Capitolo terzo: FRATELLI. O FIGLI. Solo l’acqua. Volevo che l’acqua tiepida entrasse dentro di me fino ad ubriacarmi l’anima e rendermi insensibile. Avevo sentito Taro alzarsi troppo tempo prima per non sentirmi ormai completamente sola. Dopo avere stretto la mia mano gelata per tutte le ore della notte, dopo non avere chiuso occhio pur di donarmi l’effimera serenità del suo contatto, era scivolato via in silenzio. Finsi di dormire per non dover parlare, per non dover credere che, alla fine, quel giorno era davvero arrivato. E non avevo più possibilità di dimenticare. O di fingere di farlo. Taro se ne era andato troppo presto ed io ora ero sola. Sotto la doccia, tentavo di raccontarmi ancora, per l’ultima volta, che non aveva importanza essere a Hokkaido e avere un vestito troppo scuro, da qualche parte, che presto avrei dovuto indossare. Mi mancò l’aria per un momento. E forse avrei potuto lasciarmi cadere su quelle mattonelle fredde, umide per i miei passi. E invece mi aggrappai con tutte le forze al bordo del lavello, stringendolo con queste dita troppo fragili e chiusi gli occhi. “Takako…”. La voce di Kojiro mi sembrò solo un sospiro. “Adesso esco”, mi limitai a dirgli, barricata dietro l’effimera difesa di quella porta che sembrava separarmi da lui, dilatando la nostra distanza. Non rispose. Forse semplicemente non c’era nulla da dire. Ricordai quel giorno lontano. “Dove diavolo credi di andare?”, mi aveva detto. Avrei dovuto avere timore della sua imponenza, avrei dovuto mostrarne, eppure… eppure avevo risposto con quel distacco doloroso dalla vita. Fu quel pensiero a farmi ricordare che con noi c’era anche Wakashimazu. A farmi ricordare le parole della notte. “ ..e sentimi bene… c’è questo bastardo che ha avuto la pensata di provarci con te…”. Mi guardai allo specchio. E mi venne da sputarci, sulla mia immagine riflessa. E forse avrei sputato anche in faccia a Wakashimazu se avessi potuto. Provai un senso di rifiuto totale verso quel ragazzo ostile e insieme non riuscivo a dissociarmi dalla sensazione immediata che mi aveva trasmesso. Non che mi avesse colpita, affatto. Non nel senso in cui chiunque potrebbe intendere. Per me lui era semplicemente un uomo e come tale non mi interessava. Non poteva interessarmi, non lo avrei sopportato. Solo… solo non riuscivo a non pensare che avevo mangiato. Attraverso di lui, o attraverso le sue parole, aveva avuto finalmente un senso nutrire il mio corpo. Non riuscivo a capire se questo mi rendesse insofferente. Odiavo quella sensazione ibrida che sentivo pensando a lui. Per questo e per molte altre ragioni che avevano radici troppo antiche, uscii dal bagno decisa a non parlare. A non considerare reale la sua presenza. Perché, in fondo, cosa c’entrava lui con me? Con noi? Ma avrei imparato presto che non si può scegliere. Non la vita. Kojiro mi guardò entrare in quella piccola cucina accogliente con addosso solo lo yukata. Arrossì. Ed io sorrisi. Istintivamente per quel suo rossore puerile, insensato nei miei confronti. “Hai fame?”, mi chiese distogliendo lo sguardo come se le mie forme aguzze, ostili, potessero davvero imbarazzarlo. Feci un cenno, muta. “Non ha fame”, tradusse per me Wakashimazu. Credo avessi evitato di proposito di accorgermi della sua presenza, in un luogo piccolissimo, la mia razionalità era riuscita ad essere a tal punto presente da non farmi notare il suo sguardo duro sul mio viso, il suo corpo teso senza ragione apparente. Kojiro si voltò verso di lui con una cattiveria falsata da qualcosa che probabilmente non potevo capire. Forse affetto. Forse. Non che in quel momento mi importasse poi molto, né di lui, né di Wakashimazu. Trascinavo i minuti per non dover pensare. “Vado a vestirmi”. Kojiro fece per allontanarsi, come se non riuscisse a sostenere contemporaneamente la presenza mia e di Wakashimazu. Lo fermai afferrando piano lo stesso polso con cui, molto tempo prima, mi aveva scaraventata per terra per impedirmi di fare il più grande errore della mia vita. A volte il viso sembrava ancora farmi male per quello schiaffo. “Scusami”, gli dissi. Sembrerà assurdo o stupido, non lo so, ma sapevo, il mio cuore sapeva, che lui aveva capito tutto quello che c’era in quella frase. Scivolò dalla mia debole stretta. Sorridendo. Mi sedetti. Di fronte lo sguardo tagliente di Wakashimazu. Se era una sfida, non si sarebbe divertito per nulla. Io avevo già smesso di fissarlo. I miei pensieri, in quel momento, non mi lasciavano alcuno spazio. “Hai una sigaretta?”, gli chiesi rompendo un silenzio che non mi pesava semplicemente perché non me ne importava assolutamente niente. “Non fumo”, mi disse e forse avrebbe proseguito se non avessi gridato. “Kojiro? Ho finito le sigarette…”. Spuntò dal paravento a torso nudo: “E allora?”. Perfetto. Si era completamente ripreso. Lo odiai un po’, un po’ lo amai di più. Tornavamo nel nostro schema assurdo di donna noiosa e uomo inattaccabile. “Ne hai?”. Sparì un secondo e la sua risposta arrivò con un pacchetto di Chesterfield stropicciato: curiosai all’interno. “È l’ultima” “Tanto vado a prenderle pausa supponente- cosa vuoi?” “Che domanda è?”, gli chiesi cercando di sorridere di nuovo, ma non ci riuscii e lui uscì davvero. Sola. Taro se ne era andato e ora anche Kojiro e la sola vita accanto a me rimaneva quella di Wakashimazu. Si alzò. Seguivo i suoi movimenti con un’attenzione nervosa. “Tieni. Ti ho già detto quello che penso…”. Guardai sul tavolo. Una ciotola di riso. Mi dispiace, ma in quel momento non potevo davvero mangiare. Nemmeno volendo. Nemmeno per lui. Questo sentivo attraverso il mio corpo e scostai un po’ il cibo. Lui si risedette. Silenzio. Non avevo proprio nulla da dire. E non mi aspettavo che lui parlasse. “Ailing… -sentire il mio cognome mi fece un po’ male, dovetti ascoltarlo- spero tu non abbia creduto a quello che ti ha detto Kojiro questa notte…”. Perfetto. Ritirai tutto quello che avevo detto fino a quel momento riguardo a lui: in quel momento, sentendo le sue parole, mi convinsi che in tutto il mondo non poteva esistere una testa di cazzo che lo superasse. Me ne andai. E davvero volevo semplicemente allontanarmi dalla sua presenza. Mi pesava nella carne e nella testa. Credo che ogni più piccolo nervo del mio corpo dimostrasse il mio rifiuto nei suoi confronti eppure Wakashimazu mi trattenne nello stesso modo in cui, pochi minuti prima, io avevo fermato Kojiro. Una stretta debole, gentile in fondo. Pur sempre una stretta. Ruppi con violenza quel contatto odioso. “Non provare mai, mai più a toccarmi”, gli dissi, il tono calmo, scandito. Incredibilmente sembrò colpito. O forse fu solo stupore. Non m’importa saperlo. Mi riafferrò il polso, con più forza eppure senza cattiveria e mi avvicinò ai suoi occhi. “E tu non provare più a rivolgerti così a me!”, mi gridò. “Fottiti! Non capisci niente! Non me ne frega un cazzo di te, di quello che dici… in questo momento ho altro a cui pensare, io”. Una cascata. Mi sarei morsa la lingua, ma ormai lo avevo detto. Odiavo perdere il controllo e infatti non mi accadeva mai. O meglio: non mi era accaduto più. Fino a quel momento. Mi fece così male sentire le mie parole rimbombare nel mutismo di Wakashimazu che nemmeno mi accorsi, mentre cercavo di andarmene, che Kojiro era davanti a me. Sbattei il muso contro il suo torace, sollevai il mento a guardarlo. Possono gli occhi gridare, supplicare? “Che diavolo le hai detto?”. Battei la fronte contro la sua spalla. “Ti ho già detto che posso cavarmela da sola dissi e senza aspettare la sua reazione- vado a vestirmi”. Io volevo solo che finisse tutto. Il resto erano semplicemente dettagli. Credo che quello sia stato il viaggio più doloroso della mia vita. Solo qualche minuto su quell’auto e avremmo raggiunto Taro… Taro che lasciava con la sua assenza un buco nerissimo dentro di me. Guardavo Kojiro guidare, con un’attenzione esasperata, come se tutto il senso fosse in quel gesto. “Tu lo conoscevi?”. Per un secondo mi trovai a sperare che Kojiro non lo massacrasse. Ma non si mosse, vidi tendersi i suoi nervi. Nient’altro. “Abbastanza”, risposi e mi si era mescolato il cervello e sentivo solo il sapore di una vita intera che non ebbe e mai avrebbe avuto un senso. “Ehi… tutto a posto?”. Me lo chiese davvero? Mi dispiace. Non mi era più possibile capire qual era il confine tra la mia realtà e quella che mi circondava senza che io lo avessi chiesto. Non era paura. Forse sofferenza. Fino a che la macchina non si fermò, sentii la vita che sgocciolava lontana da me, dietro la strada che percorrevamo silenziosi. “Siamo arrivati”, ci informò Kojiro, stupidamente, forse solo per dire qualcosa. Non so quanto tempo rimasi a guardare la piccola folla attraverso il vetro: se mi fossi decisa a scendere dall’auto, tutto si sarebbe riversato su di me con una forza che non ero certa di potere contrastare. “Takako… Takako… -guardai Kojiro invitarmi ad uscire- dobbiamo andare…”. Scossi la testa. Vi prego. Lasciatemi qui. Io non ho forze per questo. Kojiro sfilò la testa dall’auto. “Taro! lo sentii chiamare- Vieni qui”. La mia stupida, esile difesa trasparente mi mostrava la figura scura di Taro avvicinarsi mesta, lenta e dolente. “Taka, vieni, ti prego… “. Mi afferrò la mano. Mi è sempre bastato questo per trovare la forza, quella fisica per lo meno. Scivolai verso di lui. Tienimi… Me lo trovai di fronte. Fine della corsa. Fine della folle corsa nella speranza di fuggire. Aveva gli occhi lucidi, gonfi, di chi ancora sapeva piangere con tutta l’anima, con tutto l’odio per la vita che, alla fine, ti frega sempre. E aveva ancora, sempre, lei accanto. Modesta, eppure dolente. Silenziosa, ma vitale, almeno per lui. Un atroce contrasto tra la compostezza di lei e la mia insensatezza in un vestito troppo nero, troppo doloroso. “Takako… sono felice di vederti…”. E gli costarono come non è possibile comprendere quelle parole. “Anch’io… -inspirai cercando di raccogliere le ultime energie nelle parole, perché lui lo meritava, perché anche lui, in quel momento stava sentendo un dolore acutissimo, diverso, ma ugualmente atroce- Hi… Hikaru…”. Mi guardava. Immobile. “Dimmi…” “Mi… mi sei mancato molto…”. Vidi i suoi occhi inondarsi di lacrime. Avrei voluto abbracciarlo, averne la forza. Ma quello che la mente, il cuore chiedevano, il corpo lo rifiutava. “Su, Matsuyama… tua madre vi starà aspettando… ci vediamo tra poco” “Sì” e se ne andò. “Vado… vado anch’io”, mi disse Taro stringendomi le spalle un istante, come ferito dalla sua posizione insostenibile. “Matsuyama”. Si voltò, già abbastanza distante per essere di nuovo altro da me. “Wakashimazu… scusami…” “Condoglianze”, gli disse quell’essere incomprensibile. “Grazie”, sussurrò Hikaru e proseguì verso la camera mortuaria con Yoshiko alle spalle. Rimaneva solamente il dolore, la nausea, la convinzione che non sarei riuscita a muovere un solo passo. Il passato si mescolava al presente. Il dolore dell’immanente acuiva quello di quanto sembrava, di quanto mi ero illusa fosse finito. “Ken, puoi entrare tu con Takako?” “Eh?” “Entra tu con lei, per favore… io…” “Non ce ne è bisogno”, lo interruppi. Mi guardò sorpreso, come se gli sembrasse assurdo che dal mio pallore assoluto potesse ancora provenire la forza per dire anche solo una parola. “Di cosa?”, mi chiese Kojiro. “Che tu vada a fare da deterrente”. Dissi proprio così. Quella parola. Non saprei dire tutt’ora da dove fosse uscita, troppo ragionata per esserlo davvero. “Voglio solo che stiano zitti” “Ma di cosa hai paura? Che mi attacchino? Mi caccino come una cagna in chiesa? Vai, Kojiro. Non ho bisogno di te… vorrei stare sola”. Ma non aspettai che fosse lui ad allontanarsi: barcollando un po’, ma forse era solo il digiuno, tremando nonostante il caldo gentile dell’inizio dell’estate, andai verso la porta. E davvero non mi accorsi che Wakashimazu era dietro di me, mi seguiva senza che io glielo avessi permesso, silenzioso, attento. Incomprensibilmente, pur non sapendo nulla di me, quel ragazzo si stava prendendo cura di una disgraziata quale ero, una disgraziata che rifiutava con tutte le sue forze l’aiuto degli altri, ma che forse ne aveva disperatamente bisogno. Entrai a testa bassa, mi ci volle qualche secondo per riuscire a guardare attorno a me: nessuno si curò del mio ingresso, nessuno, forse, avrebbe capito chi ero. Tranne lei. Quella donna, gelida anche quel giorno, anche di fronte al corpo sfinito di suo marito. Incrociai lo sguardo di Hikaru, poi quello di Taro, infine il suo. Sentii una mano stringere la mia: Kojiro, alla fine, aveva capito che la sola cosa che chiedevo non era di essere difesa dalle parole altrui, ma essere aiutata a non fuggire, essere, in fondo, trattenuta lì. Sfilai le mie dita da quelle di Kojiro. Ti prego continua a essermi accanto. Ma non potevo sperare che un gesto di rifiuto quale fu il mio lasciare la sua mano potesse essere vissuto nel suo esatto opposto. E Kojiro mi lasciò sola mentre mi avvicinavo alla bara. Perché lui continuò invece a starmi vicino? Perché proprio Wakashimazu che non poteva capire, a cui forse sembrava assurdo il mio dolore per quella morte, non mi aveva abbandonata? Lo aveva fatto Taro, per dovere, o rispetto o non so che altra stupida costrizione esterna. Lo aveva fatto Kojiro, incapace di comprendere l’abisso della mia anima, aveva accettato di abbandonarmi. Aspettai che finisse tutto. Le parole. I visi falsamente dolenti. Tutto quello che era dovere, tradizione. Aspettai che iniziasse il commiato ultimo, che la gente iniziasse ad avvicinarsi a loro per dire qualcuna di quelle strafottute frasi di circostanza. Aspettai. E poi mi avvicinai. Mi avvicinavo e qualcuno iniziò a parlare. Di me, probabilmente. Mi avvicinavo e mi sentivo morire un po’ anch’io. Le gambe stropicciate dal male del cuore. Mi avvicinavo e Hikaru continuava ad essere tutto e niente: segno, prova inappellabile della mia vita e insieme simbolo di tutto l’odio che mi era stato sputato in faccia. Sentii lo sguardo della signora Matsuyama su di me, irrevocabile, mi condannava al rogo. A un passo dalla cassa mi fermai: Wakashimazu sbatté leggerissimo contro la mia schiena. “Scusami”, sussurrai. Fu in quel momento. In quell’esatto istante mi resi conto che, in modo apparentemente privo di qualsiasi logica, sentire la sua presenza alle mie spalle mi aveva fatta arrivare fin lì senza cadere o urlare o vomitare. Non avevo tempo, né risorse, per rifiutare quella sensazione ora. La stessa che avevo sentito nell’autogrill. La stessa che contrastava aspramente con il rifiuto nei confronti di lui. “Posso venire con te?”, mi domandò. E lui non aveva cattiveria nelle parole, solo una sorta di muta rassegnazione. “Sì”. No. Non incolpavo Taro per la sua assenza, nonostante la mia mente fosse totalmente inerte quella mattina, il mio cuore sapeva che non avrebbe potuto fare altrimenti. Non incolpavo nemmeno Kojiro. Non tutti abbiamo la forza per sostenere un essere umano altro da noi stessi e Kojiro, benché cercasse disperatamente di mostrare la sua fredda noncuranza, era così: debole, barricato dietro alla sua rocca di ghiaccio. Ed io avevo per lui l’amore che tutt’ora ci lega proprio per questo, perché sapevo che non avrei mai dovuto rifiutare il suo aiuto: nonostante tutto non sarebbe mai stato in grado di darmelo. Dissi “sì” senza chiedermene la ragione. Avevo solo bisogno di non cadere. Quando fui davanti a quel legno scuro, doloroso, strinsi i bordi della bara con tutte le mie forze: chiusi gli occhi per un istante, per cancellare gli sguardi ostinati di chi forse si stava chiedendo chi fossi, perché mi permettevo di avvicinarmi così tanto; per eliminare il sapore della crudeltà con cui la madre di Hikaru mi guardava; per non sentire, anche, gli occhi stessi di Hikaru che mi seguivano e, forse, rivedevano ciò che ero stata. Quando riaprii gli occhi il cammino era finito: stavo guardando il volto inerte di quell’uomo. Pensai solamente che pareva dormire, che, forse, ora aveva smesso di odiare e essere odiato. E così ci ero riuscita: stavo male, il mio corpo rifiutava di seguire i miei sentimenti, ma alla fine ero lì. La realtà rimaneva sfocata, ma non più qualcosa di altro da me. Io non so perché. Non aveva senso. Né logica. Non so perché. Ma afferrai la mano di Wakashimazu prima di dire quella frase. Sentii lui che la stringeva, sentii il suo calore asciutto e sciolse un po’ la mia anima raggomitolata. Lo vidi venirmi accanto: non più un passo dietro di me, silenzioso, come pronto a sostenermi se le ossa mi avessero tradito, ma accanto. Respirai forte l’aria di incenso e la sua vicinanza prima di dirlo. “Ti voglio bene… -raccolsi ogni risorsa, ogni emozione, raccolsi tutto quello che mi era stato negato per una vita, e conclusi- …papà”. La mano di Wakashimazu strinse un po’ più forte. Ma forse fu solo illusione stravolta. Basta. Non avevo più forze. Portami via… senza chiedere nulla, tu portami via… “Vieni…”, disse piano, così piano che forse non avrei potuto sentirlo se non si fosse chinato su di me. Non guardavo, ma sapevo che Wakashimazu stava osservando il mondo per me. E avrei seguito la sua mano, anche se magari solo per qualche passo. Avrei seguito il suo respiro, le sue parole. E invece qualcosa mi bloccò. Fisicamente. “Ora hai detto quello che volevi. Non vogliamo vederti più”. Fissai lo sguardo in quello tremendo della madre di Hikaru: io l’odio non lo ho mai conosciuto dentro di me, mi dispiace, non sono capace di odiare. Ma in quel momento capii cosa significava sentirselo addosso, sputato da qualcuno. Avrei potuto dirle che era stato proprio suo figlio a chiamarmi. Avrei potuto dirle che non avevo bisogno del suo permesso per parlare. Avrei potuto gridare con tutta la rabbia che avevo in corpo. “Non si preoccupi”, risposi semplicemente. E uscii. O, forse, dovrei dire uscimmo. Forse un minuto, ma avrebbe potuto essere un’ora e non sarebbe cambiato nulla, e erano attorno a me: Taro, Kojiro, persino Hikaru. E Wakashimazu. “Lo sapevo che avrebbe detto qualche cazzata!”. Questo fu Kojiro, con la rabbia violenta che era il suo solo modo di dimostrare affetto. “Era prevedibile… devi guardare anche il suo punto di vista”, naturalmente parole di Taro. “Mi dispiace”. Hikaru mi guardava, lo sentivo, ma io avevo gli occhi offuscati dal nulla e sentivo senza poter ascoltare davvero. “Non è colpa tua”, da Taro, fu una risposta ovvia. “Nessuno ha detto questo!” “Kojiro… non era un’accusa nei tuoi confronti…” “Non mi sembra il momento di discutere, comunque… Taka?”. Kojiro chiedeva la mia attenzione. Invano. “Taka, vuoi tornare alla pensione?”, mi chiese Taro. Inutile. Non avrei mai avuto parole per rispondere. “Takako… -Hikaru era vicino, davanti a me sentivo il suo calore- mi… mi dispiace… io volevo che tu ci fossi… e anche lui, ne sono certo…”. Avrei dovuto abbracciarlo forte. Forse lo avrei anche voluto. E invece alzai solo lo sguardo. “Io torno a casa”. Torno a casa. “Sarai sempre la mia sorellina”, mi disse, senza sfiorare il mio corpo nevrotico, per dirmi addio. Torno a casa. Con la mano di Wakashimazu ancora nella mia. Capitolo quarto Torna all’indice delle fanfiction |