Capitolo decimo:

RABBIA

Non so se sono, se ero, emotivamente forte o coraggioso. E non mi interessa.

Spinsi la porta con decisione, solo sperando che Takako non fosse lì.

Ecco.

La sola cosa che avrebbe potuto impedirmi di agire sarebbe stata la sua presenza.

Ci avevo pensato quella notte, non molto a lungo, direi il tempo sufficiente a sentire che volevo farlo, o, almeno, provarci.

Quella notte… ore strane, nel buio della stanza asettica del pensionato, avevo pensato molto a lei, al suo bacio che sembrava ancora bruciarmi sul viso annientando ogni mio stupido timore nei confronti dei sentimenti.

Avevo pensato che non volevo perderla e, poi, subito dopo, che non avevo ragione per pretendere la sua presenza, che forse era rimasta accanto a me perché costretta dagli eventi. Poi di nuovo che non aveva senso quello che cercavo di dirmi, che se era rimasta con me era perché lo desiderava, non so come, né in che modo, ma Takako volevo stare lì. Anche se era scappata, alla fine, da sola su quel vagone insicuro e vuoto.

Guardai svelto all’interno della palestra: alcune ragazze seguivano attente un incontro blando, insignificante, di due sfidanti.

La mia mente di maschio percepì lucida il guizzo dei corpi femminili intorno a me, la loro bellezza, le loro attrattive. I sensi no, perché quella carne casuale, non dava desideri, né elettricità.

Takako non c’era. Perfetto.

Ad un angolo del ring, in silenzio, le braccia incrociate sul petto, Shibuya osservava distrattamente le due contendenti attaccarsi senza vigore né grazia.

Strano sport era quello per me, abituato alla compostezza delicata del karatè, la foga potenziale della boxe mi dava un senso di inquietudine.

Ad ogni modo non mi sentii minimamente intimorito dalla mole di Shibuya e, assolutamente a mio agio, lo avvicinai, senza avere nemmeno bene in mente quello che avrei dovuto dire per ottenere ciò che volevo.

"Buongiorno".

Forse esistono esordi migliori.

Shibuya mi squadrò con distacco, sollevando appena un sopracciglio.

"Vorrei… -no, il condizionale non mi stava bene per niente- …voglio parlarle"

"Di che cosa?"

"Lei è l’allenatore di Ailing, vero? –non fece nemmeno un segno di assenso, proseguii- Bene. Vorrei che potesse partecipare al torneo anche se da domani non potrà allenarsi".

In effetti doveva essere un po’ criptico il mio messaggio.

"E io cosa posso fare? Cos’è? La tua ragazza?"

"No", risposi lapidario: non era quello il momento di discutere su quale fosse la mia posizione nei confronti di lei.

"E allora perché ti interessa che partecipi?".

Alle domande sui motivi per cui avessi deciso di agire in quel modo non avevo effettivamente una risposta razionale, immediata.

"Perché lei ci tiene moltissimo. Qual è il problema per lei? Se non si allena qui, ma continua a farlo altrove non dovrebbero essercene…"

"Infatti! Ma quella disgraziata non si allena mai se non qui! Ogni volta che parte, quando torna, si vede chiaramente che non ha mosso un dito…"

"Ma è brava?"

"È arrabbiata. E questa è la dote migliore di un pugile"

"Quindi non è possibile che perda la sua capacità in una sola settimana"

"Sono quasi dieci giorni"

"E se qualcuno la seguisse durante il viaggio?"

"Dal punto di vista atletico?"

"Esatto"

"Beh… allora forse… no. No, no. Se stai pensando che mi fidi di uno come te…"

"Lei conosce il karatè?".

Il bestione si zittì un momento: colpito, evidentemente.

"Beh… in questo ambiente chi non lo conosce? Sfruttiamo molto la preparazione tecnica delle arti marziali, in effetti… ma con questo?"

"Se venisse seguita da un karateka, la farebbe partecipare?"

"Oh… non capisco dove vuoi andare a parare!"

"Lei risponda"

"Beh, sì. In quel caso sì"

"Perfetto. Allora siamo d’accordo".

Per me la discussione sarebbe terminata lì. Non che dessi per scontato che Shibuya sapesse chi fossi o che cosa facessi nella vita, ma mi sembrava di avere raggiunto un accordo e questo mi era sufficiente.

"Ehi, giovane!", mi richiamò subito all’ordine.

"Cosa c’è?"

"Il mio era un discorso puramente teorico… potresti essere un ottimo sportivo, ma io non so nulla di te"

"Vuole una dimostrazione?".

No. Non mi aveva fatto innervosire, a dire il vero non avevo nemmeno molta voglia di battermi con lui, ma se quello era il solo modo, lo avrei accettato.

"Ma cosa stai dicendo?!", gridò.

E dal momento che qualche volta anche io ho dei momenti di genialità, rovistai un attimo nella tasca dei pantaloni e gli tesi il tesserino, non proprio in ottime condizioni, ma completamente esaustivo.

"Cos’è?", mi chiese scettico.

"Secondo lei?".

Lo afferrò con un gesto rapido e scostante: vi puntò lo sguardo. Forse anche quell’idiota iniziava a capire.

"Waka… shimazu…?"

"Sì. Vuole fare la controprova con la patente?", lo sfidai, senza capire che non c’era più bisogno di essere così sostenuto.

"No –mi rispose serio- non ce ne è bisogno… e se mi avessi detto il tuo nome non saremmo arrivati ad avere bisogno che tu mi mostrassi questo", disse indicando il documento che teneva ancora in mano, con attenzione.

"Allora siamo d’accordo?", questa volta decisi di domandarlo.

"Direi di sì… sì, certo. Riportami Ailing in forma tra dieci giorni e potrà partecipare al torneo"

"Non si rimangerà la parola, vero?"

"Fidati".

D’accordo. Mi fidai.

"Allora arrivederci –dissi tendendo la mano per riavere il tesserino- grazie".

Ma non me lo restituì subito.

"Wakashimazu, aspetta… -non credevo che un uomo di quel genere potesse dimostrare imbarazzo, o rispetto, non nei miei confronti almeno- come sta tuo padre?"

"Suppongo bene –risposi secco- comunque… oggi viene Takako?"

"Ailing? Sì, dovrebbe passare, sempre che se ne ricordi e ne abbia voglia…", in fondo, me ne rendevo conto, quell’uomo la conosceva bene, almeno nelle sue caratteristiche più violente e visibili.

"Vorrei vederla combattere… ma non credo mi farebbe assistere…"

"Beh… puoi fermarti lì dietro… è dove facciamo stare gli inviati della federazione… quando si degnano di considerarci… lì vedi senza essere notato, se stai abbastanza attento"

"Ok. Allora mi metto lì… e non dica a Takako che sono passato e cosa abbiamo deciso, vorrei farlo io"

"Va bene. Anzi meglio così… se reagisce male te la vedi tu, almeno!", abbozzò un sorriso.

"Ok. Grazie ancora".

Mi voltai per raggiungere quella specie di paravento leggero dal quale avrei potuto osservarla non visto… non era codardia, solo volevo vederla muoversi con la rabbia di cui aveva parlato Shibuya e, forse, se fossi rimasto a vista, la avrebbe contenuta.

"Perché hai lasciato il karatè?", mi chiese e non potei non bloccarmi per un istante.

"Per il calcio", risposi riprendendo a camminare.

Poi arrivò Takako. Con una furia impertinente entrò nella palestra.

"Ailing!", la chiamò subito Shibuya.

Mi sembrava stupidamente teso, mentre io avevo solo sentito quella sensazione di felicità emozionata nel vederla arrivare. Era forse la prima volta che potevo osservarla con così tanta insistenza senza dovermi giustificare. O imbarazzare.

Era solo una manciata di ore che le avevo detto che per me lei era molto bella. Non ero certo della verità di quella frase, o meglio, nel dirla ne ero convinto, ma non sapevo se fosse realtà o illusione.

Potendo ora guardarla mi resi conto che era davvero la sola verità che avrei potuto dirle.

Takako non aveva certo quella bellezza evidente, sfacciata da cui noi uomini ci lasciamo catturare per la strada, non era eclatante nei gesti né nei vestiti. Anche quel giorno aveva addosso una salopette a righe che la inghiottiva un po’, facendone svanire la femminilità. Eppure era molto bella. Umanamente, semplicemente bella.

Non saprei dire quale fosse la cosa che più amavo di lei: forse i suoi capelli che, pure drittissimi, sfuggivano sempre dispettosi, indipendenti da qualsiasi cosa tentasse di imbrigliarli. O forse i suoi occhi, ma quelli avrei dovuto, e voluto, vederli ancora da vicino per poterli giudicare.

La guardavo avvicinarsi al ring con quei suoi passi traballanti: mi chiesi come potesse boxare una donna del genere.

Sì.

Una donna.

Anche se avevamo ancora la giovinezza dei ragazzi per me lei era una donna. I sentimenti che provavo per lei non avevano più nulla della immaturità ingenua e superficiale con cui avevo voluto bene a Kodachi.

Mi accorsi allora di non conoscere nemmeno la sua età.

Avrebbe potuto avere i miei stessi venticinque anni, ma anche essere molto più adulta. Seppure il corpo fosse quello non cresciuto di una bambina acerba.

"Ailing!", ripeté Shibuya: lei lo ignorava apertamente, incurante.

"Che c’è?", gli chiese senza distogliere lo sguardo dal ring dove due matricole si battevano con un impegno quasi maschile.

"Posso fidarmi a lasciarti mettere i guantoni?".

Non si preoccupò di quella frase: davanti all’allenatore si sfilò la salopette e la gettò nella sacca.

Per un momento rimase con solamente la maglietta bianca, leggerissima, e gli slip addosso, in mezzo alla palestra e davanti ad un uomo. In realtà a due.

Lo ammetto. Non fui insensibile a quella vista: sono pur sempre un uomo…

Fortunatamente per me, si infilò presto i calzoncini da allenamento e probabilmente afferrò i guantoni. Non lo so. Avevo chiuso gli occhi cercando di reprimere l’attrazione fisica nei suoi confronti.

Fino a quel momento, l’ho già spiegato, la vedevo bella, ma la sentivo fisicamente distante, così inespressa nel corpo da non riuscire a sentirla vicina nelle ossa, nella carne.

Invece in quel momento… in quel momento io non stavo desiderando più solamente le sue parole, il suo mondo triste e bellissimo che portava nell’anima.

Desideravo anche il suo corpo.

Razionalmente logico, eppure mi tolse il fiato.

Quando tornai a guardare era sul ring, sola, che parlava con Shibuya. Un po’ mi sentii impuro per quel mio spiarla in silenzio…

"Coatch! Allora? Devo rimanere qui per molto?", disse nervosamente.

"Oh… un attimo… qui non vuole più combattere con te nessuna…"

"Lo sai che è l’ultimo giorno", gli ricordò lei.

"Mpf… non farmici pensare… -Shibuya passò rapidamente in rassegna le altre ragazze presenti, più o meno una decina- va beh, dai… Oota, vieni tu!".

Una ragazza si alzò da una panca.

"No. Non voglio. Io le ho già prese", disse rifiutandosi di affrontare Takako.

"Bene. Allora vengo io".

Salì sul ring una ragazza bruna, dallo sguardo gelido. Era molto meno alta di Takako, ma la sua massa muscolare era visibilmente maggiore.

"Shimamoto… non potete battervi voi due! Lei è un piuma e tu un medio", cercò di spiegare Shibuya.

"Va bene così", accettò Takako.

"Ne sei sicura?"

"Sì"

"Va beh…allora fate come volete…".

Shibuya si accomodò sulla panca con le altre ragazze.

"Ma non rimani lì ad arbitrarle?", chiese qualcuna.

"Arbitrare Ailing e Shimamoto? Voi arbitrereste due iene?".

Evidentemente no, dato che nessuna ebbe più nulla da ridire.

"È un po’ che non ci si incontra, Shimamoto", Takako sembrava tranquilla, quasi addormentata nel corpo, eppure mi sembrava di poter vedere quella sua rabbia di cui mi avevano parlato.

"Già… fanno sempre troppe storie qui…"

"Chi dà il via?".

Si scagliò contro Takako.

"Questo è il via!", gridò.

E se avessi seguito l’impulso immediato della mia mente, mi sarei buttato sul ring per fermarla, perché non ferisse Takako.

Ma non la ferì.

Takako parò il colpo con una velocità, una precisione che, per quanto tecnicamente discutibili, mandarono a vuoto l’attacco dell’altra.

"Hai voglia di giocare?", le gridò la Shimamoto, incattivita e di nuovo le si buttò contro con tutto il suo peso.

Takako non diceva nulla. Continuava schivare i colpi, sembrava quasi che avesse paura di toccare l’avversaria.

"Attacca, cretina! Non ho tempo per i tuoi giochetti!".

Ancora non rispose nulla.

Scivolava dagli attacchi leggera, silenziosa. E solo allora, dopo avere visto il fiato corto dell’altra si decise ad attaccare.

E sembrava una furia davvero.

Non so dire se colpisse a caso, ma certo metteva in quei pugni tutta una forza, una violenza indescrivibili. Davvero indescrivibili a parole: solo guardandola potei capire davvero il rancore che riversava nella lotta.

La ragazza era ormai nell’angolo, incapace di contrattaccare e di parlare e Takako continuava a colpirla. Finché non crollò a terra. Quando la vide cadere sul ring smise di infierire, di colpo. Non la sfiorò nemmeno.

Tornò al lato del quadrato e alzò le corde per tornare giù.

Fu un colpo sordo e violentissimo.

La Shimamoto la colpì così, alle spalle, vile e feroce.

Vidi Takako aggrapparsi alle corde per non cadere, poi voltarsi.

"Perdo sangue? –chiese secca - rispondimi! Perdo sangue?"

"No, no… non perdi sangue", le rispose.

"Bene".

Disse solo questo prima di gettarsi su di lei. E questa volta davvero la ridusse incapace persino di respirare: colpiva davvero alla cieca, con tutte le sue forze. La ragazza cadde di nuovo e questa volta non si alzò così in fretta.

"Ailing, ma che lingua devo parlare con te?", Shibuya le si era parato davanti non appena lei aveva lasciato il ring.

Takako non lo considerò minimamente, si voltò verso la ragazza sorretta da una compagna.

"Shimamoto, impara almeno a scendere dal ring da sola… oppure lascia perdere"

"Io ti ammazzo!", fece l’altra nel tentativo di attaccarla ancora, ma dovette fermarsi per stringersi la spalla.

"Alla prossima"

"Mezzosangue del cazzo!", concluse l’altra prima di lasciarsi cadere su una sedia, dolorante.

Mezzosangue…

La mia mente si dimostrò in grado di elaborare in un attimo tutti i dati, le coincidenze, le frasi.

Mi aspettavo che Takako la finisse, quasi letteralmente direi, invece non reagì. E fece per rivestirsi.

"Ailing, te ne vai?"

"Sì. Questo allenamento è una cazzata. E poi non mi serve a niente…".

Pensavo che avrei assistito ad una scena come quella del giorno precedente, pensavo che Shibuya la colpisse, per punirla del suo menefreghismo e della sua violenza.

Fortunatamente la lasciò stare, almeno fisicamente.

"Se massacri così un medio, dovresti avere ottime possibilità nei piuma… -Takako lo guardò incerta, non capiva cosa volesse dire- e comunque non voglio più vederti così! Non posso punire ogni volta con un pugno le tue intemperanze… anche la tecnica ha il suo peso, Ailing…"

"Non ne dubito… allora ci vediamo tra qualche giorno –concluse- ciao a tutti".

Aspettai che fosse vicina alla porta per alzarmi dal mio osservatorio privilegiato.

"Takako!".

Si voltò, riconobbe la mia voce, ne sono certo.

"Ken", osservò senza inflessione, solo con un’espressione un po’ interrogativa sul viso.

Non avevo nessuna voglia di farle un resoconto di ogni cosa in quel momento: in piedi a un passo dalla palestra, non volevo dirle del mio accordo con Shibuya, né di averla vista combattere.

"Ti va un caffè?"

"The. Un the", rispose.

"Vieni. Sono venuto in macchina".

Già. La macchina. Ci trovammo seduti ad inghiottire strada come la prima volta che ci eravamo incontrati. Erano appena trascorse due settimane. E in quelle due settimane poteva entrarci una vita.

Solo, questa volta ero io a guidare. E lei mi era di fianco.

Guidavo e avevo accanto l’ultima donna che avrei immaginato di vedere lì.

L’ultima donna.

La prima che amai.

 

Capitolo 11

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