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Miele ghiacciato
di Fiore aka Mu

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Capitolo secondo:

EQUILIBRI PRECARI

Dormiva.

Questa è la prima immagine che ho di lei.

Gli occhi chiusi su quel viso pallidissimo, le ciglia lunghissime ombreggiavano un po’ le sue guance scavate.

Credo di essermi incantato per un istante su quel volto, incurante di Kojiro, incurante di Misaki. Forse solo un po’ confuso.

Ailing.

Giocavo in silenzio con il suo cognome.

Quando mi trovai per la prima volta di fronte a lei, credo di avere visto i colori della gioia. Per un attimo, il tempo sufficiente perché si rendesse conto di avere regalato uno dei suoi pochi sorrisi sinceri alla persona sbagliata.

Mi superò quasi con rabbia e così ebbi l’occasione di osservarla, non visto. Fu la prima volta.

Come se la sensazione trasmessami da Ailing fosse di timore infastidito verso qualsiasi cosa invadesse il suo mondo.

E chi più di me aveva violato il suo equilibrio di carta di riso?

La osservavo di spalle, piccolissima tra le braccia di Misaki. Io non so precisamente dire perché, ma mi sentii come seccato per quel loro contatto: il freddo penetrante della sua mano nella mia non era ancora svanito e ora, ad un passo da me, era come se emanasse un calore che non mi era concesso.

Certo era una vicinanza sussurrata la loro, come se lei avesse bisogno di mantenere una sottile barriera liquida tra se stessa e Misaki. Ugualmente mi feriva.

Scorrevo con lo sguardo la sua schiena fragile, le vertebre appena percettibili sotto la pelle acquosa che sembrava colpita dal colore troppo cupo della maglietta leggera.

Ecco. Questo valeva la pena. Inspiegabilmente valeva la pena guardare solo questo, in quel momento.

In silenzio, osservavo tra i ciuffi scomposti che mi ricadevano sul viso, difesa apparente, la scena.

Valeva la pena senza avere una motivazione ragionevole.

Le gambe storte, che nemmeno quei pantaloni di lino fresco riuscivano a nascondere.

C’era qualcosa di bello in quell’assoluta imperfezione.

Il viso pulito, freddo, che ora non potevo più vedere, nascosto nella spalla di Misaki.

Valeva la pena. Perché?

Le sue mani appoggiate come per errore sul corpo di Misaki. Mani anche belle nella forma, piccole, proporzionate.

Graziose. E morte. Non riuscivo a eliminare quella sensazione da me. Troppo fredde, asciutte per essere vive.

Ailing Takako.

La seconda cosa che mi disse. La prima effettivamente rivolta a me. Solo a me.

Ed io davvero volevo vederla mangiare quella donna da niente, in quell’autogrill che aveva l’odore dei viaggi, del dolore e della gioia, io volevo vederla inghiottire qualcosa. E naturalmente non riuscii a trasmetterle una sensazione positiva.

 

“Dovresti mangiare. Se dimagrisci ancora farai impressione”.

 

Io credo tutt’ora che qualunque persona si sarebbe sentita ferita, umiliata da queste parole e invece… invece lei mangiò.

In silenzio.

Forse mi sentii felice. Non lo so. Non ero capace di avere emozioni o, perlomeno, non sapevo comprenderle.

 

“Grazie”.

Le parole sembravano costarle un dolore impossibile quando parlava con me, ma forse era solo perché avevo distrutto il suo equilibrio incerto e faticoso.

“Grazie” e poi più nulla.

Si addormentò, dicevo, e la guardai in silenzio, temendo che Misaki, che persino Kojiro, se ne potessero accorgere. E, anche se non avevo la forza di ammetterlo nemmeno a me stesso, sentivo i miei nervi pulsare infastiditi per la sua figura abbandonata contro Misaki.

Per noi proseguiva la strada, proseguivano le parole, la musica, i pensieri.

Mi trovavo lì assolutamente per caso, incurante della ragione per cui noi quattro stavamo andando proprio a Hokkaido, disinteressato a ciò che ci attendeva, come sempre presente solo per dovere.

 

“Andiamo noi in rappresentanza del Toho”.

Ed io Kojiro, in realtà, lo avrei ucciso quando mi disse quelle parole. Lo avrei ucciso e invece tacqui e preparai una borsa con un vestito idiota, stupidamente elegante.

Puramente casuale.

Puramente casuale il mio essere a un passo da Ailing.

I discorsi di Kojiro e Misaki mi arrivavano ovattati, filtrati dai miei pensieri. Solo bocconi di parole.

“Credi che crollerà?”, chiese Kojiro.

“Lei non piange mai, lo sai -rispose Taro- sono quattordici anni e non ho mai visto una lacrima”.

Parlavano di lei. Mi sentii insofferente a quelle parole, ogni riferimento a qualcosa che non avevo conosciuto faceva male, ma quel male impastato e incomprensibile per quello che ero allora.

“Se solo le si avvicinano dovranno farsi ricostruire la faccia”, il tono del mio amico, della Tigre, di solito così freddo, mi rivelò una rabbia, una preoccupazione che non potevo capire.

“Se solo le si avvicinano la porteremo via”, si limitò a ribattere Misaki.

Manteneva uno strano distacco nei confronti della realtà, come se volesse fuggirla o ignorarla. Semplicemente, tristemente attento solo a non turbare l’equilibrio degli altri con le sue parole o la sua presenza, alla ricerca di una pace relazionale effimera e falsa.

Forse non ero il più adatto a giudicare, forse nessuno può permettersi davvero il giudizio verso un altro essere umano, ma pur tra i miei difetti di bamboccio cresciuto, la mia boria che mi faceva illudere di essere inattaccabile, io non ero falso.

Spesso incazzato senza ragione o scostante, menefreghista anche, ma non ipocritamente pacato, stupidamente saggio.

 

Iniziammo a salire. E il mondo cambiava ai miei occhi, mentre l’anima rimaneva semplicemente immobile, torturandosi sugli stessi pensieri.

Mi mancava mio padre. Moltissimo. E non riuscivo a non dare colpe a Kodachi.

Kodachi.

Che tanto poi se ne era andata ugualmente, ormai troppi anni prima, lasciandomi solo. O forse ero stato solo proprio quando lei mi era vicina.

Kodachi era molto bella. Probabilmente lo è ancora oggi, ma io non ho mai cercato di rincontrarla, non ne ho mai avuto bisogno. Era bella, quasi inumana nella sua apparenza costruita, calcolata, di plastica. Cercavo di disegnare nella mente la sua immagine e mi si sovrapponeva quella imprecisa, vicinissima, umana di Ailing.

 

“L’appartamento dovrebbe essere attaccato alla piazza del Tempio”.

Misaki appoggiò piano la testa di lei sul sedile e si sporse verso di me.

“Mi passi la cartina?”.

Rovistai un po’ nel portaoggetti davanti a me: patacchino. Associai immediatamente a Misaki quella parola usata da Kojiro e un po’ mi diede fastidio la mia incapacità di accettare, apprezzare un uomo come lui. Assolutamente perfetto. Perfettamente insopportabile.

In effetti persi molto tempo in quelle brevissime ore di convivenza nel tentativo di accettare pienamente, positivamente la sua presenza.

Non ho mai avuto quella capacità di valutare le persone al primo impatto, come se il semplice contatto visivo permettesse di vedere l’impercettibilmente piccolo della loro anima. Misaki era per me una presenza fastidiosa perché non riuscivo a fidarmi di lui. Una ragione molto concreta, direi.

 

Quando Kojiro fermò la macchina, per un istante, rimanemmo tutti in silenzio e Misaki osservò incerto il viso tranquillo di Ailing.

Forse si chiese se svegliarla. Forse. Perché ugualmente non gliene diedi il tempo.

Scesi dall’auto, alzai il sedile.

“Falla scivolare verso di me” e la presi in braccio, quasi timoroso di poterla rompere.

Vidi Kojiro sorridere in quel suo modo insopportabile, presuntuoso e ebbi l’istinto di lasciarla cadere. Ma si sarebbe frantumata. Era come se vedessi nitida l’immagine di quel corpo disfarsi sull’asfalto. In mille pezzettini dolcissimi e acuminati.

Istintivamente la strinsi un po’ di più a me: anche nel sonno sembrava incapace di accettare quel contatto, come si tenesse volontariamente separata da me da quella membrana liquida.

“Ce la fai?”.

Mi sembrò una domanda così stupida, questa di Misaki: chiunque la avrebbe sollevata senza sforzo, ma forse il mio viso, che allora credevo capace di essere completamente inespressivo, trasmetteva qualcosa.

Seguii Misaki che chiedeva le chiavi, senza ascoltare le parole gentili che rivolgeva al locatore. Kojiro era in silenzio da troppo tempo.

Per la prima volta avvertii un senso sussurrato di inadeguatezza.

Stringevo in fondo tra le braccia una perfetta sconosciuta, di cui sapevo solo il suo cognome divertente, e non avrei mai lasciato la presa. Dovetti arrendermi di fronte ad un futon disteso davanti ai miei occhi.

“Mettila qui”, disse Taro.

Eseguii. Punto. Semplicemente appoggiai piano Ailing e raggiunsi Misaki.

 

“Dov’è Kojiro?”, chiesi subito.

“A dormire”.

Ripercorsi la struttura di quel piccolo appartamento nella mente.

“The?”.

“Grazie”, risposi.

Avevo appoggiato Ailing nella prima stanza, poi un leggero paravento e questo angolo dove avevo appena accettato un the senza nemmeno chiedermi se davvero mi andasse.

Dov’era Kojiro? Dormiva con lei.

“Io e te dormiremo nella seconda ala, ti spiace?”.

 

Io odiavo Misaki. I suoi modi perfetti, assolutamente gentili, quasi riverenti. E allora perché in quel momento non gli diedi un pugno? In un’altra occasione lo avrei fatto.

Lo avrei colpito gridando che non me ne fregava uno strafottuto niente delle persone con cui dormivo, che avevo sonno e basta.

Pensieri e bisogni elementari. Io sono sempre stato vincolato solo a questo.

Non lo colpii. Né dissi nulla. In cambio una mano tesa, una ciotola sbeccata fumante di the verde.

 

“Allora?”

“Allora che?”.

Non capivo la vera ragione di quella domanda e sentivo il mio nervosismo crescere senza motivo apparente.

“Vorrei che tu e Kojiro non vi allontanaste mai da Takako”, disse piano, ferito.

Takako.

Ailing Takako.

Continuavo a ripetermi quel nome, imbambolato, forse divertito.

“Perché?”

“Perché io non posso farlo”

“Perché?”, il mio tono diventava un lamento ironico.

Continuiamo questo gioco cretino, pensai.

“Perché è una posizione del cazzo la mia!”.

Gridò soffocato dal buio e per un soffio non ne fui così stupito da lasciare cadere quello che avevo in mano.

Per la prima volta avevo di fronte un uomo, ferito, un’implosione sorda di dolore. E quell’uomo era Misaki. Misaki.

Lo stesso ragazzo che nel mio stupido immaginario di stereotipi sorrideva sempre, sereno. E che ora era vivo, di quella vitalità straziante di cui pochi individui sono capaci, perché credo che la possibilità di toccare l’assoluto delle proprie emozioni non sia per tutti.

Stupidamente sorpreso non ebbi nulla da dire. Nulla. Non capivo nulla e in realtà era solo ostilità verso questi tre compagni di viaggio forzati che sembravano volermi tenere lontano dalla loro esistenza, ma non riuscivano a farlo.

Abbassai lo sguardo, in un nulla insensato e ottuso. Immaturo e insensibile. Credo che chiunque vedesse in me solo quello, allora.

“Scusami”.

Ecco. Era tornato il crogiolo di apparenze di sempre.

“Scusami… non volevo essere così impulsivo… vado a dormire”.

Mi lasciò così, nella sua aura di moderazione, senza darmi tempo di dire una sola parola, ma già non mi importava più farlo. Già era stata riportata quella realtà distorta in cui lui era solamente buono ed io fondamentalmente uno stronzo.

 

“Ma che fai ancora in piedi?!”.

Quanto tempo era passato? Il the raffreddato nella tazza, i pensieri impazziti improvvisamente bloccati dalle parole di Kojiro.

“Evidentemente non ho sonno…”.

Risposi con una rabbia che davvero non compresi nemmeno io. Guardai Kojiro. Scombinato dal sonno, mi guardava intontito.

 

Il mio migliore amico.

Indipendentemente da tutto. Davvero da tutto, la vita me lo ha dimostrato.

Si sedette in silenzio di fronte a me, esattamente dove prima, non so quanti minuti, o ore, era Misaki.

Mi guardava con quegli occhi nerissimi che mi misero in uno stato di illogica soggezione, come se l’immagine di lui, capitano aspro, pretenzioso, quasi avesse davanti solo incapaci, si sovrapponesse in quel momento a quella dell’amico.

Quell’amico che quando Kodachi se ne era andata aveva avuto la forza e il coraggio di dirmi la verità.

Quell’amico che nell’apparente incuranza, coglieva la mia insofferenza, quello stato che cercavo di nascondere con tutte le mie forze.

In fondo anche lui era un vetro di apparenze. Come Misaki.

 

“Si può sapere che diavolo hai?”.

È strana l’amicizia tra uomini. Davvero strana. Un’unione casuale di parole, gesti, sentimenti che richiedono troppo spesso innumerevoli energie. Eppure quella notte, in modo assolutamente privo di senso logico, nonostante la stanchezza, io trovai quelle energie.

“Non lo so…”

“Cosa vuol dire che non lo sai? Fammi capire: ti sei rimbambito del tutto? È da quando sei salito in macchina che sei un fascio di nervi e da quando sei entrato qui non hai detto una parola!”

“Guarda che quello che si è chiuso in un mutismo assoluto sei stato tu”

“Non è che stiamo andando a fare una scampagnata… mi permetti di avere qualche momento di assenza?”.

Ci guardavamo in viso con un’ostinazione tutta maschile, come se quella fosse una sfida. Stupida forse, ma non era facile per nessuno dei due parlare di qualcosa che probabilmente era confuso e impastato persino nella nostra mente. O nella nostra anima…

“Mi hai lasciato come un cretino con Misaki… e poi mi spieghi perché se lui è il suo fottuto amico, ci dormi tu?”.

Non so se davvero avrei voluto attaccare Kojiro a quel modo. Incapace di pensare prima di agire, non avevo la capacità di mediare le parole: ero disperatamente costretto a scegliere. Tra il silenzio, totale, e le parole, esattamente come venivano alle labbra.

“Non dormi perché io sono nella stessa stanza di Takako? Vuoi dirmi che volevi provarci con lei proprio questa notte?”.

 

Me ne resi conto solo quando vidi il sangue di Kojiro scendergli sul viso. Se aveva gridato non lo avevo sentito, se per raggiungerlo mi erano occorsi molti secondi, non li avevo vissuti.

Ma guardandolo ora sapevo che il mio pugno, forse la sola cosa in cui potessi dirmi più forte di lui, gli era arrivato violentissimo, totalmente istintivo.

Si portò una mano alla bocca e, sfregatala malamente sulla pelle, osservò il suo sangue sul palmo.

Forse avrei voluto scusarmi o dire qualcosa, qualsiasi cosa purché giustificasse quel gesto. Ma ero già con le spalle contro la parete.

Non mi sarebbe stato difficile allontanarlo da me, facendogli del male, se necessario, ma per una strana ragione ero certo che avrei incassato qualsiasi colpo senza ribattere.

Non era per volontà di ricevere quanto dato. Era una sorta di insopprimibile apatia di cui non riuscivo a liberarmi.

 

“Credo che adesso possiate smettere”.

Non si gettò a separarci, come avrebbe fatto qualsiasi ragazza.

Non gridò isterica vedendoci come due gatti di strada fissarci con violenza, l’uno stretto all’altro.

E Kojiro mi sbatté contro il muro distrattamente: mi schioccarono i denti mentre lui si era già voltato verso Ailing.

“Devi cercare di dormire…”, le disse e benché non fosse un tono dolce, né gentile, né preoccupato, vi sentii un affetto cristallino e pulito.

Kojiro voleva davvero bene a quella ragazza che ci era di fronte, ancora nei vestiti in cui era quando l’avevo lasciata sul futon, uno sguardo attento che si perdeva in qualcosa di immenso.

“Vado da Taro disse lei, sempre con quel tono trascinato, affaticato- magari riesco ad addormentarmi…”

“Mi ha fatto rimanere con te perché…”

“Perché lui domani uscirà prima di noi”, concluse lei per Kojiro.

“Già”.

C’era una linea spezzata di tristezza nelle parole di Kojiro.

Tutti loro, me ne resi conto con lucidità solo in quel momento, erano legati da un sottilissimo filo nero di malinconia e dolore. Misaki, Ailing e Kojiro stesso sembravano schiacciati da qualcosa di inesprimibile, sopportabile solo perché erano insieme. Tutti e tre. In equilibri precari che si intrecciavano mescolando quei due uomini e quella donna.

Kojiro aveva per lei un affetto protettivo e insieme era come se si sapesse incapace di difenderla completamente.

Per questo c’era Misaki.

“Vorrei andarci ugualmente”, gli disse.

“D’accordo… e sentimi bene Ailing non si mosse eppure mi parve che tutto il suo corpo di ragnetto si tendesse verso di lui- c’è questo bastardo che ha avuto la pensata di provarci con te…”, concluse, gettandomi uno sguardo che non aveva senso per quanto profondamente vi era impresso l’odio.

“So badare a me”, disse lei, già camminando piano, silenziosa, verso la stanza di Misaki.

 

Mi scostai finalmente dal muro, per raggiungere Kojiro: era già disteso sul futon.

Rimasi in piedi sull’uscio.

“Sei davvero un gran figlio di puttana non gridavo, né avevo un tono violento- per te è così impensabile che mi abbia colpito in un solo momento?”.

Kojiro si portò le mani dietro la nuca, lento, guardava il soffitto nella penombra.

“No”, disse.

E mi lasciò muto quella risposta.

“Ugualmente non pensare nemmeno lontanamente di avvicinarti a lei”.

Fu l’ultima frase di quella notte. Rimasi di nuovo solo e alla fine i pensieri incostanti che mi rimbalzavano impazziti nella mente furono vinti dalla stanchezza.

Mi addormentai anch’io, al fine, e rimase solo un’eco, di un pensiero forse stupido, ma lucidissimo.

Kojiro era innamorato di lei.

 

Capitolo terzo

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