classificabili…"
"Sono un equilibrio non classificabile?"
"Sei… no, siamo, un passaggio…".
 
Va bene. Per quanto elementari possano sembrarvi i miei ragionamenti, in quel momento io sentii male. Semplice e acuto.
Per me un passaggio è, ed era, se possibile, ancor di più nel passato, qualcosa di assolutamente insignificante. Un accidente fastidioso dell’esistenza umana.
 
"Un passaggio…", ripetei fissando la strada.
 
Non avrei voluto arrabbiarmi con lei: per qualche motivo, dalla prima volta in cui lo avevo fatto, quando le avevo gridato di non permettersi mai più di rivolgersi a me in quel modo scortese, avevo deciso di non farlo più. Di sopportare le sue intemperanze in silenzio.
Non ci riuscii.
Il dolore offeso si tramutò in rabbia e esplose.
 
"Ma che cazzo vuol dire? Smetti di prendermi in giro… io… io sono davvero stufo di vederti sempre quella faccia da Buddha sofferente! Credi che io sia qui con te per essere di passaggio?".
L’auto rimbombò delle mie parole gridate con un rancore che nemmeno io ero riuscito a contenere.
Per un tempo che non so quantificare, Takako rimase in silenzio a fissarmi. Non potevo guardarla, dovevo pur continuare a guidare, a tenere la strada come punto fermo di pensieri e azioni. Eppure… sentivo il suo sguardo impastato su di me, immobile, stupito. No, forse non stupito, forse spaventato.
E quel silenzio ferito sembrò alimentare il mio spirito già feroce, rabbioso.
"Almeno fingi! Oppure sii onesta: dimmelo che non te ne frega niente, che ti torno utile perché puoi partecipare a quel fottuto torneo! Ma come fai? Sembri di marmo! C’è qualcosa su tutta la terra che ti scuote? A parte la morte di tuo padre, naturalmente, ma quello è dolore… ma… ma tu non sei mai felice?".
Non volevo, non cercavo una reazione da parte sua. Forse volevo solo poter dire quello che pensavo, smettere di avere paura di ciò che provavo, di ferirla. Forse avrei continuato a gridare e alla fine sarei arrivato a dire la verità, senza mezze misure, sputata in faccia come se fosse una cosa tremenda.
Non cercavo una reazione, perché non credevo che quel guscio colmo di nevrosi e rancore potesse averne una.
Ripensai all’incostanza con cui aveva allontanato la mia mano da sé a Hokkaido: subito dopo mi era sembrata pentita. Non per avermi aggredito, ma per avere avuto quell’impulso istintivo di rabbia.
Non cercavo nulla, in fondo.
E, come è giusto, mi stupì per l’ennesima volta. Completamente.
 
"Vaffanculo! Ma chi cazzo pensi di essere per potermi parlare così? Io non ti ho chiesto proprio niente, sei tu che ti sei preoccupato per me e a me è andato bene, ma è una conseguenza! Si può sapere cosa vuoi? Vuoi portarmi a letto? Mi dispiace. È impossibile".
Gridò con una forza che non era possibile rendere compatibile con la sua forma esile, apparentemente debolissima.
Gridò vomitando una rabbia puntuale, una rabbia che non era lì perché cumulo di anni, ma che era nata ed esplosa in quell’esatto momento.
Gridò e mi colpì il tono e la verità delle sue parole: ripetevano scandite che lei era viva. Viva. Anche se era difficile dirlo.
Ma la rabbia è una carogna infida, che sembra controllabile, ma presto si dimostra incontenibile. Una cascata furiosa e illogica.
 
"Se volessi portarti a letto non mi farei questo sbattimento! Per farsi una ragazza bastano cinque minuti, due parole cretine, di quelle che vi fanno intenerire, e via… sei una deficiente! Non capisci proprio niente".
Non avrebbe avuto nessun senso cercare parole gentili, perché non ne avrei trovate. Così dicevo le cose esattamente come si formavano nella testa, confuse o crudeli o massacranti.
Non me ne importava niente e solo più tardi, placata l’ira, avrei capito che a non fermare le mie frasi era la percezione lucidissima, per quanto totalmente inafferrabile, che finalmente Takako stava dimostrando di essere umana, pulsante e incontenibile. Il fatto che avesse smesso, improvvisa, di calibrare ogni gesto, ogni parola, di contenere e soffocarsi, era la sola cosa che aveva valore.
 
"Invece sei tu che non capisci niente! E poi… che cosa sono questi discorsi sulla facilità di farsi una donna? Credi che siamo tutte stupide come le puttanelle che probabilmente sei abituato a portarti nel letto? Che poi fa davvero schifo il pensiero…".
Era quello che pensava di me?
Dalla cattiveria aspra delle sue parole avrei potuto convincermene, ma io ci sentii anche la paura. Che fosse realmente così.
Magari solo una stupida illusione.
 
Per la prima volta nella mia mente si riflesse l’immagine di lei con un uomo. Un uomo diverso da me.
"E se fossi tu a volerci provare con me?", le chiesi smorzando un poco il tono acceso che avevo tenuto fino a quel momento.
"Io?", chiese come se avesse appena sentito dire la cosa più assurda che fosse concepibile.
Non fossi stato così arrabbiato, forse avrei sorriso di quel tono tanto allibito.
"Sì, tu. O tu sei naturalmente così perfetta da non avere nemmeno interesse per noi poveri maschi decerebrati? Sì. Decisamente sei di marmo".
Volse tutto il suo corpo verso di me, un po’ mi infastidiva la possibilità che lei aveva di fissarmi con costanza, mentre io potevo solamente girarmi qualche attimo ogni tanto verso di lei.
Ripensandoci dopo, mi è dispiaciuto non avere potuto vivere completamente le sue espressioni, le vibrazioni delle sue ossa in quella occasione.
"Scusa? –mi domandò, ma non aspettava risposta- A me gli uomini piacciono… magari non moltissimo, ma quanto è naturale! E poi non credo siate stupidi o superficiali… non in generale, almeno".
Eppure per me Takako era un concentrato amaro di odio e rifiuto verso gli uomini.
"E io non uso le ragazze… le donne, come dici tu…"
"Cioè se stai con qualcuna è perché sei innamorato?"
Non avevo la risposta pronta per questo.
"Beh… innamorato… -come potevo dirle che io non avevo mai provato quel sentimento finché non la avevo incontrata… che poi non ero sicuro nemmeno che amare fosse proprio quello…- e tu? Sempre e solo per amore?"
"No".
Fu una risposta così lapidaria che la rabbia si placò improvvisamente dentro di me. Pur essendo un iracondo per natura, non provai più l’impulso di provocarla.
"Non sempre?", chiesi, piano, un sussurro in contrasto con gli strilli di appena qualche minuto prima.
"Direi mai… se questo non portasse qualsiasi persona normale a considerarmi nella migliore delle ipotesi una stronza… anche tu…", il suo tono, quasi accompagnando il mio, si era sfumato, addolcito malinconicamente.
"Non penso questo… non credo che l’amore sia così comune."
"Ovvero?"
"Io non sono mai stato innamorato… e, se può tranquillizzarti, ho avuto solamente due ragazze…"
"Perché dovrebbe tranquillizzarmi?"
Già, perché?
"Era per dire…"
 
Takako tolse la cassetta della radio e lasciò il silenzio tra noi.
 
"Ken? –di nuovo quel modo tutto particolare di rivolgersi a me- Mi hai fatto arrabbiare… grazie"
"Tu non sei normale!".
Una cosa che adoravo del mio tempo con Takako era che non ero costretto a spiegare ogni cosa. Probabilmente molto era dovuto semplicemente al fatto che lei era una donna, ma non solo. Aveva un’attenzione più acuta e vivace di quella che normalmente trovavo nelle ragazze e mi permetteva di non dover spiegare ogni cosa.
"No, ero seria… io non mi arrabbio mai… e accumulo soffocandomi con le mie mani… sono un po’ come Taro in questa cosa…"
"Perché come lui?"
"Dai… non ti accorgi di quanto si sforzi di non essere mai intemperante? È una fatica tremenda cercare sempre di piacere a tutti… io almeno non mi arrabbio mai per altri motivi…"
"Quali?"
"Beh… più o meno quelli per cui tu, invece, ti arrabbi subito", disse e credo sorridesse.
La sua mano la sentii subito, appoggiata incerta sulla mia, tesa sul cambio.
"Pensavo di non essere più capace…".
Strinse le sue dita intorno alle mie, con una forza dolce che mi diede un brivido mescolato di emozione e desiderio.
Avessi potuto, non avrei mai sciolto quel contatto. Non che mi sarei accontentato in eterno di quello, ma per il momento era sufficiente. Anzi, era tutto.
"Non si smette mai di avere sentimenti… ma in effetti anche io pensavo di non saperli sentire…"
"Già… comunque devo essere sincera… pensavo praticamente tutte le cose che ti ho detto…"
"Sì. Anch’io".

 

Capitolo 13

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