Capitolo undicesimo:
VANIGLIA E MIELE
Ken aveva un modo di guidare tutto maschile, eppure contemporaneamente diversissimo da quello di Kojiro.
Certo, per me che non avevo mai preso la patente, c’era sempre qualcosa di affascinante nel vedere qualcuno muovere un auto, come fosse parte integrante del proprio corpo. Mi domando cosa si provi…
"Va bene il Comedy?"
"Non lo conosco", risposi. Non uscivo molto, un po’ per caso, un po’, forse, anche per scelta.
"È carino. Tranquillo…"
"Va benissimo… -mi interruppi un istante- come mai sei venuto a prendermi anche oggi?".
Non so se volevo davvero saperlo, in realtà non mi interessava: per qualche ragione Ken era con me, ora, e il resto era solo un particolare.
"Non sono proprio venuto a prenderti…", rispose vago, mi ferì un po’ quel tono, come volesse dirmi che non potevo permettermi di sognare.
"Mm… -ondeggiai con il corpo per trasmettere il senso di nausea dell’anima- allora, perché?".
Se bisogna farsi del male, che sia fino in fondo…
"Devo parlarti".
E dichiarando questo si chiuse in un silenzio ostile, fino al locale.
Rimaneva per me una sorta di contraddizione vivente, di cui non sapevo nulla e che avrei voluto conoscere, comprendere.
Per me un locale è sempre stato uguale all’altro: credo che per parlare, per trascorrere del tempo insieme, l’ambiente sia completamente irrilevante. Ad ogni modo il Comedy non era male, nei toni soffusi dell’azzurro mi rendeva placida, calma. O forse era la presenza di Ken accanto a me…
"Va bene qui?", mi indicava un tavolino rotondo, con una panca imbottita ad angolo.
Lo fissai un secondo accendendomi una sigaretta.
"Non fumare", mi disse.
"Va bene qui", risposi.
Un perfetto dialogo sfasato.
Mi sedetti in quella nicchia acuta e aspettai che lui trovasse un suo posto: non so per quale motivo mi aspettavo cercasse una sedia e si mettesse di fronte a me, invece si accomodò al mio fianco, sulla panca.
Subito si avvicinò il cameriere: un ragazzo biondo, evidentemente straniero. Per me qualsiasi persona dai capelli chiari era automaticamente straniera. Non consideravo l’esistenza delle tinte.
Comunque il giovane era davvero di un altro paese, me lo confermò il modo incerto di chiederci l’ordinazione.
"Io prendo… un the… due. Due the. Per me al lampone", disse lui.
"Per me alla vaniglia", conclusi.
Il ragazzo si allontanò.
"Vaniglia?!"
"Beh? Non va bene?"
"Ma è dolcissimo!"
"Almeno quello…", mi trovai a dire.
"Anche tu sei dolce… magari non come la vaniglia, ma abbastanza…".
Mi sorrise ed io appoggiai il mento sulle mani incrociate e lo fissai scherzosa.
"Allora? –chiesi- Di cosa volevi parlarmi?".
Un po’ mi inquietava il pensiero che avesse qualcosa da dirmi… non che fossi solita farmi film mentali sul possibile svolgersi degli eventi, ma ammetto che per un attimo sperai volesse dire una di quelle frasi teatrali che ero abituata a sentire solo nelle commedie sentimentali che qualche volta avevo recitato.
Ken rimase in silenzio per un po’, forse pensava a cosa dirmi, alle parole da usare. Non so.
"Domani partiamo".
Indubbiamente una frase di grande effetto. Peccato che non capii assolutamente niente.
Ci servirono il the, guardai Ken scioglierci lo zucchero.
"Quanto?", mi chiese tenendo il cucchiaino colmo a mezz’aria.
"Niente", risposi fermandogli appena la mano.
Una scossa elettrica, debole, ma pur sempre una scossa. Strano. Avrei dovuto essermi abituata al contatto con la sua mano.
"Cioè… prendi il the alla vaniglia e poi non lo addolcisci?!", rise.
"Beh… se lo faccio è acqua calda con lo zucchero…", mi sembrava un ottima risposta.
Avvicinai le labbra alla tazza, sentii il sapore bollente scendermi nello stomaco.
"Hai pranzato?", mi chiese.
Guardai l’orologio appeso alla parete di fronte a me.
"Ma sono le tre!", esclamai.
"E allora?", in effetti non aveva torto.
"E allora non è ora di pranzo", osservai.
"Infatti ti ho chiesto se hai mangiato", lineare.
"Un toast -sembrò soddisfatto- però… però vorrei un biscotto…"
"Un biscotto?", sottolineò.
"No?", gli chiesi abbassando lo sguardo come un cucciolo triste.
"Va bene, va bene… vado a prendertelo".
Si alzò senza darmi il tempo di spiegargli come lo volevo. Anche perché in realtà non sapevo come chiederlo…
Tornò appoggiandomi un piattino davanti: una piccola stella di pasta frolla con della granella di zucchero. Sorrisi, felice come una bambina.
"Va bene?"
"Sì, sì! -dissi entusiasta- È uno dei miei biscotti preferiti!"
"Non ero sicuro… avevo pensato di prendere quello al cioccolato"
"A me piace solo il cioccolato bianco… che non è nemmeno cioccolato, in realtà!"
"Anche se quello a cui avevo pensato era un altro…"
"Quale?", domandai incuriosita.
"Quello al miele… ma non c’era".
Credo che in quel momento mi si sia illuminato lo sguardo, assoluto e vivo.
"Adoro il miele… soprattutto quello ghiacciato"
"Ghiacciato?"
"Sì… è molto tempo che non lo mangio… ma è buonissimo"
"Ma lo metti in freezer?"
"No… -sorrisi divertita- si cristallizza al freddo… insomma… a Hokkaido è facile che un barattolo si rapprenda se rimane all’esterno, anche solo per una notte…"
"Ah… quindi bisogna andare a Hokkaido per trovarlo…"
"Già".
Era la prima volta in tutta la mia vita in cui parlare di quella città in cui avevo vissuto la mia infanzia non mi faceva male, anzi. Mi riportava dolcemente indietro, solo ai ricordi belli.
"Vorrei provarlo questo miele ghiacciato… di cosa sa?"
"Beh… di miele! Però… un po’ diverso… senti il dolce del miele e insieme il freddo distaccato del ghiaccio… non riesco a descrivertelo… è come in quel film… non puoi descrivere il sapore della cioccolata!"
"Invece ho capito…", disse pensieroso.
"Cioè?"
"Cioè ha il tuo stesso sapore, credo… -spalancai gli occhi, sempre il mento sulle mani- insomma… tu sei dolce e allo stesso tempo gelata… non puoi piacere a tutti… ma se piaci…", si interruppe.
Ma non ci vidi nulla di male.
"Grazie", dissi senza guardarlo.
"Mi dici sempre così…"
"Così come?"
"Grazie… lo dici sempre…"
"Mi hanno insegnato così", mi limitai a dire.
"Comunque di niente", concluse lui.
Rimanemmo un momento zitti, come fossimo finiti a parlare di miele proprio non lo ricordavo: ancora non sapevo cosa volesse effettivamente dirmi. Me ne resi conto solo allora, mentre lui beveva calmo il suo the.
Assaggiai il biscotto che mi aveva portato: buono davvero, era tanto che non sentivo il piacere del cibo.
Non avevo ancora inghiottito che iniziò a spiegarsi.
"Mezz’ora fa dicevo che domani partiamo"
"Chi? Tu e Kojiro?", chiesi questa volta.
"No. Io e te".
Continuavo a non capire e non mi andava per niente. Mandai giù.
"Su, per favore… spiegati… non ho voglia di giocare!"
"Va bene… cercherò di fare un discorso chiaro, allora"
"Non prendermi in giro! –gli dissi fingendomi offesa- L’ho visto anche io Quattro matrimoni e un funerale …"
"Ok, ok… non sfrutterò più le battute degli altri… allora… ho parlato con il tuo allenatore e abbiamo raggiunto un accordo: io ti seguo nel tuo viaggio costringendoti ad allenarti e lui… ti fa partecipare al torneo al tuo ritorno…".
So che teoricamente avrei dovuto sbranarlo per essersi permesso di intromettersi negli affari miei, ma il mio cervello riusciva a pensare soltanto che Ken sarebbe partito con me. Per un tempo indefinito pensai solamente a quello, poi mi riscossi.
"Ma… come mai ha accettato? Shibuya è un noioso del cazzo… lo hai pagato?".
Si mise a ridere, prima di rispondermi.
"No… è stato molto meno doloroso".
Cercò qualcosa nelle tasche e me lo porse.
Wakashimazu Ken
Cintura nera, terzo dan
Palestra Wakashimazu, riconosciuta dalla federazione nazionale arti marziali
Lessi sul tesserino.
"Karatè?", chiesi.
Non capivo. O meglio, diciamo che le cose non tornavano: Ken era un portiere, un calciatore… cosa c’entrava il karatè?
"Sì… prima di giocare a calcio… mio padre ha una palestra, anche abbastanza famosa…".
Era la prima volta che Ken parlava della sua famiglia. Lui che ne aveva ancora una ne parlava, e sembrava pensarci, molto meno di me.
"E allora Shibuya ha accettato davvero?", chiesi.
Ero troppo contenta di quella prospettiva per fare domande sulla sua vita.
"Già… se vuoi, naturalmente"
"Certo… -mentre accettavo mi resi conto che lo stavo facendo proprio perché era lui a chiedermelo- grazie", mi chiesi se non fossi monotona e istintivamente sporsi infantile la lingua.
"Già… basta con questi grazie", mi prese in giro lui.
Tornai sorridendo al mio the e al mio biscotto: quasi mi dispiaceva finirlo, mi sarebbe piaciuto conservarlo, come ricordo…
"Se ti dico una cosa prometti di non arrabbiarti?".
Sollevai un sopracciglio diffidente.
"Cosa?"
"Prometti che non ti arrabbi?"
"Io non prometto mai"
"Perché sei così categorica? –ma era una domanda retorica, infatti proseguì- Comunque… oggi ti ho… come dire… vista… mentre combattevi…"
"Cioè mi hai spiata?", mi stavo innervosendo.
"Beh… non proprio spiata… ero seduto dietro a quel divisorio che c’è nella tua palestra…"
"E perché non ti sei fatto vedere?"
"Non ero sicuro che mi avresti permesso di assistere…"
"Capisco… e ti chiedo di non farlo più. Detesto essere guardata di nascosto… -mentre dicevo quella frase ebbi un flash di me, in mutande, in mezzo alla palestra- ma mi hai vista svestita!"
"Quello non era programmato…", si giustificò.
In effetti…
"Va beh, va beh… non farlo più. E a monte questo argomento"
"Ma…"
"Ho detto a monte!", lo zittii.
"Va bene, non mordermi…", la buttò sul ridere e finì lì davvero.
Lentamente scivolò via da me quella sensazione impura di fastidio.
Finimmo il the.
"Bene. Allora io vado… domani partiamo…", diedi un tono vagamente interrogativo alla ultime parole.
"Sì… per Kyoto… vengo a prenderti… ma dove?"
"Veramente pensavo di andarci con la compagnia, come sempre…".
Mi resi conto in quel momento che Ken, forse, non aveva la più vaga idea del perché io fossi in partenza. Infatti mi guardò incerto.
"Propriamente cosa vai a fare?"
"Io lavoro in una compagnia teatrale… e abbiamo uno spettacolo a Kyoto…"
"Reciti?", era veramente stupito.
"Sì…"
"Fantastico! Non avevo mai conosciuto un’attrice…"
"Non che io mi ritenga tale… comunque sei proprio strano, sai?"
"Che vuoi dire?"
"Che ti sei preoccupato tanto per me, per il mio torneo e… e non sai nemmeno cosa faccio nella vita…"
"Spero di avere il tempo di sapere la tua storia…".
Ecco.
In un momento del genere, in cui in fondo si stava giocando e scherzando come bambini, Ken riuscì a dire una frase come quella, bellissima, calda.
"Anche io", riuscivo a dire quello che sentivo, non discorsi molto articolati, ma la verità.
"Ma possiamo andare insieme… basta che tu dica che raggiungi da sola gli altri…", propose.
"Mm… -ci pensai un momento- per me va bene, ma… ma tu non hai allenamenti in questi giorni?", chiesi.
"Sono stato sospeso"
"Ah! –esclamai sorpresa- Perché?"
"Perché sono lavativo… e probabilmente perché ho pestato Kojiro…".
Già. Ieri si erano presi a pugni, quei due…
"Mi dispiace", dissi.
Mi sentivo responsabile, in qualche modo.
"Non è colpa tua… e poi mi va bene, così posso accompagnarti".
Mi piaceva il modo che aveva di parlarmi, sorridendo appena.
"Allora mi vieni a prendere?", chiesi alzandomi.
"Va bene"
"Alle otto e mezza. Sotto casa di Taro"
"Misaki?", chiese.
"Già. Nemmeno dove vivo, sai!", lo schernii.
"Mi sa che hai ragione… so un po’ troppe poche cose di te…"
"Allora siamo pari", conclusi.
"Aspetta! Ti accompagno!"
"No, grazie… preferisco fare due passi, devo anche passare dal teatro ad avvertire e poi fare la spesa… se lascio Taro senza niente quello è capace di non mangiare altro che tonno fino al mio ritorno… pago e vado"
"Vai e basta…"
"Sì, bravo. Scappo senza pagare: che idea fantastica!"
"Ho già fatto io…"
"Quando?", chiesi incredula.
"Quando sono andato a prendere il tuo biscotto", disse sorridendo soddisfatto.
"Ma dai… mi sento in debito!"
"E su, Takako! Fammi essere cavaliere…"
"Ok. Allora vorrà dire che mi accompagnerai fino all’uscita", gli dissi.
Ero davvero felice… beh… più o meno. Non ero molto sicura di voler essere assolutamente felice, ero così disabituata alla felicità che quasi mi spaventava.
Camminavo saltellando verso il teatro e non mi importava nulla di quello che avrebbero detto Hori o Hiroyuki o Mizuki; non mi importava proprio niente al di fuori di Ken, quella sera.
Quando entrai in casa, Taro era sdraiato sul divano, completamente vestito, che guardava il telegiornale.
"Ciao! Cos’è? Fai il colto, oggi?"
"Ciao… hai fatto tardi stasera…"
"Ero fuori con Ken", gli risposi, un po’ imbarazzata.
"Ken? Stai attenta… almeno a non ferire Kojiro ancora di più…"
"Cosa intendi?", mi sedetti accanto a lui sul divano.
In un attimo si era già sdraiato, come sempre, sulle mie gambe.
"Lo sai benissimo… non credo che tu faccia bene a frequentare Wakashimazu… hanno già litigato abbastanza, non credi? Insomma… credo tu debba qualcosa a Kojiro… non è giusto che tu te la faccia con il suo migliore amico…"
"Taro! Vaffanculo! –lo scostai da me e mi alzai in piedi, fissandolo feroce- Vaffanculo! Io non me la faccio con Ken, chiaro?"
"Ma te la farai presto…".
Mi ammazzarono quelle parole, mi offesero e ferirono fin nella carne.
"Ma Taro… -mi calmai- … che cos’hai?", chiesi.
"Scusami…"
"E smettila di scusarti! Cristo, Taro, sono quindici anni che non fai che scusarti con il mondo! Di cosa ti scusi, di esistere?"
"Forse…".
Mi avvicinai di nuovo a lui e mi sedetti sulle sue ginocchia, abbracciandogli le spalle.
"Ti voglio bene… e mi dispiace… tu hai ragione, per Kojiro, intendo… ma… ma…".
Mi guardava con quegli occhi tristi di chi sente di non avere luogo, né pace.
"Sei innamorata di lui?"
"Io… io questo non lo so, ma… sono tranquilla con lui… sono felice"
"Allora fai quello che vuoi… tutti meritiamo la serenità"
"Già tutti. Anche tu".
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