La vita nelle baracche

Intervista alla signora Maria

Le prime abitazioni di fortuna nel quartiere Colosseo

di Ilaria Burmo

Quando la signora Maria mi racconta di come trascorreva le giornate nella baracca che le venne data dopo la guerra, sono rimasta un po’ incredula alle sue parole. Oggi ha 89 anni; nel ’44 era mamma di un bambino di un anno. “In quegli orribili anni persi molte persone a me care: mio padre, mia sorella, mio nonno. E’ stato terribile. La guerre dell’ Iraq mi ricorda quella che ci fu qui allora. Quando dal telegiornale trasmettono quelle immagini rabbrividisco e penso alle sofferenze mie e della mia famiglia, con mio figlio piccolo. ”

Dopo il rientro a Cassino, come trascorrevi le tue giornate?

“Dopo il ’44 mi assegnarono una baracca dove trascorrevo gran parte della giornata con Orazio, il mio bambino. Mio marito era stato deportato in Germania. Io mi occupavo delle faccende di “casa” e di tanto in tanto uscivo per fare una misera spesa. Qualche volta, poi, insieme a mia cognata, andavo al mercato a vendere qualcosa, sinceramente non mi ricordo bene cosa.”

Ti ricordi com’era la baracca dove vivevi?

“Le baracche a Cassino nel rione Colosseo erano disposte tutte a schiera. Ricordo che, all’inizio, alcune erano di compensato; successivamente, per costruirle, utilizzarono interamente legno più massiccio e le coprirono con l’eternit. Era una stanza per ogni famiglia, un monolocale dove erano situati un letto e una “fornacella”: faceva da cucina e da camera da letto.”

E i servizi igienici?

“Non esistevano toilette lussuose come quelle di oggi. Per meglio dire: non esistevano proprio nelle baracche. I gabinetti erano esterni de erano comuni a tutti gli abitanti delle baracche vicine, quindi non erano molto igienici.”

Come erano fatti i letti?

“Allora i letti non avevano un materasso vero e proprio: all’inizio si dormiva sulle tavole, poi si passò al materasso di paglia. Vidi i veri materassi per la prima volta quando andammo a vivere nelle case popolari.”

In che modo arredasti la baracca? E come la arredavano gli altri vicini?

“Quasi nessuno aveva la possibilità di arredare la casa come si fa adesso. Il Comune dava solo il monolocale: a noi il compito di arredarlo. Di solito si usava arredare con mobili usati che si compravano un poco alla volta. Io ricordo che in quegli anni conobbi delle persone che portavano tavoli di vimini da paesi vicini. Andavo da loro di tanto in tanto e compravo qualcosa per la baracca. Ormai eravamo diventati amici.” E l’elettricità c’era? “No. Per cucinare si usava il carbone(all’interno del locale) nelle “fornacelle”. Durante tutti gli anni trascorsi nelle baracche non c’è mai stata luce, né riscaldamento. Non c’era neanche l’acqua. Infatti, noi donne l’andavamo a prendere alle fontane o nei pozzi. La situazione non era delle migliori.”

Com’era il rapporto con i vicini?

“Andavo d’accordo con tutti i vicini, tanto che ancora oggi ci incontriamo e, parlando, ricordiamo quei tempi difficili. Allora scambiavamo qualche chiacchiera. Parlavamo di quello che succedeva in città o di fatti particolarmente curiosi. Intanto, i nostri figli giocavano in cortile.” Con cosa giocavano i bambini? “Non avevano giocattoli come quelli di oggi. Ogni volta inventavano nuovi giochi. Di solito giocavano a nascondino, a campana, con le trottole di legno…”

Dove andaste a vivere dopo le baracche?

“Mio marito era ormai tornato dalla Germania da tanto tempo. Dopo molto tempo trascorso nelle baracche, un’associazione americana iniziò a costruire le case popolari. Venimmo trasferiti lì: la nostra condizione finalmente cambiò.”

 Cosa pensi della guerra di allora?

“Credo sia stato il momento più drammatico della mia vita. Spero per voi ragazzi che non ci siano più guerre. E’ stata, la nostra, un’esperienza che non auguro a nessuno.”

 

Amelia Montuori racconta

La nostra prima casa: una “stalluccia” di fortuna recuperata a San Pasquale

 

di Cecilia Di Vincenzo Lorenzo Caporusso Francesco Ferrara Marco Iorio

Amelia Montuori è un’anziana signora di 79 anni, bassina, i capelli neri ed occhi che sprizzano intelligenza; Vedova da più di 20 anni di un imbianchino, sei figli, undici nipoti, un pronipote, ha vissuto la guerra in prima persona, ci ha raccontato la vita nelle baracche e anche qualche episodio che più di tutti le è rimasto nella mente. Un sabato pomeriggio siamo andati a casa della nostra testimone per intervistarla. La signora abita in un appartamento popolare al Colosseo, cui si arriva dopo aver attraversato una piazzetta dove una volta sorgevano le famose baracche. Siamo accolti con squisita gentilezza nella sua casa, molto ordinata. Inizia raccontandoci del suo matrimonio. Ha 19 anni quando sposa Augusto D’Affinito. I matrimoni di allora, come si può ben immaginare, sono semplici. Non ci sono abiti veri e propri da sposa: una semplice veste per le più fortunate, ma per la maggior parte c’è quella prestata da parenti o conoscenti. La signora Amelia, infatti, si sposa con un abito blu prestatole da una cugina. Dopo le nozze, si trasferiscono per alcuni mesi a Roma dove raggiungono i genitori del marito sfollati nella capitale. A Cassino intanto, pur tra difficoltà riprende la ricostruzione e Augusto ritorna: per un imbianchino il lavoro non dovrebbe mancare. “Ci adattiamo così a vivere in una “stalluccia” in contrada San Pasquale - ci dice l’anziana signora -. Da qui dopo qualche tempo ci trasferiamo in una baracca al Colosseo assegnataci dal Comune”. Ed ecco un altro problema “all’orizzonte”: vivere senza niente, né sicurezza economica né una dimora decente. Le baracche sono di legno, con la copertura in eternit; ciascuna è costituita da un solo locale. Non c’è corrente elettrica, l’acqua e i bagni si trovano all’esterno. E qui ora l’immaginazione non basta a capire i disagi e le difficoltà. Persone costrette a far la fila per i “bisogni” e per lavarsi. Bisogna abituarsi a convivere costantemente con topi, mosche ed insetti vari che “rubano” il cibo agli inquilini. Le giornate nelle baracche sono abbastanza movimentate pur nella loro monotonia. I giorni trascorrono tra difficoltà ma con la speranza di un futuro migliore. Si parla con i vicini delle disgrazie passate e di quelle frequenti che si verificano a parenti, amici, conoscenti. I bambini giocano contenti anche se non hanno giocattoli veri: si arrangiano con quello che trovano. Il risparmio è la regola: il denaro scarseggia, i mariti non hanno un lavoro continuo. Nemmeno le ricorrenze vengono festeggiate: solo le più importanti (Natale, Pasqua, l’Assunta) ma con molta modestia. Un episodio che la Signora ricorda con tenerezza è quando ha battezzato una bambina di pochi mesi, nel 1952, in una chiesetta adiacente all’attuale chiesa di San Pietro. Insomma, la vita non è facile a quei tempi, ma le uniche persone a saperlo davvero sono quelle che l’hanno vissuta. Oggi i problemi della Montuori sono delle lievi crepe in una parete della casa ben tenuta e tinteggiata con gusto. Ma è davvero nulla rispetto a ciò che ha dovuto patire negli anni bui, che noi intravediamo nei suoi occhi e cogliamo dalle sue parole.

Nelle foto la signora Maria nel1938, barbieri all’opera fra le macerie della città  e la sig.ra Amelia Montuori

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