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Bisogno di politica


di Sergio Zavoli

17-04-04


Rimango di una mia vecchia opinione: che non c'è mai tanto bisogno di politica come quando essa stessa sembra autorizzarci a voltarle le spalle. D'altronde, se un parlamentare non lo credesse, finirebbe per essere quell'influente personaggio pubblico cui Cechov assegna un ruolo solo virtuale, descrivendolo totalmente privo di realismo, anzitutto, politico. Eppure vado scoprendo che esiste una virtualità addirittura strumentale, cioè messa al servizio di un progetto - il Senato regionale - la cui natura politica è a tal punto manomessa e banalizzata da dover suscitare un allarme civile di singolare rilevanza. Ma, a questo proposito, mi domando che cosa stia percependo il Paese delle forme e della sostanza del nuovo disegno legislativo in una materia costituzionale di grande e delicato profilo.
È un ulteriore motivo, come ho già detto, per convincersi che si debba fare politica al di là di ciò che essa, di tanto in tanto, produce.
Forse perché sono poco incline alle ingegnerie politiche - e alle loro liturgie, specie di carattere, diciamo, combinatorio - ho dedicato maggiore attenzione, fin qui, al clima nel quale, sotto una delle pietre angolari della Costituzione repubblicana, si stanno piantando le leve con cui scardinarla e rimuoverla. Per sostituirla, certo, ma con un'altra che, temo, non sarà egualmente solida, anche se ragionevolmente perfettibile. È un'ingenuità, lo confesso, e può sembrare solo retorica, ma come non domandarsi se smantellare in senso - come si dice - “federalista” la funzione del Senato, secondo il progetto della maggioranza, significa “unire di più”? Tale, infatti, è il valore semantico, politico e storico di “federare”. Oppure, da parte dell'esiguo gruppo di neo-costituenti - e da chi proclama di volerli seguire - si è deciso che debba voler dire, invece, “dividere”?
Nessuno potrà negare che la scelta di una diversa natura del Senato, che si vuole non più nazionale (e perciò unitario), ma avviato ad assumere un carattere regionale, rappresenti una decisione d'importanza storica per la vita democratica della Nazione. È l'abbandono - per giunta enfatizzato dalla pretesa dell'ineluttabilità - di un dettato tra quelli di maggior importanza lasciatici dai “padri costituenti”.
Tuttavia poiché non ho neppure l'abitudine a vivere con l'animo voltato indietro, credo anche che un popolo e una società, una nazione e uno Stato debbano guardare con rigorosa fondatezza a ciò che il presente mette in causa e, secondo alcuni, condanna; dedicando, cioè, a una questione politica e istituzionale di tanto rilievo un dibattito ben più laborioso, severo e coinvolgente.
In Senato - e per carità di patria voglio giudicarla una delle tante voci che hanno accompagnato un dibattito frettoloso, reso addirittura concitato dalla necessità di far presto comunque - non ci si è nascosto che questa riforma cade in un momento di evidente e comprensibile tensione all'interno della maggioranza; e dunque, si aggiunge, occorrerebbe evitare di compromettere ulteriormente la residua compattezza di una coalizione minacciata da chi era ed è risoluto a mettere alla prova la volontà di rispettare impegni presi quando le scadenze erano ancora lontane - anche la politica ha, come sappiamo, le sue cambiali - e la pressione sul governo non era ancora, come oggi, al massimo grado.
Va da sé che alla vigilia di elezioni da cui ci si aspetta che molti nodi vengano al pettine può nascere la tentazione di chiudere formalmente la partita, magari per prender tempo e lasciare impregiudicato il risultato finale. Questa ipotesi, improponibile per decenza politica, basterebbe a giustificare il sospetto, nel Paese, di un ennesimo, inconfessabile compromesso. Con quale risultato? Di offrire al Paese - noi stessi, noi tutti - il diritto di non riconoscersi, quanto invece esigerebbe un'autentica democrazia, nella trasparenza dei suoi rappresentanti eletti.
Fatta salva, s'intende, la libertà di agire tenendo conto della delega ricevuta insieme con la legittimazione popolare (e proprio in nome della trasparenza, che implica la nettezza delle distinzioni allo stesso titolo delle convergenze) credo che la minoranza, al termine di questa kermesse, debba affermare con chiarezza, di fronte alla cittadinanza, che un'altra pagina della nostra storia repubblicana si conclude in termini non molto diversi da una liquidazione. E che la minoranza, su questa svendita, per dir così, non è e non sarà mai d'accordo. Non solo nel merito, ma anche perché, ancora una volta in una circostanza eccezionale, è venuta meno la pratica politica del dialogo; con una verifica, in Aula, che non ci obbligasse a richiamare ancora una volta la diagnosi di Tocqueville sul rischio, in democrazia, di una paradossale “tirannide della maggioranza”.
Non mi addentrerò nella filosofia politica, anche se meglio sarebbe rivolgersi alla filosofia etica, come propone l'autorevole costituzionalista Andrea Manzella.
Un altro collega illustre, Nicola Mancino, ci ha ricordato, ieri, che dai banchi del centro-destra è partita, sono certo in un empito oratorio, la frase “Noi non abbiamo fiducia nel Parlamento”. Vale a dire “Lasciateci fare, lavoriamo per voi”, come si scrive nei cantieri stradali. Altri, per giustificare una scelta non inedita, cioè l'insofferenza per le procedure laboriose in cui si dà sostanza a una democrazia equilibrata e matura, ricordavano Togliatti e una sua battuta sulla convenienza, in talune circostanze, di far ricorso alle urne, piuttosto che ricorrere alla Corte costituzionale, collocando con disinvoltura quel parere in tutt'altro contesto. E qualcuno, infine, intendeva dare chi sa quale nuovo significato, anche valoriale, al fatto che ogni Senatore e ogni Deputato rappresenta la Nazione e la Repubblica. Il che, ognuno lo sa, è già detto come meglio non si potrebbe nella Carta costituzionale all'articolo 67: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita la sua funzione senza vincolo di mandato”. Quale nuova e singolare distinzione si pensa di introdurre nella sintesi costituzionale di Nazione e Repubblica “una e indivisibile” (articolo 5) non riesco a immaginare.
La minoranza non intende fare il processo alle intenzioni: le bastano i disegni di legge! E non nega, ovviamente, che anche la Costituzione possa essere modificata. Per questo sono previste procedure intese a garantire la massima prudenza e ponderatezza nelle deliberazioni.
Ma ci turba che sia stato e rimanga possibile mettere mano a una revisione di tale portata come se si trattasse di cambiare un regolamento, e non una Carta Costituzionale che ci ha garantito libertà e progresso, per cui l'Italia è circondata di rispetto in tutto il mondo civile. Ecco perché sentiamo il bisogno di dire, davanti al Paese, che in frangenti del genere ci onoriamo di essere opposizione, e non solo minoranza! E che distinguersi non significa “lasciar fare chi lavora per noi”, ma lavorare, possibilmente insieme, perché il cantiere corrisponda ai veri, agli urgenti, ai non più rimandabili interessi della comunità nazionale.
Quanto al rifinanziamento della nostra missione di pace in Iraq, confermata la gratitudine per la dedizione testimoniata anche con il sacrificio della vita, è opinione di gran parte della minoranza che debba essere dato un seguito il più possibile coerente con le pronunce di principio susseguitesi prima e nel corso del conflitto.
Il Paese non può aspettarsi altro, almeno dall'opposizione, che un invito solenne a non fare della pace la continuazione della guerra con altri mezzi. È la sua politica, la sua responsabilità, la sua etica.

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Ultimo aggiornamento: 25-04-04