Capitolo quarto: PAROLE SULLE ROTAIE Non chiedetemi come. Né perché. Tanto non avrei risposta. Eravamo seduti l’uno di fronte all’altra. Su un treno. Senza parlare. Onestamente non avevo proprio niente da dire. Insomma… avrei avuto solo domande e non potevo farle. Avevo deciso che non potevo farle. “Io torno a casa”. E io la avevo seguita, in silenzio. Senza lasciare la sua mano. Anche ora la stringevo ostinato, come un sottile filo debolissimo che ci teneva uniti su quel vagone, che attutiva il contrasto della nostra distanza. “Grazie”. Fu la seconda volta che mi disse quella parola. Ruppe il silenzio così. Improvvisamente come aveva afferrato la mia mano, come mi aveva chiesto senza domande di andare con lei. “Di niente”. Sentii che tutto il rifiuto che mi aveva vomitato contro si era mescolato a qualcos’altro, ma non avrei saputo dire a che cosa. Disse quel “grazie” con lo stesso tono faticoso con cui si era sempre rivolta a me ed io sentii per la prima volta una nuvola densissima di emozioni confondere la mia anima abituata alla coerenza monotona della logica e del distacco. Mi impazzivano i pensieri, frammenti che rimbalzavano incontrollabili e, costante, quell’incapacità di alzare lo sguardo e chiederle una risposta. Cercavo di arrivare, come sempre, alla soluzione di tutto da solo e insieme mi illudevo di essere lì per proteggerla. Mi sbagliavo. Completamente. Ma era troppo presto per capirlo. Non so perché. La vita è proprio strana… era come se io cercassi disperatamente di annullare quel vetro che, pur permettendomi di vederla, mi separava da lei, e insieme lei facesse di tutto per preservarlo. Non parlava. Muta si ostinava a soffocare quello scompartimento di fumo e sentimenti dolorosi che non potevo afferrare. Non aveva detto se non quel “grazie”. Io ancora non capisco se ci fu logica nel nostro andare via insieme da quel funerale. Senza spiegazioni, né domande. Solo la avevo seguita, tenendo le sue dita secche e gelide tra le mie, avevo camminato accanto a lei per uno spazio che non saprei quantificare, fino alla stazione e poi alla biglietteria e poi fin sul treno e anche ora, ora che il treno correva verso Tokyo, verso il luogo da cui eravamo partiti, tenevo quella mano temendo che si frantumasse davanti ai miei occhi e non avevo il coraggio delle domande. La mia testa chiedeva, gridava… ma era davvero la mia testa? Non ero in grado di districare il nodo delle mie emozioni… razionalmente soffocavo me stesso di fronte al suo dolore e poi avrei voluto soffocare lei di fronte al dolore di Matsuyama… La ragione mi chiedeva violenta di rifiutare una donna capace di prevaricare con il suo male quello di un orfano… ma io la avevo sentita sussurrare quella parola… “papà…”… con un grumo di sofferenza che non poteva essere tutta lì. Di fronte a una morte. Morte. Lo ammetto. Pur nell’incoerenza che sentivo dentro di me in quel momento, io mi domandai quanto è lecito portare il lutto. Lo so. Sono un bastardo. Forse. Ma non riuscivo a non pensare proprio a quello… perché io avrei voluto essere libero di non perdere mai quella ranocchietta spelacchiata di Ailing; avrei voluto poterle dire che la aspettavo il giorno dopo, per un caffè, per sentire le sue parole; avrei voluto poter ridere, scherzare, di fronte a lei. E invece rimanevo muto, schiacciato dalla morte che lei portava, evidente, dentro di sé. Alzai lo sguardo: fissava il paesaggio cambiare indipendente da noi, immobile, la faccia pulita e pallida del giorno precedente. Fissava le immagini schizofreniche. Mi sembrò di vedere tutto il mondo senza colori che le era nell’anima. Forse mi sentii piccolissimo, di fronte a lei, o forse, più probabilmente, fingevo di disprezzare tutto ciò, forte delle mie convinzioni. “Grazie… mi dispiace averti costretto a tornare prima…” “Non mi hai costretto… -non so per quale ragione avevo iniziato quella frase con freddezza: mettiamo le distanze, sembrava dire e mi corressi- sono venuto perché volevo”. Non mi aspettavo nessuna reazione. Nessuna. E invece si girò verso di me, puntandomi quegli occhi indefiniti sul muso, e sorrise. Di quel sorriso che mi sembrava di conoscere da sempre, tanto era calibrato, dovuto. “Guarda che puoi anche non sorridermi come una cretina!”. Sempre meglio… “È il solo modo che conosco… per far capire che… che anche se sono… se sto male, sono contenta”. Mi alzai. Per sedermi accanto e non più di fronte a lei. Appoggiò la testa contro lo schienale, come sfinita, e chiuse gli occhi. “Hikaru è davvero mio fratello… se per caso te lo stavi chiedendo…”. La mente elaborò una risposta tremenda che, non so come, riuscii a trattenere. Forse fu il cuore. “Hai sentito le mie parole, vero?”, continuò. “Sì”, ma ancora non riuscivo a fare domande. “Mm… ma non avrai voglia di sentirmi parlare…”. Sì… anche se non ho il coraggio o la forza di chiedere… tu parla… “Ad ogni modo… naturalmente la bastarda sono io”. Lo disse così. Assoluto. Senza inflessione. La mia mente dovette fermarsi un momento a pensare. A capire. E quando capii, non trovai nulla da dire. Sono davvero sempre stato un incapace… insomma incapace anche di comprendere, indipendentemente da tutto, quello che potevo pensare della Ailing, se mi piacesse, con il suo modo di essere così spigolosa, aspra, con me, o se invece la detestassi. “ …per te è così impensabile che mi abbia colpito in un solo momento?” “No”. Forse ignoravo volutamente quelle mie parole a Kojiro, nella lucidità del giorno negavo quanto di vero e senza filtri razionali porta la notte. Rimasi un incapace, quindi. Non mi venne di stringerla… no. Invece fu proprio quello il mio primo impulso… perché diavolo è così difficile trovare un equilibrio tra l’istinto e la ragione, tra l’emozione e la logica? Perché? Avevo capito perfettamente le sue parole. Non che lasciassero granché spazio all’immaginazione… e poi persino un idiota avrebbe capito: cognomi diversi. Fratellastri. Eppure… eppure se davvero erano fratelli per parte di padre… lei avrebbe dovuto portare lo stesso nome di Matsuyama… ma quella era solo teoria, nulla impediva che avesse quello della madre. Anche abbastanza normale, forse. Insomma… feci rapidamente due più due e il risultato mi sembrò soddisfacente. Come parve giustificare il suo dolore. Lei e Matsuyama erano orfani. Entrambi. Perché cercavo di paragonare la loro sofferenza? La madre di Matsuyama. Quando l’avevo vista avvicinarsi a Ailing, dire quelle parole con un odio indescrivibile, l’avrei colpita con tutte le mie forze. Ma era una donna, una madre e una vedova, in quel momento. “Hai sonno?”. Non capii il perché di quella domanda, sono certo, tutt’ora, che fosse solo un modo per scusarsi di avermi trascinato con lei. “No… non molto…” “Ma hai dormito pochissimo stanotte” “Anche tu… ti sei addormentata, da Misaki?”. Abbassò la testa sollevando solo lo sguardo verso di me, vicinissima e irraggiungibile. Sorrise un po’. “Giuri di non dirglielo? me lo chiese con un tono strano, buffo se si fosse potuto trovare qualcosa di simile in quella situazione; feci un cenno- Per niente…”. Risi piano, sommesso. Anche lei sorrise di un sorriso triste, però. Diversissimo dal solito. Un sorriso vero. Vero perché non aveva paura di mostrare che sorrideva pur nel dolore, che aveva male pur sorridendo, pur non avendo perso la capacità di essere felice. Lo dissi. “Allora sai sorridere anche tu!” “Pensavo la stessa cosa di te… a proposito…”. Si interruppe. Non una semplice pausa, proprio un blocco assoluto della capacità di proseguire. Così a lungo che mi sarei persino dimenticato del fatto che stava per dirmi qualcosa. Cercò l’ennesima sigaretta, ancora con la sola mano libera, trovò il pacchetto, l’accendino. Istintivamente feci per liberare le dita che tenevo da troppe ore. Strinse e mi guardò: sembrava chiedere solo di non essere lasciata sola. Aprii il palmo e vi sparì il suo. Mi arrivava il suo fumo negli occhi, bruciava… ma mai quanto il suo essere vicino a me. Io che ne odiavo anche solo l’odore, non lo sentivo… “A proposito… mi dispiace per avere detto solo cattiverie… su di te… -una fatica incalcolabile, la sua- non che tu mi vada molto a genio… cioè… non lo so nemmeno io perché ti ho aggredito stanotte e poi oggi ti trascino su questo treno con me… forse… forse perché non poteva esserci Taro ad aiutarmi e… e tu eri il solo che pensavo potesse farlo… al posto suo…”. Un surrogato. Ero un semplice, insignificante surrogato. Splendido… Dentro di me si riversò tutta l’ostilità soffocata che sentivo per Misaki e non pensate fosse semplice, stupida gelosia. Davvero non potevo sopportare che tutto fosse solo un colmare il vuoto lasciato da un altro. “Beh, spero di essere servito allo scopo… in fondo altrimenti non avrei avuto proprio nulla da fare a Hokkaido se non ti fossi stato utile in qualche modo… certo, magari potevi chiedere a Kojiro, visto che siete tanto amici”. D’accordo. Non ho filtro. Sarebbe stato meglio non parlare. “Non ti piace Taro, vero?” “Eh?” “Hai capito benissimo. Non ti piace, vero?” “Non è questo… oh, insomma! Scusami per quello che ho detto. Odio essere usato”. E essere secondo, sempre. Ma questo non lo dissi. “Non ti ho usato”. Sperai che proseguisse, ma questa volta non lo fece, non su quell’argomento. “Taro è una bella persona…” “Non lo metto in dubbio…” “E anche Kojiro… sai? il suo viso aveva preso un’espressione felice, come se avesse trovato il sapore di qualcosa di prezioso- Loro sono i migliori amici che potessi trovare… mi lamento tanto della mia vita, ma è stata davvero buona, alla fine, con me… mi ha dato loro…” “Quando hai conosciuto Misaki?” “Quasi quattordici anni fa… a Hokkaido” “E Kojiro?” “Non te lo ha detto? scossi la testa- È stato quando Taro ha giocato nel Meiwa… ma tu non c’eri ancora… e poi io ho vissuto un po’ al paese di Kojiro e così… beh insomma, così siamo diventati amici…” “Ma lui è innamorato di te”. Davvero una testa di cazzo. Come mi uscirono quelle parole? Pensavo che mi avrebbe guardato in silenzio, bravissima nell’evitare risposte a domande non fatte. Pensavo. Invece mi sorprese. “Lo so”. Come poteva rimanere così impassibile? Rispose con un distacco quasi inumano. “Lo so riprese- e mi dispiace… perché se mai lo ammetterà di fronte a me perderemo la nostra amicizia…”. “Non dire puttanate! la aggredii, mi sembravano così insensate quelle parole- Se anche lui te lo dicesse, potreste benissimo continuare a essere amici!” “La puttanata l’hai detta tu… io non sono in grado di rapportarmi con i sentimenti degli altri…” “Ma se vuoi un bene dell’anima a Misaki?” “Lui è davvero semplicemente un amico… è differente…” “Cioè vuoi dire che non sai rapportarti con l’amore? “Perché tu sì?”. Mi zittì. Perché aveva perfettamente ragione. Nonostante avessi ammesso davanti a Kojiro che Ailing mi aveva colpito incomprensibilmente da subito, da quel suo sorriso non dovuto, non riuscivo ad accettare che il cuore fosse felice, come tacitato nei dubbi, pervaso di un colore dolce, ora che ero lì con lei. “Tu vivi a Tokyo?”, mi chiese. Caduto il discorso. Fine. Forse fu meglio così. “Beh… sì. Il Toho mi permette di usare la pensione per gli atleti…” “Già… anche tu sei un calciatore…” “E tu? Vivi ancora dove sta la famiglia di Kojiro?” “No. Sono tornata a Tokyo…”. E a Tokyo eravamo tornati entrambi, in quel momento. Il treno entrò nella stazione e, con la sua fermata, si arrestarono anche le nostre parole. Ailing lasciò di colpo la mia mano, sentii mancanza. Afferrò in fretta il pacchetto di sigarette appoggiato sul sedile accanto a lei e andò svelta verso l’uscita. Saltò a terra. Solo allora si voltò verso di me. Rimasi per un momento a guardare il suo vestito scuro, di dolore, il suo viso pallidissimo che sembrava lottare contro i colori accesi del pomeriggio di inizio estate. Mi piaceva che il vento le scombinasse i capelli scurissimi: la guardai per un po’. Volevo ricordarmi di lei, delle sue gambe storte. Del suo viso. “Wakashimazu… -mi si avvicinò un poco- Ho fame…” “Non ho dubbi”, le risposi pensando al suo stomaco vuoto da più di ventiquattro ore. “Mi accompagni?”, mi chiese come scusandosi, come spaventata dalla sua stessa domanda. Non risposi. Ripresi la sua mano. Mangiava piano, lentissima e a fatica. Ma mangiava. A me sembrava bastare quello. Di nuovo soba. Fumava condensandosi pur nel calore tiepido di giugno. Anch’io mangiai. Senza avere fame, ma senza non averne. Incredibilmente in secondo piano i bisogni meccanici del mio corpo. “Sai che cosa ho voglia di mangiare?”, mi chiese inarcando le sopracciglia, per un attimo parve serena. “Che cosa?”. In un istante il suo sguardo perse quel colore vivo che vi avevo visto… forse solo un’ombra della mia mente. “No… niente… -guardò l’orologio sull’alta parete della stazione- ora devo andare…”. Per un momento la guardai allontanarsi, fissai immobile le sue spalle fragili che diventavano sempre più inafferrabili. “Ailing! gridai con una violenza che quasi mi stupì- Ailing aspetta un attimo!”. Si fermò senza voltarsi, in attesa che io la raggiungessi. Cercai il suo viso e quando lo trovai mi sembrò come di non avere più nulla da dire: la guardavo spaventato… porca miseria! Io stavo guardando con soggezione una donna! Quante volte avevo giurato a me stesso di non farlo mai? E perché proprio allora fu la prima volta? “Che c’è?”. Me lo chiese con un’innocenza insopportabile. “Non prenderti gioco di me, stupida!”. Glielo gridai a muso duro. “So badare a me stessa”. Di nuovo. Ripeté quella frase ancora una volta. Perfetto. Come dire… fine del viaggio, non mi servi più, è stato un piacere e così via… No. Non mi stava bene per niente. “Vuoi sparire?”, le avevo afferrato il polso, sentivo che si sforzava di liberarsi, ma questa volta non le sarebbe stato per niente facile. “Lasciami, bastardo…”, sibilò. Lasciai. Abbassò lo sguardo, rivolta ai suoi piedi piccolissimi inclinati verso l’interno sussurrò: “Grazie”. Perché diavolo doveva sempre riuscire a spiazzarmi? Grazie? Di che cosa? Non stava gridando fino a un attimo prima? Gridando… Ailing non gridò mai, in realtà… penso che urlare le avrebbe potuto persino togliere la forza di vivere… “Tu… -stavo per darle della matta, davvero, eppure mi fermai un attimo perché non volevo seguire quell’ordine logico della mia testa- …quando ti rivedo?”. Spalancò gli occhi con tutto il suo stupore. “Beh… io… va beh, senti, hai detto che stai al Toho… io vengo a trovare Kojiro… qualche volta”. Punto. Fine. Il suo riprendere a camminare diceva “stammi lontano, non invadere oltre il mio mondo di carta”. Fine. Non mi restava che trascinare me stesso al letto del pensionato… ormai casa senza che lo fosse. Unico posto per me. In fondo ero solamente andato ad Hokkaido per la morte del padre di un amico… Solo un viaggio. Solo una presenza dovuta. Tutto e niente. Soprattutto niente se non una manciata di ore gettate via. Gettate. Forse. Capitolo quinto Torna all’indice delle fanfiction |