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I 12 Apostoli

I 12 Apostoli di Gesu' (il nome significa "portatori del messaggio") rappresentano le 12 tribu' d'Isreale.

I loro nomi sono:

  • Simone che Gesu' chiamo' Pietro

  • Andrea, fratello di Simone

  • Giacomo e Giovanni

  • Filippo e Bartolomeo

  • Matteo e Tommaso

  • Giacomo, figlio di Alfeo

  • Simone, del partito degli Zeloti

  • Giuda, figlio di Giacomo

  • Giuda Iscariota, colui che poi tradi' Gesu'

La Trinità

Poiché il Cristianesimo è anche, se non principalmente, una fede, a definirlo sono le sue credenze fondamentali, che naturalmente variano a seconda delle sue "sette. Nel corso dei secoli queste credenze sono state sistematizzate e codificate in varie professioni di fede, chiamate più semplicemente « credi », il primo e più semplice dei quali è probabilmente quello di Paolo nella Lettera ai Romani:

Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo.

Come si vede, Paolo distingue tra « Dio » e « Signore », cioè tra Creatore e Salvatore: come ripeterà nella Prima lettera a Timoteo,

« uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù ». Inoltre, il Credo paolino riduce l'essenza del Cristianesimo alla fede nella resurrezione dell'uomo Gesù, che non afferma affatto essere Dio: anzi, nella Lettera ai Colossei dice che il primo è assiso alla destra del secondo, cosa che nemmeno un contorsionista potrebbe fare con se stesso.

Anche i Vangeli sinottici non affermano la divinità di Gesù. Anzi, la fanno negare a lui stesso, quando reagisce a chi l'aveva chiamato buono esclamando: « Perche mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo ». O quando, durante la passione, dapprima si rivolge al Padre dicendogli: « Sia fatta non la mia, ma la tua volontà », e poi gli chiede perché l'ha abbandonato.

Persino Giovanni, che pure inizia con un prologo in cui Gesù viene identificato con l'incarnazione del Logos greco, cioè con la «Parola» o col «Verbo», e che dice che «in principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio », quando passa dalla poesia metaforica alla prosa realistica fa dichiarare a Gesù nell'Ultima Cena che « il Padre è più grande di me », e prima dell'ascensione che « io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro ».

Ma con la progressiva elaborazione della mitologia relativa alla vita terrena di Gesù e alle sue caratteristiche divine, il Credo passò a delimitare il confine fra l'ortodossia e le cosiddette eresie (da hairesis, «scelta»): cioè fra le cervellotiche opinioni imposte dalla gerarchla, religiosa e politica, e quelle scelte indipendentemente (che erano anche, sistematicamente, le meno insensate sulla piazza).

Una delle prime formulazioni del Credo fu il cosiddetto Simbolo degli Apostoli, metaforicamente attribuito ai dodici, un versetto ciascuno:

Credo in Dio, Padre onnipotente, Creatore del ciclo e della terra. E in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore, il quale fu concepito di Spinto Santo, nacque da Maria Vergine, patì sotto Ponzio Filato, fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi; il terzo giorno risuscitò da morte; sali al ciclo, siede alla destra di Dio, Padre onnipotente: di là verrà a giudicare i vivi e i morti. Credo nello Spìrito Santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne, la vita eterna.

Nonostante la sua fittizia attribuzione, il Simbolo degli Apostoli è stato in realtà composto tra il II e il IV secolo, per con- trastare una delle prime eresie: quella di origine gnostica e manichea secondo la quale, essendo la materia impura, Gesù non aveva avuto un corpo fisico ed era stato un puro spirito. Un'eresia che durò un migliaio di anni, fino ai Catari (da katharoi, «puri») o Albigesi (dalla città francese di Albi), e che fu estirpata solo con l'istituzione della prima Inquisizione nel 1184, la crociata degli Albigesi tra il 1209 e il 1229, e il massacro di Montségur nel 1244.

Il Simbolo degli Apostoli è ancor oggi usato dalle Chiese occidentali, in particolare da quella Cattolica, per la cerimonia del battesimo e per le messe dei bambini. Poiché non prende posizione sull'eresia di Ario, secondo la quale i figli vengono dopo i padri, e dunque Gesù non era né eterno né pari al Padre, questo Credo era accettabile per alcuni Ariani e continua a esserlo per alcuni Unitati, che riconoscono l'autorità morale di Gesù ma ne rifiutano la divinità.

La citata eresia di Ario, che fiorì nel III e IV secolo tra ecclesiastici e laici, non negava la divinità del Figlio, ma lo riteneva creato dal Padre. Quest'ultimo, in particolare, veniva ritenuto l'unico vero Dio, in accordo con la Prima lettera ai Corinzi:

In realtà, anche se ci sono cosiddetti dèi sia nel ciclo sìa sulla terra, e difatti ci sono molti dèi e molti signori, per noi c'è un solo Dio, Ìl Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui.

L'arianesimo fu affrontato ufficialmente dal Primo Concilio Ecumenico della Chiesa, convocato nel 325 dall'imperatore Costantino a Nicea, l'odierna Iznik turca, nel quale vennero prese anche epocali ed elevate decisioni quali... la proibizione dell'autocastrazione: questa era infatti praticata da pervertiti come Origene, che prendevano letteralmente il detto dì Gesù che « ci sono eunuchi nati così dal ventre della madre, ce ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e ce ne sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cicli».

Ma, naturalmente, il Primo Concilio passò alla storia perchè, dopo aver sentito l'autodifesa dello stesso Ario, esso dichiarò la sua dottrina eretica, lo scomunicò, condannò i suoi libri al rogo e formulò la dottrina ufficiale della Chiesa nel cosiddetto Credo di Nìcea:

Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, Creatore di tutte le cose visìbili e invisibili. E in un solo Signore, Gesù Cristo, Figlio di Dio, [solo generato dal Padre, cioè della sostanza del Padre]: Dìo da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre; per mezzo di Lui tutte le cose sono state create [nel ciclo e nella terra]. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal ciclo, si è incarnato, si è fatto uomo, morì, il terzo giorno è risuscitato, è salito al ciclo e di nuovo verrà per giudicare i vivi e i morti. Crediamo nello Spirito Santo.

In particolare, il Credo di Nicea decreta che il Figlio è generato, non creato dal Padre: cioè che sta al Padre non come una creatura al suo creatore, ad esempio un vaso al vasaio, ma come un generato al suo generatore, ad esempio un frutto all'albero. E assume che i due sono della stessa sostanza, un'espressione che traduce il termine greco di origine gnostica homoouston, «consustanziale» (da homo, «stessa», e ousia, «sostanza»), che era invece stato condannato dal Sinodo di Antiochia del 264-268: a dimostrazione del fatto che l'ispirazione dello Spìrito Santo non è un'assicurazione contro la confusione delle idee che alberga in certe teste.

Poiché la formulazione eretica di Ario era homoiousion (da homoi, «simile», e ousia, «sostanza»), che aveva soltanto uno iota in più di quella adottata ufficialmente, la disputa generò o creò l'espressione «differire per uno iota». Ma gli equilibrismi verbali adottati dal Concilio non furono sufficienti a contrastare né l'arianesimo né l'unitarismo. Anzitutto, infatti, essere « generati, non creati » non impedisce di seguire temporalmente il generatore: anzi, così accade per tutti gli usi sensati del verbo «generare», in particolare per i figli nei confronti dei genitori (visto che di questo si sta appunto parlando). E poi, essere « della stessa sostanza » non impedisce di essere la stessa persona: eventualmente suddivisa(si) in più parti, come appunto proponeva Paolo di Samosata, vescovo di Antiochia, che a causa di ciò fu deposto nel 269.

Per questo motivo il Credo di Nicea terminava con una scomunica, oggi caduta, che diceva: « E coloro che dicono che c'è stato un tempo in cui il Figlio non era, o che non era prima di essere generato, o che è stato fatto dal nulla, o che è un'altra ipostasi o sostanza, o che è creato, mutabile o alterabile, sono condannati dalla Chiesa santa, cattolica e apostolica».

Per rimediare a questi e altri problemi, in particolare l'eresia binitaria che negava la divinità dello Spirito Santo, un Secondo Concilio Ecumenico fu convocato dall'imperatore Teodosio I nel 381 a Costantinopoli. Esso ritoccò sostanzialmente il Credo di Nicea, eliminandovi alcune espressioni (indicate sopra in parentesi quadre) e la scomunica finale, aggiungendovi un sostanzioso numero di affermazioni (indicate sotto in corsivo) e passando dal plurale al singolare:

Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, Creatore del ciclo e della, terra, di tutte le cose visibili e invisìbili. Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, Unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre; per mezzo di Lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal ciclo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Filato, morì e fu sepolto. Il terzo giorno è risuscitato, secondo le Scritture, è salito al ciclo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine. Credo nello Spinto Santo, che è Signore e da la vita, e procede dal Padre. Con il Padre e il Figlio e adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti. Credo la Chiesa, una santa cattolica e apostolica. Professo un solo Battesimo per il perdono dei peccati. Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà.

Come si vede, la nuova formulazione combina ed estende sia il Credo di Nicea che il Simbolo degli Apostoli, stabilendo una nutrita e contraddittoria mitologia sia per il Figlio che per lo Spirito Santo: in particolare, asserendo che il Figlio è stato generato dal Padre prima di tutti i secoli, ma si è anche incarnato nella Vergine Maria in un preciso periodo storico; che lo Spirito Santo procede dal Padre senza esserne generato, e dunque è un suo discendente diretto ma non un secondo Figlio; e che nonostante i relativi rapporti di dipendenza generazionale e processionale, i tre sono comunque uno solo.

Con il dogma trinitario delle tre persone in un'unica sostanza, formulato per la prima volta nel III secolo da Tertulliano (al quale, non a caso, è attribuito il motto credo quia absurdum, « credo perché è assurdo »), la teologia cristiana abbandona così definitivamente il terreno della logica e del buon senso, incamminandosi su un percorso che la porterà nel corso dei secoli a impelagarsi in un crescendo pirotecnico di associazioni libere sempre più surreali e imbarazzanti, per non diventare altro, come dirà Jorge Luis Borges, che « un ramo della letteratura fantastica ».

Naturalmente, il modo più sensato di considerare la Trinità sarebbe stato quello di vedere le sue tre persone come tre diverse modalità di un unico Dio: una concezione chiamata modalismo o sabellianesimo, dal nome del suo proponente Sabellio, naturalmente dichiarata eretica da papa Callisto I nel 220. Altrettanto sensato sarebbe stato considerare la Trinità un insieme di tre elementi, uno dal punto di vista dell'insieme e trino dal punto di vista degli elementi: questa tesi fu sostenuta da Gilbert de la Porrée e anch'essa, naturalmente, fu condannata sia dal Concilio di Parigi del 1147 che da quello di Reims dell'anno seguente.

Evidentemente, per la Chiesa l'ossimorico monoteismo trinitario doveva rimanere una vuota formula linguistica, nella migliore tradizione metafìsica, così da permettere al Catechismo" di pontificare soddisfatto che la Trinità è « il mistero centrale della fede e della vita cristiana », oltre che « un mistero inaccessibile alla sola ragione umana ». Il che significa però soltanto che esso è un'irrazionalità letteralmente incredibile, perché per definizione non sì può credere ciò che non si capisce, per gli uomini di buona razionalità, dunque, il delirio finisce qui.

Per i poveri di spirito, invece, ovviamente no. Il Credo di Nicea-Costantinopoli è stato infatti confermato in più occasioni: dal Concilio di Efeso del 431, che ha stabilito che esso è completo e non ulteriormente modificabile, e che coloro che lo rifiutano sono scomunicati, all'Alleanza di Losanna del 1977, un manifesto adottato da 2300 Chiese Evangeliche di tutto il mondo, che lo contiene come parte integrante. Il che non ha naturalmente impedito alla Chiesa d'Occidente (Cattolici Romani e Protestanti) di modificarlo, con la clausola del Filioque, e ad altre Chiese di rifiutarlo: ad esempio, agli Unitari, che credono al solo Padre come a un Dio uno ma non trino; o ai Testimoni di Geova, che credono a un Dio bino ma non uno, e negano la divinità dello Spirito Santo; o ai Mormoni, che credono a un Dio trino ma non uno, mantenendo distinte le tre persone; e così via, in ogni possibile combinazione.

Naturalmente, i poveri di spirito sono solo le teste calde che credevano allora, e credono oggi, di credere alla Trinità. Non certo coloro che, a sangue freddo, hanno inventato l'intera faccenda per annettere alla nascente fede cristiana popolari credenze pagane da un lato, e altrettanto popolari concetti filosofici dall'altro, che vanno dalla teologia egizia di Alessandria alla metafisica greca di Piatone. Non a caso, il Credo di Nicea e Costantinopoli viene considerato dai puristi l'atto di nascita della Grande Apostasia: cioè l'abbandono della fede evangelica di Cristo e degli apostoli e il passaggio alla teologia dottrinale della Chiesa e dei teologi, dominata da concetti di filosofia greca (ipostasi, sostanza, essenza e compagnia bella) che Gesù e i primi Cristiani avrebbero trovato completamente incomprensioni.

La Madonna

Il Credo di Costantinopoli, oltre a sistemare una volta per tutte la faccenda della Trinità, aveva anche aggiunto al Credo di Nicea la clausola dell'incarnazione di Gesù « per opera dello Spirito Santo, nel seno della Vergine Maria »: questo era tutto ciò che si poteva fare sulla base delle « testimonianze » evangeliche, cioè dei tardi e posticci miti presenti soltanto in Matteo e Luca. I quali, anche se non fossero inventati, riposerebbero comunque soltanto sull'unica testimonianza della madre: cioè, letteralmente, di una signorina rimasta incinta di qualcuno che non era il suo fidanzato.

Tra le tante spiegazioni razionali possibili, la più sensata è che l'attribuzione della paternità a « un angelo » non fosse altro che un'ingenua giustificazione di una scappatella: una spiegazione condivisa da Giuseppe stesso nell'apocrifo Vangelo dello Pseudo-Matteo. oltre che da Gelso nel Discorso vero e dall'intera tradizione rabbinica. Sia quest'ultima, in particolare le Toledot jeshu (« Genealogie di Gesù »), sia Gelso precisano che a inguaiare la giovane era stato un soldato romano di nome Panthera (un adattamento anagrammatico diparthenos, «vergine»):

Non è forse vero, mio buon signore, che avete voi stesso fabbricato la storia della vostra nascita da una vergine, per mettere a tacere le maldicenze intorno alle vere e sgradevoli circostanze delle vostre origini? Non sarà che, lungi dall'essere nato a Betlemme, regale città di Davide, avete visto la luce in un povero paese di campagna, da una donna che si guadagnava da vivere tessendo e filando? Non sarà che quando la sua disonestà fu scoperra, vale a dire quando si seppe che era incinta di un soldato romano di nome Panthera, suo marito - il falegname - la ripudiò e lei fu accusara di adulterio? E infatti, non è vero che nella sua disgrazia, vagando lontano da casa, partorì un figlio maschio nel silenzio e nell'umiliazione?

Se fosse vero, la Chiesa non sarebbe altro che la surreale agenzia di copertura di un colossale equivoco. Non stupisce, dunque, che essa sia costretta a credere invece alla spiegazione più irrazionale, per quanto implausibile: il fatto singolare, cioè, che Maria abbia concepito il figlio senza intervento umano. Singolare, ma non singolo, essendo una procreazione divinamente assistita già stata anticipata nel concepimento di Isacco, anche se in quel caso nessun concilio si è premurato di specificare nei dettagli le particolari circostanze dell'insolito evento.

Certo nel caso di Gesù non si è trattato di nascita verginale nel senso letterale della partenogenesi (da parthenos, « vergine », e genesis, «nascita»), perché essa non richiede alcuna fecondazione. E neppure può essersi trattato della fecondazione etcrologa da parte dello Spirito Santo di un ovulo di Maria, perché altrimenti Gesù sarebbe soltanto un semidio: come Èrcole, figlio di Zeus e Alcmena, che spesso è comunque stato considerato una sua prefigurazione. Il concepimento di Gesù dev'essere allora avvenuto per impianto di un ovulo già fecondato: dunque, non solo Giuseppe è un padre putativo, ma Maria è una madre surrogata che si è limitata a dare l'utero in affitto.

Da dove poi provenga il materiale genetico di Gesù non si sa, ma certo non è stato prodotto in maniera naturale: più che un Organismo Geneticamente Modificato, egli è allora un esempio di Vita Artificiale.

Questi sono i dilemmi in cui ci si invischia quando si concepisce un vero Dio che si fa vero uomo e viene partotito da una vera donna, essendo per giunta già « nato dal Padre prima di tutti i secoli »: dilemmi che, però, non si ponevano ai primordi del Cristianesimo. Ad esempio, nella Lettera ai Galati, Paolo si limita a dire che « Dio mandò il suo Figlio, nato da donna », senza accennare a nessuna nascita prodigiosa: probabilmente perché, come abbiamo visto, egli considerava Gesù non Dio ma un mediatore umano, e dunque non doveva spiegare in nessun modo particolare la sua nascita. Analogamente, nella Lettera ai Romani egli dice che Gesù era « nato dalla stirpe di Davide secondo la carne e fu costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti »: tradotto, Gesù età solo un uomo che Dio aveva fatto risorgere.

Sia come sia, a un certo punto il problema si pose e bisognò decidere se Maria era solo Christotokos, « Cristipara » o « Madre di Cristo », oppure anche Theotokos, « Deipara » o « Madre di Dio » (da theos, « dio », e tokos, « partorire »): cioè, se aveva partorito soltanto il Gesù Uomo o anche il Gesù Dio.

Nestorio, patriarca di Costantinopoli, favoriva la prima opzione, implicando che i due aspetti potevano essere separati. Ma il Concilio di Efeso del 431 lo dichiarò eretico, lo scomunicò e stabilì che la dottrina corretta era l'altra: cioè la divinità e l'umanità di Gesù erano inscindibili e dunque la donna aveva partorito anche il Dio, attraverso l'uomo.

Naturalmente, questo era un altro « mistero della fede », visto che non si poteva capire cosa significasse. La Chiesa se la cavò escogitando un mantra da far cantare ai fedeli, per addormentare la mente di chi l'aveva ancora sveglia: « O Deipara, il tuo ventre ha contenuto colui che l'intero universo non poteva contenere ».

La Chiesa Assira, invece, fu meno ispirata e decise che ne aveva abbastanza: non riconobbe né il Concilio di Efeso né i seguenti e se ne andò per la sua strada, stabilendo una tradizione nestoriana che esiste ancor oggi in Iraq, Iran e India. Ciò nonostante, vent'anni dopo Efeso il problema delle nature di Gesù era di nuovo sul tappeto: questa volta tramite la teoria monofisita (da monos, «una», e physis, «natura») proposta da Eutiche, archimandrita a Costantinopoli, secondo la quale Gesù aveva un'unica natura, allo stesso tempo umana e divina, e dunque un corpo non puramente umano.

Il Sinodo di Costantinopoli del 448 dichiarò il monofisismo eretico, e scomunicò Eutiche. Il Sinodo di Efeso del 449 ribaltò il verdetto, e depose invece gli oppositori di Eutiche. Il Concilio di Calcedonia del 451, il quarto ecumenico, ribaltò il ribaltamento e proclamò che in Gesù, « vero Dio e vero uomo », le due nature umana e divina erano unite ma distinte: una soluzione contraddittoria, analoga a quella già adottata per la Trinità. Questa volta fu la Chiesa Ortodossa Orientale ad averne abbastanza e ad andarsene per la sua strada, stabilendo la tradizione monofisita dei Cristiani di Armenia, Geòrgia, Siria, Etiopia e dei Copti d'Egitto, sopravvissuta fino a oggi.

In un tentativo di contenere lo scisma coi monofisiti, il patriarca Sergio I di Costantinopoli propose la teoria monotelita (da monos, «una», ethelos, «volontà»), secondo cui Gesù aveva sì due nature, ma una sola volontà: anche perché, come diremmo oggi, solo gli schizofrenici possono avere due volontà distinte. Il papa Onorio si espresse a favore del monotelismo nel 634, ma nel Terzo Concilio di Costantinopoli del 680-681 egli fu scomunicato post mortern e dichiarato eretico. Per inciso, proprio questa condanna conciliare a un pronunciamento papale, poi confermata dai pontefici successivi, fu (invano) portata come prova della non infallibilità nel dibattito al Concilio Vaticano I che ne precedette la proclamazione come dogma.

Per tornare al Concilio di Costantinopoli, però, anche questa volta ci fu chi ne ebbe abbastanza: i Maroniti del Libano, che prendono il nome dal loro fondatore Matone, e che qualche anno fa sono stati alla ribalta della cronaca come una delle tre fazioni della guerra civile nel paese.

In tal modo, dopo sette secoli di dispute e le successive scomuniche di arianesimo, nestorianesimo, monofìsismo e monotelismo, risultava dunque completamente definita la Cristologia Cattolica, i cui tratti essenziali sono così riassunti dal Catechismo:

«Gesù è inscindibilmente vero Dio e vero uomo», « perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità », « generato dal Padre secondo la divinità e nato da Maria Vergine secondo l'umanità », « con due nature, la divina e l'umana, non confuse ma unite », « con una volontà divina e una volontà umana » e « con un vero corpo umano ».

Rimaneva invece ancora da completare la Mariologia, finora limitata al concepimento vetginale di Maria da parte dello Spirito Santo e alla sua qualifica di Deipara, secondo la formula « Vergine e Madre di Dio ». Ma poiché i Vangeli canonici sono estremamente parchi di notizie su Maria, si può prevedere un uso della fantasia ancora più sfrenato che nel caso di Gesù.

Anzitutto, in mancanza di informazioni ufficiali la Chiesa non ha disdegnato di attingere a quelle ufficiose degli apocrifi: in particolare, al Vangelo dello Pseudo-Matteo, che enuncia esplicitamente il mito della verginità perpetua dicendo che Maria « vergine ha concepito, vergine ha partorito, vergine è rimasta », e che alla levatrice incredula che volle « toccare con mano » il prodigio si seccò l'arto. E questo mito che costringe coloro che ci credono a rimuovere l'espressione « fratelli e sorelle di Gesù», usata tranquillamente dai Vangeli canonici, interpretandola con imbarazzo come « fratellastri e sorellastre » (da parte di padre) o « cugini ».

Naturalmente non tutti, agli inizi, accettarono la verginità perpetua di Maria. Per Marcione, ella l'aveva perduta al momento del concepimento di Gesù, avvenuto in maniera umanamente sessuale. Per Gioviniano, la perdita era avvenuta al momento del parto, svoltosi secondo le normali e prosaiche modalità. Per Tertulliano, dopo la parentesi divina del primogenito la Madonna aveva avuto nel modo canonico altri figli e figlie: quelli, appunto, che i Vangeli chiamano i suoi fratelli e le sue sorelle.

Quest'ultima opinione, fra l'altro, è basata su un passo di Matteo, che dice che Giuseppe « non la conobbe fino a che [heos] ella partorì il primogenito [prototokon} »: il che naturalmente è molto diverso dal dire « ella partorì un figlio senza che egli la conoscesse », come invece tradisce in mala fede l'edizione ufficiale CEI (fingendo di dimenticare che la Vulgata traduceva fedelmente in latino, con donec e primogenitum).

Per evitare fraintendimenti anche della propria versione cen-surata, i vescovi si affrettano comunque a commentare: « Matteo non si occupa della condizione successiva di Maria, della sua perpetua verginità, che è dogma di fede cattolica». E invece, benché la versione non censurata non implichi necessariamente rapporti sessuali o figli successivi, non solo non li esclude, ma li suggerisce entrambi: non a caso, il Credo di Costantinopoli parla di «Unigenito Figlio di Dio », non certo di « primogenito». Un'espressione, quest'ultima, che è invece usata anche da Luca in un versetto che i soliti vescovi commentano dicendo:

« Primogenito non vuoi dire che Maria abbia avuto altri figli ».

Il che è vero, ma vuoi dire ancor meno che non li abbia avuti.

In ogni caso, il Sinodo Lateranense del 649 stabilì che Maria rimase vergine « prima, durante e dopo il parto ».

I sessuofobici Padri della Chiesa specificarono che essa concepì Gesù senza piacere e lo partorì senza dolore, lasciandolo passare attraverso l'imene come una luce attraverso un vetro, e aprendo e richiudendo l'utero come una conchiglia che fa fuoriuscire la perla. Anche se, per dare a Cesare quel che è di Cesare, un'accurata fecondazione assistita sarebbe stata sufficiente per preservare la verginità al concepimento, un taglio cesareo (appunto) per mantenerla durante il parto, e un'astinenza dai rapporti « secondo natura» per confermarla in seguito.

Le spiegazioni teologiche della verginità perpetua di Maria fanno invece ridere gli agnelli, perché si basano unicamente su profezie tirate per i capelli. Precisamente, la verginità durante il parto su « la vergine concepirà e partorirà un figlio » di Isaia tra l'altro, un brano in cui l'originale ebraico parla soltanto di almah, « ragazza », e non di betulah, « vergine ». E la verginità dopo il parto su « questa porta rimarrà chiusa, non sarà aperta e nessuno vi passerà, perché c'è passato Jahvé » di Ezechieie un brano, questo, in cui si sta parlando di una porta del santuario, e non certo della vagina di Maria!

Imperterrito, il Concilio di Trento ribadì la dottrina nel 1555, con la Costituzione Ecclesiastica Cum Quorundam («Dal momento che»). E il Catechismo conferma: «Maria è rimasta Vergine nel concepimento del Figlio suo, Vergine nel parto, Vergine incinta, Vergine madre, Vergine perpetua ». Entrambi, naturalmente, incuranti dell'osservazione di Luterò che « le Scritture non cavillano né parlano della verginità di Maria dopo la nascita di Cristo: una faccenda di cui gli ipocriti si preoccupano molto, come se fosse qualcosa della massima importanza, dalla quale dipendesse l'intera salvezza».

Dopo il 649 la mitografia di Maria, ormai chiamata Madonna (dal latino Mea Domina, « Mia Signora », analogo all'inglese Milady, « My Lady »), venne criocongelata per più di un millennio, per riprendere inaspettatamente negli ultimi due secoli con la proclamazione di due nuovi dogmi mariani: l'Immacolata Concezione da parte di Pio IX nel 1854 e l'Assunzione in Ciclo da parte di Pio XII nel 1950.

Secondo le formule delle loro proclamazioni ufficiali, il primo significa che « Maria è stata preservata intatta da ogni macchia di peccato originale », e il secondo che essa « fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo ».

Come si può immaginare dal fatto che questi dogmi sono stati formulati quasi due millenni dopo la supposta esistenza dell'interessata, essi non sono altro che puri castelli in aria. Il primo, ad esempio, rovescia la contraria tradizione scolastica, da Bernardo a Tommaso, e si limita ad arrampicarsi sugli specchi della formula usata dall'angelo all'annunciazione: «Ti saluto, o piena di grazia ». E, addirittura, sul versetto del Genesi in cui Jahvé dice al serpente, dopo la caduta: « Io porrò inimicizia fra te e la donna, tra la sua stirpe e la tua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno ».

In realtà l'Immacolata Concezione nacque come una semplice credenza popolare, appoggiata dagli ingenui Francescani e avversata dai colti Domenicani, a partire da Tommaso d'Aquino. Nel 1483 il papa francescano (e nepotista) Sisto IV stabilì l'8 dicembre come sua festa, e l'8 dicembre 1854 Pio IX proclamò il suo dogma nella Costituzione Apostolica Ineffabili Deus (« Dio Ineffabile ») sulla base di un referendum tra i vescovi tenuto nel 1849, nel quale 570 prelati su 665 risposero positivamente al dilemma « se vi siano nella Sacra Scrittura testimonianze che provino solidamente l'immacolato concepimento di Maria ». Ovvero, come direbbe Nietzsche, « in teologia non ci sono fatti, solo opinioni », e la verità è determinata da un accordo non con le cose, ma tra le persone.

Evidentemente però anche il Cielo si adegua alle decisioni del Vaticano, visto che nel 1858, quattro soli anni dopo la proclamazione del dogma, la Madonna apparve diciotto volte a Lourdes a una quattordicenne analfabeta di nome Bernadette Soubirous. Il 25 marzo, giorno dell'annunciazione, dopo aver rifiutato per tre volte di rispondere alla richiesta di dire il suo nome, forse perché sapeva che la piccola era stata imbeccata dal parroco, alla quarta l'apparizione rivelò in dialetto: Que soy era. Immaculada Conceptiou, « Mi sun l'Imaculada Cuncesiun ».

Gli ingenui come noi si limiterebbero a commentare: « Ma varda la combinasiun! » Un papa come Pio XII scrisse invece nel 1957 un'intera enciclica intitolata Le Pèlerìnage de Lourdes (« Il Pellegrinaggio di Lourdes »), nella quale si legge:

Certamente la parola infallibile del romano pontefice, interprete autentico della verità rivelata, non aveva bisogno di alcuna conferma celeste [sic] per avvalorare la fede dei credenti. Ma con quale commozione e gratitudine il popolo cristiano e i suoi pastori appresero dalle labbra di Bernardette la risposta venuta dal ciclo: « Io sono l'Immacolata Concezione »!

Oggi, nella basilica doverosamente elevata per commemorare l'evento, e visitata ogni anno da cinque milioni di persone, campeggiano una lapide con la certificazione da parte del vescovo che « la Madonna è veramente apparsa a Bernadette », e due medaglioni coi ritratti di Pio IX, per ovvi motivi, e di Pio X, che nel 1907 stabilì la festa dell'Apparizione di Nostra Signora di Lourdes. Pio XI, per non esser da meno, canonizzò Bernadette l'8 dicembre 1933, giorno dell'Immacolata Concezione.

Natutalmente, quelle di Lourdes non sono state né le prime, né le ultime apparizioni della Madonna. In fondo, già la basilica di Santa Maria Maggiore a Roma era srata costruita a seguito di una supposta apparizione di Maria al papa e a un patrizio romano la notte tra il 4 e il 5 agosto 352, e la sua pianta sarebbe stata disegnata da una miracolosa e circoscritta nevicata avvenuta quella stessa notte.

Fra le numerosissime apparizioni della cronaca, che sono state valutate a circa 21.000 nel secondo millennio, le più interessanti sono quelle che lasciano trasparire una natura goliardica o pervertita, a seconda dei punti di vista, in coloro che le testimoniarono. Ad esempio, Bernardo di Chiaravalle avrebbe addirittura bevuto il latte dal seno della Vergine e abbracciato sensualmente Gesù in croce, in episodi che divennero i soggetti di varie Lactatio Bernardi e Amplexus Bernardi, per l'edificazione dei fedeli e il divertimento degli psicanalisti.

Come già per la glossolalia, comunque, anche il fenomeno delle apparizioni è ben noto e compreso: si chiama pareidolia, « falsa apparenza » (Aipara, « oltre », ed eidolon, « immagine ») e si tratta di una percezione di forme reali che vengono falsamente interpretate come immagini fantastiche, in genere di natura antropomorfa, in maniera conscia o inconscia. Un esempio di interpretazione conscia è quello proposto da Leonardo come allenamento creativo: cercare di vedere, cioè, figure nelle macchie di umidità o nelle nuvole. Un altro sono i test psicologici di Rorschach, in cui un soggetto deve dire che cosa gli fanno venire in mente semplici macchie d'inchiostro.

Un uso inconscio è invece la normale abitudine a completare cognitivamente stimoli percettivamente sottodeterminati: ad esempio, vedendo nelle ombre del disco lunare i tratti di una faccia, come nel film Viaggio nella Luna di Georges Méliès, del 1902. Se unito alla apofenia (da afa, « via » o « da », e phaino, « mostro »), che è una tendenza psicotica a vedere connessioni immotivate ed eccezionali fra eventi sconnessi e banali, essa provoca invece l'anormale fenomeno delle apparizioni: soprattutto in soggetti di intelligenza e cultura sotto la media, come quelli che di solito le raccontano.

Ma non solo, visto che anche papi recenti le hanno sperimentate. Primo fra tutti Pio XII, secondo la testimonianza di prima mano del cardinale Federico Tedeschini, che illustra perfettamente entrambi i fenomeni della pareidolia e dell'apofenia:

Era il 30 ottobre 1950 - mi narrò -, l'antivigilia del giorno che l'intero mondo cattolico attendeva con impazienza, quello della solenne definizione dell'Assunzione in Ciclo della Santissima Vergine Maria. Verso le quattro del pomeriggio, stavo facendo la mia abituale passeggiata nei giardini del Vaticano, leggendo e studiando, come mio solito, alcune carte d'ufficio. [...] Ad un certo pun- to, come alzai gli occhi dai fogli che avevo in mano, fui colpito da un fenomeno che appariva come un globo opaco, giallo pallido, completamente attorniato da un cerchio luminoso, che tuttavia non impediva affatto di fissare l'astro con attenzione, senza provocare il minimo fastidio. Una nuvoletta, leggerissima, vi si trovava davanti come un diaframma. II globo opaco si muoveva verso l'esterno, leggermente, ruotando e contemporaneamente spostandosi da destra verso sinistra e viceversa. Ma, all'interno del globo, v'erano, chiarissimi ed ininrerrotti, dei moti molto forti. Lo stesso fenomeno si ripetè il giorno dopo, 31 ottobre, e il primo novembre, giorno della definizione; poi l'8 novembre, ottavo di questa solennità. Poi, più nulla.

Il fenomeno del « sole rotante » appartiene alla mitologia di Fatima, dove sarebbe avvenuto pubblicamente il 13 ottobre 1917: esso viene ingenuamente interpretato come un'apparizione della Madonna, benché sia probabilmente soltanto una manifestazione dei fulmini globulari studiati nel 1955 dal Premio Nobel per la fisica Piotr Kapitza. Il riferimento all'Assunzione riguarda invece il dogma che lo stesso Pio XII proclamò nell'anno mariano 1950, con la Costituzione Apostolica Muni-ficientissimus Deus (« II Munificientissimo Dio »).

Questa Costituzione proclama anche la morte e la resurrezione di Maria, avvenute prima dell'Assunzione, ma (bontà sua) non infallibilmente: in certe cose, infatti, bisogna andare coi piedi di piombo, per evitare di sbagliare... Per ora il papa e con esso i fedeli hanno già la certezza che la Madonna è stata assunta in cielo « terminato il corso della vita terrena », ma devono ancora pazientemente aspettare futuri pronunciamenti per avere ulteriori dettagli sulle fasi finali di questo corso.

Come questa certezza sia stata raggiunta nel caso dell'Assunzione ormai lo possiamo intuire, anche perché stavolta di riferimenti evangelici proprio non se ne potevano trovare: ovviamente ci fu un sondaggio dei vescovi, commissionato nel 1946 con l'enciclica Deiparae Virginis Marine (« Della Deipara Vergine Maria»), nella quale il papa dichiarava di « desiderare ardentemente di sapere se voi, venerabili fratelli, nella vostra dottrina e prudenza, riteniate che si possa proporre e definire come dogma di fede l'assunzione corporea della beatissima Vergine, e se ciò sia desiderato anche dal vostro clero e dal vostro popolo». Ovvero, vox populi, voxDei.

Anche se, naturalmente, popoli differenti parlano con voci differenti. Così, mentre i Cattolici festeggiano l'Assunta il 15 agosto, lo stesso giorno gli Ortodossi festeggiano invece la Dormizione della Theotokos: cioè la morte di Maria, rappresentata in innumerevoli omonime icone. Ovviamente, anche questa costellata di eventi miracolosi: primo fra tutti il teletrasporto al suo capezzale degli apostoli, che erano ormai sparsi per il mondo a disseminare il Verbo. Solo Tommaso arrivò in ritardo di tre giorni e quando si recò con gli altri al sepolcro lo trovò vuoto, secondo le abitudini di famiglia.

I Protestanti rifiutano invece non soltanto gli scandalosi dogmi mariani, ma anche e soprattutto l'adorazione di Maria che questi solennemente sanciscono, e che essi chiamano marianismo o mariolatria. Nonostante gli scandalizzati dinieghi ufficiali, che dal Secondo Concilio di Nicea del 787 si illudono di esorcizzare il fenomeno semplicemente chiamandolo iperdulia, « supervenerazione » (da hyfer, « sopra », e doylia, « culto »), la Madonna ha infatti ormai preso nel Cattolicesimo il ruolo di un'ufficiosa « quarta persona » divina, per colmare l'evidente bisogno di femminile dolcezza, o di dolce femminilità, entrambe assenti nella maschile mitologia della Trinità e nella truculenta iconografia di Gesù. Oltre che, naturalmente, per fornire un'occasione di sublimazione amorosa alla sessualità repressa di un clero forzatamente celibe.

Le preghiere rivolte alla Madonna, ancora sconosciute ad Agostino ma già popolari nel VI secolo, vanno dalle Ave Maria singole a quelle iterate del Rosario, dal Salve Regina al Magnificat, e le sue festività costellano l'intero anno liturgico. E gli ultimi papi hanno fatto a gara per presentarsi come suoi paladini: Paolo VI, ad esempio, ha sistematizzato nel 1974 la sua venerazione nell'Esortazione Apostolica Marialis Cultus («II Culto Mariano »). Quanto a Giovanni Paolo II, ha addirittura scelto di unire Maria a Gesù nel suo stemma pontificio, in cui la « M » della prima campeggia sotto la croce del secondo, e di dedicarsi a lei col motto Totus Tuus, « Tutto Tuo ».

Benché egli non abbia accolto le petizioni, firmate tra gli altri da Madre Teresa di Calcutta, di proclamare come quinto dogma mariano la Corredenzione, cioè il ruolo cooperativo di Maria nella redenzione dal peccato originale effettuata da Gesù, la sua devozione per la Madonna sconfinò spesso nel ridicolo. Ad esempio, quand'egli pretese di vedere una « connessione significativa» tra l'attentato in piazza San Pietro del 13 maggio 1981 e la prima apparizione a Fatima del 13 maggio 1917, dichiarando che «fu una mano materna a guidare la traiettoria della pallottola e il Papa agonizzante si fermò sulla soglia della morte », e facendo incastonare la pallottola nella corona della statua della Madonna a Fatima.

D'altronde, la sua creduloneria a proposito di Fatima era persine superiore a quella della stessa veggente Lucia, che almeno a volte dimostrò qualche barlume di lucidità mentale o di rimorso etico. Ad esempio, in una lertera del 5 giugno 1936 indirizzata a padre José Bernardo Goncaìves, suo consigliere spirituale:

Vengo a dirle, reverendissimo padre, che ora più che mai mi viene il timore di essermi lasciata illudere dalla mia immaginazione e che può darsi che io parli con me stessa, quando intcriormente penso di parlare con Dio. O che io sia vittima di un'illusione diabolica, e che così io stia ingannando lei, reverendo padre, e la santa Chiesa.

Anche se un'altra sua lettera, questa volta a Pio XII del 2 dicembre 1940, lascia sospettare che essa fosse piuttosto vittima di circonvenzione di incapace:

Santissimo Padre, non ho mai pensato di scrivere alla Santità Vostra, conoscendo la mia incapacità e insufficienza. Ma siccome le persone che mi parlano a nome del nostro buon Dio (una delle quali è Sua Eccellenza Reverendissima il vescovo di Gurza, che la Santità Vostra conosce personalmente) mi dicono che questa e la divina volontà vengo a rinnovare una richiesta che varie volte è già stata portata ai piedi della Santità Vostra e, prima, a sua Santità Pio XI: la Consacrazione della Russia.

Da chiunque venisse questa balzana richiesta, rimane il fatto che essa fu ripetutamente soddisfatta: da Pio XII nel 1942 e 1952, da Paolo VI nel 1964, e da Giovanni Paolo II nel 1981, 1983 e 1984. Il primo aveva pure lui notato coincidenze significative tra i fatti suoi a Roma e quelli della Madonna a Fatima: oltre alla già citata visione del sole rotante in occasione della proclamazione del dogma dell'Assunzione, anche la puntualità con cui lei era apparsa, la prima volta, nello stesso giorno in cui lui veniva consacrato vescovo da Benedetto XV nella Cappella Sistina. Quanto al secondo, si era recato in pellegrinaggio a Fatima il 13 maggio 1967, così come avrebbe poi fatto il terzo il 13 maggio 1982, 1992 e 2000.

In quest'ultima occasione si raggiunse l'apice del delirio mariano, quando all'augusta e silenziosa presenza del novello Isacco, il segretario di Stato dichiarò solennemente che il papa polacco era l'oggetto del cosiddetto « terzo segreto », che il documento Segreto di Fatima emanato il 26 giugno 2000 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, firmato dall'allora cardinale Ratzinger, provvide a rendere finalmente pubblico:

E vedemmo, in una luce immensa che è Dio « qualcosa di simile a come si vedono le persone in uno specchio quando vi passano davanti » un Vescovo vestito di Bianco « abbiamo avuto il presentimento che fosse il Santo Padre ». Vari altri Vescovi, Sacerdoti, religiosi e religiose salire una montagna ripida, in cima alla quale c'era una grande Croce di tronchi grezzi come se fosse di sughero con la corteccia; il Santo Padre, prima di arrivarvi, attraversò una grande città mezza in rovina e mezzo tremulo con passo vacillante, afflitto di dolore e di pena, pregava per le anime dei cadaveri che incontrava nel suo cammino; giunto alla cima del monte, prostrato in ginocchio ai piedi della grande Croce venne ucciso da un gruppo di soldati che gli spararono vari colpi di arma da fuoco e frecce [sic], e allo stesso modo morirono gli uni dopo gli altri i Vescovi Sacerdoti, religiosi e religiose e varie persone secolari, uomini e donne di varie classi e posizioni.

Che questo copione surreale sia stato visto non come una stesura alternativa dell'episodio della fucilazione del papa nella Via Lattea di Luis Bufìuel, bensì come la profezia di un attentato avvenuto su una piazza spianata, in mezzo alla quale c'è un grande obelisco egizio in pietra, in una città moderna e viva, a un papa che procedeva ritto su un'auto scoperta, festoso e benedicente, e in cui non morì assolutamente nessuno, è un vero miracolo della Madonna di Fatima: da sola, infatti, la Natura non riesce a ottenebrare tanto la mente dei fedeli.

L'Eucarestia e il Sacerdozio

Dopo le celesti definizioni della Cristologia e della Mariologia, che avevano impegnato una buona parte del primo millennio e dei suoi primi otto concili ecumenici, la Chiesa si dedicò nel Medioevo a questioni più terrene, legate anzitutto all'organizzazione dei propri insider: dalla consacrazione dei vescovi (Primo Concilio Lateranense, 1123) alla disciplina del clero (Secondo Concilio Lateranense, 1139) e all'elezione del papa (Terzo Concilio Lateranense, 1179).

E poi, in maniera forse più interessante per gli outsider, alla rìtualità dei sacramenti, « consacrazioni » (dal latino sacer, « sacro»): prima fra tutti, naturalmente, l'Eucarestia, «ringraziamento » (dal greco eu, « buona », e charis, « grazia »), che sarebbe « Ìl sacrifìcio stesso del Corpo e del Sangue del Signore Gesù, che egli istituì per perpetuare nei secoli, fino al suo ritorno, il sacrifìcio della Croce».

A proposito della sua istituzione, il Catechismo fa riferimento a questo brano della Prima lettera ai Corinzi:

Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso; il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: « Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche Ìl calice, dicendo: « Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me.

Ora, sappiamo già che Paolo non ha mai incontrato Gesù: dire che la storia l'ha ricevuta direttamente dal Signore è dunque solo un eufemismo per dire che se l'è inventata direttamente lui, almeno per quanto riguarda i dettagli. Puntualmente, Giovanni non parla nemmeno dell'episodio, mentre l'unico dei sinottici che riporta la frase «fate questo in memoria di me » è Luca, che addirittura trascrive il brano dì Paolo letteralmente, a ennesima riconferma della sua doppiamente indiretta fonte di ispirazione.

Ciò nonostante, commentando l'edulcorata versione di Matteo l'edizione ufficiale CEI dichiara imperterrita: «La chiarezza e precisione del linguaggio di Cristo escludono ogni significato metaforico; l'onnipotenza della sua parola garantisce la realtà del miracolo ». Anche se, a proposito di chiarezza e precisione, bisogna ricordare che quell'esclusione e quella garanzia furono stabilite soltanto nel 1215 dal Quarto Concilio Lateranense con la controversa dottrina della transustanziazio-ne, « cambiamento di sostanza », così definita dal Catechismo:

Tramustanziazione significa la conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del Corpo di Cristo, e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del suo Sangue. Questa conversione si attua nella preghiera eucaristica, mediante l'efficacia della parola di Cristo e dell'azione dello Spirito Santo. Tuttavia, le caratteristiche sensibili del pane e del vino, cioè le «specie eucaristiche», rimangono inalterate.

Per capire questa definizione, che costituisce una delle vette del surrealismo teologico, bisogna naturalmente comprendere il concetto di «sostanza», che è a sua volta una delle vette del surrealismo fìlosofìco. L'idea risale ad Aristotele, che distinse nelle cose la loro vera « essenza » (in greco oysia, tradotta in latino appunto con substantia) dai loro inessenziali « accidenti»: ad esempio, nell'ostia, il suo astratto «essere ostia» dalle concrete proprietà di essere costituita di pane di frumento, e di avere colore bianco e forma rotonda.

Il letterale surrealismo della faccenda sta nel fatto di credere che le essenze delle cose abbiano un'esistenza indipendente dai loro accidenti: anzi, che quelle costituiscano in un certo senso la « vera » realtà metafisica, al di là dell'« apparente » realtà fìsica che sì manifesta in questi. Una credenza filosofica ancora in voga durante la Scolastica, che trovò appunto la sua applicazione teologica nella dottrina della transustanziazione, secondo la quale la consacrazione dell'ostia lascia invariati gli accidenti del pane, ma ne muta la sostanza in quella del corpo di Cristo.

Ma una credenza che si è da tempo dissolta come neve al sole del pensiero moderno. Oggi, infatti, la linguistica identifica semplicemente le sostanze e gli accidenti con i soggetti e i predicati del discorso, indicati rispettivamente dai sostantivi e dagli aggettivi: non a caso, « sostanza » e « sostantivo » significano entrambi ciò che « sta sotto » (dal latino sub, « sotto », e stare, « stare ») il discorso, e « accidente » e « aggettivo » ciò che « è caduto » (da accidere, « cadere addosso ») o « è stato gettato » (da tacere, « gettare ») sui soggetti.

La logica e la matematica, poi, decostruiscono la sostanza negli accidenti, riducendo l'essenza delle cose a sottoinsiemi delle loro proprietà: più precisamente, a insiemi minimali di proprietà dalle quali tutte le altre discendono. Ad esempio, le infinite proprietà accidentali dello spazio euclideo sono assiomatizzabili mediante un numero finito di proprietà essenziali, dalle quali si possono derivare completamente tutte le altre. Tra l'altro, poiché le possibili assiomatizzazioni complete sono molte, e variamente incompatibili fra loro, non si può più nemmeno parlare di « essenza » di una cosa, al singolare, e bisogna invece parlare di « essenze », al plurale: tutte contingenti, e nessuna necessaria.

La scienza, infine, identifica analogamente la sostanza con la struttura delle cose e gli accidenti con la loro sovrastruttura: in particolare, riducendo la sostanza a una descrizione fisico-chimica, espressa attraverso una formula o un progetto. Il che sicuramente non esclude la possibilità di letterali trans ustanziazioni: al contrario, esse accadono, senza miracoli, ogni volta che una reazione chimica produce la trasformazione di una sostanza in un'altra, semplicemente ricombinando gli stessi componenti in un nuovo composto. Ma altrettanto sicuramente esclude che sia possibile, o anche solo sensato, parlare di transustanziazione da una struttura di amidi come l'ostia a una di proteine come la carne, senza cambiare gli uni nelle altre: per non parlare, naturalmente, del fatto che la struttura della carne di Cristo dovrebbe essere racchiusa in un DNA umano, che naturalmente non è presente in un'ostia.

Il dogma della transustanziazione fa dunque a pugni con l'intero pensiero moderno, e in particolare con la riduzione delle sostanze agli accidenti tipica della scienza in generale, e dell'atomismo chimico in particolare. Un conflitto, questo, che venne alla luce fin dal 1623, quando nel Saggiatore Galileo prese apertamente posizione a favore di questa riduzione:

Per tanto io dico che ben sento tirarmi dalla necessità, subito che concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch'ella è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch'ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch'ella è in questo o quel luogo, in questo o quel tempo, ch'ella si muove o sta ferma, ch'ella tocca o non tocca un altro corpo, ch'ella è una, poche o molte, né per veruna immaginazione posso separarla da queste condizioni.

Rimane un'ipotesi che proprio tale conflitto sia stato la causa sostanziale del processo a Galileo del 1633, dietro l'accusa accidentale di eliocentrismo. Ma è un fatto che la dottrina cattolica dell'Eucarestia si basi su un anacronismo filosofico che viene ormai visto come incompatibile non solo con la razionalità scientifica, ma anche con la semplice ragionevolezza teologica: lo sanno benissimo anche i papi, che infatti se ne lamentano. Pio XII nel 1950, ad esempio, nell'enciclica Humani Generis («Del Genere Umano»):

Né mancano coloro che sostengono che la dottrina della transustanziazione, in quanto fondata su un concetto antiquato di sostanza, dev'essere corretta in modo da ridurre la presenza reale di Cristo nell'Eucarestia a un simbolismo.

O Paolo VI nel 1965, nell'enciclica Mysterium Fidei (« II mistero della fede»):

Chi potrebbe tollerare che le formule dogmatiche usate dai Concili Ecumenici per i misteri della Santissima Trinità e dell'Incarnazione siano giudicate non più adatte agli uomini del nostro tempo? [...] Quelle formule esprimono concerti che non sono legati a una certa forma di cultura, non a una determinata fase di progresso scientifico, non all'una o all'altra scuola teologica, ma presentano ciò che la mente umana percepisce della realtà nell'universale e necessaria esperienza: e però tali formule sono intelligibili per gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi.

Sarà. Ma certo cosi non è, visto che tra i Cristiani occidentali i Cattolici sono rimasti soli nel ritenere la presenza di Cristo nell'Eucarestia « vera, reale, sostanziale e transustanziale », secondo la formula stabilita dal Concilio di Trento nel 1551 e ribadita nel Catechismo. Una formula costruita apposta per imporre un'interpretazione letterale del racconto dell'Ultima Cena, da contrapporre alle varie interpretazioni letterarie, più acute o meno ottuse, proposte dai Protestanti.

Ad esempio, gli Zwingliani leggono quella storia come puramente simbolica, e vedono l'Eucarestia come una rappresentazione, figurativa. I Calvinisti credono che nell'ostia Cristo sia presente in maniera virtuale per i soli credenti, e che costituisca idolatria adorarla autonomamente. I Luterani ritengono che la sostanza del corpo di Cristo non si sostituisca a quella del pane, ma vada ad aggiungersi a essa in una sorta di consustanzialità.

La posizione più radicale, e dunque più razionale, è però quella degli Anglicani, che la mutuano dal famoso « argomento di buon senso» proposto nel 1684 dall'arcivescovo di Canterbury John Tillotson nel Discorso contro la transustanziazione. L'argomento si limita all'osservazione che se veramente esistessero ostie aventi tutti gli accidenti del pane ma la sostanza della carne, allora verrebbe meno la possibilità di ogni conoscenza sensibile, perché di qualunque cosa si potrebbe dubitare che essa sia in realtà completamente divetsa da ciò che appare. E verrebbe meno anche la possibilità dell'Eucarestia stessa, perché se non c'è modo di verifìcare dopo la consacrazione che la sostanza di un'ostia è quella della carne, non c'è neppure modo di verificareprima che essa sia quella del pane, come invece dev'essere per le regole del gioco.

L'argomento dì Tillotson fu poi ripreso nel 1781 da Immanuel Kant nella Crìtica della ragion pura, per smontare in maniera analoga la cosiddetta ontologica dell'esistenza di Dio proposta nel 1077 da Anselmo d'Aosta nel Proslogion. La prova consisteva semplicemente nel definire Dio come un essere perfettissimo, alla maniera del Catechismo, e nel dedurre che esso esiste perché l'esistenza è una perfezione. L'argomento di Kant si limita all'osservazione che se l'esistenza fosse una perfezione, o più in generale una proprietà o un accidente, allora verrebbe meno la possibilità di ogni affermazione esistenziale, perché dire di qualunque cosa che esiste le aggiungerebbe una proprietà, e la farebbe diventare diversa dalla cosa di cui si afferma l'esistenza.

Tornando alla transustanziazione, i Cristiani orientali ne accettano la dottrina ma evitano di usarne la terminologia, preferendo parlare di metabolismo, «mutamento» o «mutazione»: usando, ironicamente, un termine sotto il quale oggi ricadono i processi biologici di trasformazione di un cibo come l'ostia in un tessuto come la carne. Così come preferiscono professare un sedicente Pio Silenzio sul preciso momento in cui avverrebbe il cambiamento di sostanza: momento che, come abbiamo già visto, gli onniscienti Cattolici sanno invece situarsi « nella preghiera eucaristica », ovvero all'atto della pronuncia di una formula magica da parte di un sacerdote.

Il quale, secondo il Catechismo, dev'essere maschio e celibe. Maschio, perché tutti gli apostoli lo erano. E celibe, nonostante alcuni di loro non lo fossero: nemmeno Pietro, primo papa, di cui nei Vangeli appare persine la suocera, che Gesù guarisce dalla febbre in un miracolo-aspirina. E nonostante persine Paolo si chiedesse retoricamente, nella Prima lettera ai Corinzi « Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Pietro? » Anche se, a proposito del matrimonio, nella stessa lettera aveva già detto in generale:

Io vorrei vedervi senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso! [...] Questo io dico per il vostro bene, non per gettarvi un laccio, ma per indirizzarvi a ciò che è degno e vi tiene uniti al Signore senza distrazioni. [...] In conclusione, colui che sposa la sua vergine fa bene, e chi non la sposa fa meglio.

Nel primo millennio, comunque, nessuna richiesta di celibato fu formalizzata da nessuna Chiesa, né occidentale né orientale. Anche se, fin dagli inizi, per motivi di purità rituale venne interdetto ai celebranti il rapporto sessuale nella notte precedente la celebrazione, facendo tradizionalmente riferimento a due versetti del Lenitico: « la donna e l'uomo che abbiano avuto un rapporto con emissione seminale saranno immondi fino a sera », e « nessun uomo della stirpe di Aronne che abbia avuto un'emissione seminale potrà mangiare le cose sante finché non sia mondo ».

Norme di castità sessuale furono stabilite a partire dai IV secolo, ma non per questo i preti cessarono di essere mariti, amanti e padri. Ad esempio, tra i papi del primo millennio una dozzina erano figli di sacerdoti, e quattro addirittura di altri papi: Innocenzo I (401-417), Silverio (536-537), Anastasio III (911-913) e Giovanni XI (931-935), rispettivamente figli di Anastasio I (399-401), Ormisda (514-523) e Sergio III (904-911). E le abitudini erano tanto diffuse che, quando papa Gregorio VII emanò un primo decreto di celibato nel 1074, il clero europeo si ribellò violentemente, soprattutto in Germania, Francia e Spagna.

Il decreto fu poi reiterato in varie forme dai Concili Lateranensi, a partire dal 1139, e dal Concilio di Trento nel 1563. Ma solo nel 1965 il Concilio Vaticano II riconobbe che la motivazione di purità sessuale, ispirata al motto di Gerolamo omnis coitus immundus, « ogni scopata è una porcata », era insostenibile e andava sostituita con un richiamo al motto di Gesù: « Lasciate la moglie per il Regno di Dio ». In seguito, la regola è stata confermata ripetutamente, dall'enciclica del 1967 di Paolo VI Sacerdotali! Caelibatus (« Il Celibato Sacerdotale ») all'esortazione apostolica del 1992 di Giovanni Paolo II Pastores Dabo Vobis (« Vi darò Pastori »), ma mai in maniera dottrinale: in altre parole, la strada rimane aperta a eventuali future correzioni di rotta.

Grazie a questa ostinazione, comunque, anche sulla questione del celibato sacerdotale i Cattolici occidentali risultano oggi isolati da tutti gli altri Cristiani. Non solo dai Protestanti, che non pongono restrizioni di sorta al mattimonio di preti e vescovi (tra parentesi, Zwingli, Calvino e Lutero erano tutti sposati). Ma anche dagli Ortodossi e dai Cattolici Orientali, che permettono l'ordinazione di uomini sposati, benché non il matrimonio di preti celibi.

Se i Cattolici oppongono tali resistenze al matrimonio sacerdotale, possiamo immaginarci cosa pensino del sacerdozio femminile. Ma l'ostracismo delle donne dall'altare non deve sempre essere stato completo, se nel ptimo secolo Paolo raccomandava una diaconessa nella Lettera ai Romani:''' E se nel 494 e 1210 i papi Gelasio I e Innocenze III inviavano lettere, rispettivamente ai vescovi dell'Italia meridionale e della Spagna, lamentandosi di aver appreso che delle donne erano state ammesse a sacris altarìbus ministrare, « officiare ai sacri altari ».

Per non parlare, poi, del fatto che nell'853 una donna sembra essere addirittura diventata papa, col nome di Giovanni VIII: la famosa Papessa Giovanna, appunto. Caduta da cavallo durante la processione di Pasqua, mentre era incinta di uno dei suoi amanti, partorì prematuramente e fu linciata dalla folla inferocita. Il suo successore Benedetto III ne cancellò la memoria storica, e il nome di Giovanni VIII venne riassunto qualche anno dopo da un altro papa. Ma per pararsi le spalle, da allora il neoeletto papa viene fatto sedere su un sedile bucato (come la sedia stercoraria in porfido su cui ancor oggi si introna quando prende possesso di San Giovanni in Laterano), e proclamato solo dopo che un giovane diacono annuncia, dopo averlo tastato intimamente: Testiculos habet! « Ha le palle! » al che i cardinali rispondono: Dea granasi « Meno male! » O almeno così narra la leggenda.

Leggende a parte, è sicuramente un fatto che nel 1970, nell'autunno politico che segui la Primavera di Praga del 1968, la Chiesa Clandestina Cecoslovacca si ritenne costretta a ordinare segretamente alcune donne, oltre ad alcuni uomini sposati. Qualche anno dopo Paolo VI incaricò la Commissione Biblica Vaticana, presieduta dal Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, di studiate il problema del sacerdozio femminile. Nell'aprile 1976 essa stabilì all'unanimità (17 a 0) che « il Nuovo Testamento non dice chiaramente e definitivamente se le donne possano essere ordinate», e a maggioranza (12 a 5) che « le Scritture da sole non escludono la possibilità », e che « permettere il sacerdozio femminile non trasgredirebbe il piano di Cristo ».

Come aveva già fatto per gli anticoncezionali, anche per l'ordinazione femminile Paolo VI decise comunque di ignorare le conclusioni della Commissione, e fece emanare nel dicembre 1976 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede la Dichiarazione Inter Insigniores (« Tra i Fenomeni »), che stabiliva: « La Chiesa, fedele all'esempio del Signore, non si considera autorizzata ad ammettere le donne all'ordinazione sacerdotale ».

Nel 1994 Giovanni Paolo II, nella Lettera Apostolica Ordinario Sacerdotali (« L'Ordinazione Sacerdotale »), precisò: « La Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l'ordinazione sacerdotale, e questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo [definitive tenendo} da tutti i fedeli della Chiesa ». In altre parole, la strada del sacerdozio femminile è irrevocabilmente sbarrata, perché sull'argomento la Chiesa si e pronunciata in maniera infallibile. Cosa confermata ufficialmente il 28 ottobre 1995 dall'allora cardinale Ratzinger in una Risposta su un dubbio al proposito: « Questa dottrina esige un assenso definitivo » e « si deve tenere sempre e ovunque da tutti i fedeli, in quanto appartenente al deposito della fede ».

Non a caso, quando una delle sacerdotesse cecoslovacche uscì allo scoperto nel 1995, raccontando di aver esercitato il ministero fino alla Rivoluzione di Velluto del 1989, il cardinale Miroslav Vlk, arcivescovo di Praga, dichiarò nulla la sua ordinazione. Nel 1997 ventidue dei preti sposati cecoslovacchi vennero invece riordinati sub candidane nel rito Cattolico d'Oriente, nel senso che la nuova ordinazione sarebbe stata valida se, e solo se, la prima fosse stata invalida, cosa di cui non si era ben sicuri. Nel 2002, infine, sette donne ordinate il 26 giugno in Austria vennero immediatamente scomunicate il 5 agosto dal cardinale Ratzinger. Tipici esempi, questi, del sessista sistema a due pesi e due misure adottato dalla Chiesa Cattolica nei confronti di maschi e femmine, anche nel sacerdozio.

Naturalmente questo sistema non preoccupa gli altri Cristiani, che seguono comunque tranquillamente le loro strade. Gli Anglicani, ad esempio, hanno ordinato le prime donne sacerdote a Hong Kong nel 1944, negli Stati Uniti nel 1974 e in Inghilterra nel 1994, e la prima donna vescovo nel 1989, negli Stati Uniti. Ma tra i Protestanti in generale, le prime ordinazioni femminili risalgono addirittura al 1810, mentre nel 1999 l'Associazione Universalista Unitaria è diventata la prima chiesa in cui il clero femminile supera quello maschile. Gli Ortodossi, invece, per una volta seguono i Cattolici e non permettono donne sacerdote, benché come abbiamo visto ammettano sacerdoti sposati.

Le Indulgenze e il Purgatorio

Una cosa bisogna però riconoscerla, ed è che Gregorio VII e i suoi immediati successori speravano di sanare con il celibato ecclesiastico il vizio della simonia, che essi ritenevano collegato al matrimonio: anche se, abolendo figli e nipoti, si poteva al massimo ottenere di abolire il nepotismo. Ma non si ottenne neppure questo, naturalmente, neanche per i papi: ad esempio, Alessandro VI Borgia (1492-1503) era nipote (figlio della sorella) di Gallisto III (1455-1458), e Paolo III Farnese (1534-1549) fratello dell'amante di Alessandro VI. Per inciso, fino a tutto il Cinquecento i papi continuarono tranquillamente ad avere figli: ad esempio, oltre ai già citati Alessandro VI (che ne ebbe addirittura nove) e Paolo III, anche Giulio II (1503-1513), Pio IV (1559-1565) e Gregorio XIII (1572-1585).

Quanto alla simonia, essa prende il nome da « un tale di nome Simone, dedito alla magia », del quale gli Atti degli Apostoli narrano che volesse farsi insegnare dai dodici qualche trucchetto a pagamento:

Simone, vedendo che lo Spirito veniva conferito con l'imposizione delle mani dagli apostoli, offrì loro denaro dicendo: « Date anche a me questo potere perché a chiunque imponga le mani egli riceva lo Spirito Santo ». Ma Pietro gli rispose: « Il tuo denaro vada con te in perdizione, perché hai osato pensare di acquistare con denaro il dono di Dio ».

I successori medioevali di Pietro furono meno schizzinosi, e vendettero tutto ciò che poterono, spesso dopo averlo a loro volta comprato: titoli, cariche, assoluzioni, indulgenze e canonizzazioni. A cavallo fra il Duecento e il Trecento la pratica era talmente degenerata, che persine il pio Dante vide nella Chiesa la grande meretrice annunciata nell'Apocalisse dedita a «puttaneggiar coi regi », e mandò tre papi a sgambettare a testa in giù nella terza bolgia dell'ottavo cerchio dell'Inferno: Nicola III (1277-1280), Bonifacio VIII (1294-1303) e Clemente V (1305-1314).

Non si può però cavarsela troppo facilmente, con la scusa che « quelli erano altri tempi », visto che anche di questi tempi la Chiesa Cattolica continua a far girare la macchina della simonia a pieno regime. E non solo in maniera indiretta, producendo per sé e altri l'indotto di sacramenti come i battesimi, le cresime e i matrimoni, o di cerimonie come i funerali e le messe di suffragio. Ma anche in maniera diretta, incassando gli introiti da slot machine dei ceri e delle indulgenze, e da casinò dei santuari e dei giubilei.

A proposito delle indulgenze, anticamente esse erano sconti di pena che venivano concessi ai peccatori per evitare o abbreviare la loro permanenza nell'orafo poenitentium, « ordine dei penitenti »: una dura condanna all'ostracismo sociale e alle penitenze corporali, comminata in espiazione di peccati particolarmente gravi quali l'adulterio, l'omicidio o l'apostasia. In origine l'indulgenza veniva concessa dietro presentazione di un li-bellum pacis da parte di un fedele in attesa di martirio, che offriva il proprio sacrificio in espiazione dei peccati altrui, alla maniera di Cristo.

In seguito sia le pene per i peccati che le indulgenze per i peccatori divennero sempre più annacquate: le prime si ridussero ad azioni simboliche, quali la recita di preghiere e giaculatorie o la visita a chiese e santuari, e le seconde furono concesse attivando un ideale Tesoro dei Santi nel quale convergevano tutti i loro crediti, e dal quale potevano attingere i peccatori per pagare i loro debiti. Insomma, un vero e proprio capitalismo spirituale basato sulla divisione del lavoro e lo sfruttamento della santità, all'insegna del motto: «I furbi peccano e i fessi espiano».

La simonia, in tutto questo, entrò quando la Chiesa incominciò a intendere il Tesoro dei Santi in maniera letterale, invece che metaforica: in particolare, a permettere ai peccatori di farvi prelevamenti di indulgenze spirituali in cambio di versamenti di denaro materiale, e a organizzare un aggressivo recupero crediti significativamente chiamato questua, « ricerca ». A rendere più gravoso l'onere per i fedeli ci si misero poi anche le autorità secolari, che a loro volta pretesero di riscuotere tasse su un mercato che veniva bandito nei templi delle loro città e istituirono una specie di IVA, « Imposta sul Valore Apostolico ».

I piccoli e grandi risparmiatori che rimpinguavano le casse del Tesoro celeste a forza di buone azioni erano, come abbiamo detto, i santi. Agli inizi del Cristianesimo la parola (dal latino sanctum, « sancito », participio di sancire) indicava semplicemente i fedeli, come nel giudizio « tutto il male che ha fatto ai santi in Gerusalemme », o nell'indirizzo: «Ai santi che sono in Efeso, credenti in Cristo Gesù ». In seguito passò a indicare i martiri, e dopo la fine delle persecuzioni fu estesa a varie altre categorie, dalle vergini ai dottori della Chiesa: tutte accomunate dall'aver professato la fede in maniera eccezionale, e dall'essere oggetto di una devozione che presto sfociò nel totemismo delle reliquie e nel relativo commercio, complementare a quello delle indulgenze.

Naturalmente, molti dei santi tradizionali risalenti ai primi secoli non sono mai neppure esistiti, e oggi vengono eufemisticamente chiamati « non storici »: alcuni, in particolare, sono semplici annessioni di divinità pagane, come la celtica Brigida. Per rimediare, a partire dal 993 fu istituito un registro ufficiale dei santi, inaugurato con la canonizzazione di Ulrico di Augusta: una cerimonia che è l'evidente analogo moderno dell'antica apoteosi pagana, nonostante i dotti distinguo tracciati nel 1738 da Prospero Lambertini, poi Benedetto XIV, nel suo studio De Servorum Dei beatificatione et Beatorum canonizatione (« Beatificazione dei Servi di Dio e canonizzazione dei Beati»).

In ogni caso, pagana o no che sia, la canonizzazione richiede, fra le altre cose, la concessione di un miracolo da parte del candidato santo, oltre a un ulteriore miracolo per la sua precedente beatificazione, che sarebbe una specie di « sottosantità » inventata nel secolo XIV: si potrebbe dunque pensare che oggi, in piena era tecnologica, queste cose siano passate di moda. E invece, Giovanni Paolo II ha proclamato nel suo pontificato ben 1338 beati e 482 santi: cioè, da solo, più dei 1319 beati e 296 santi di tutti i suoi predecessori dal 1588, anno in cui Sisto V istituì la Congregazione dei Riti e fissò le procedure moderne. Ma questa addizione di contribuenti al Tesoro dei Santi è niente in confronto al vero miracolo della moltiplicazione dei suoi clienti, ottenuta attraverso il colpo di genio dell'invenzione del Purgatorio: un'area di parcheggio per le anime dei defunti, costrette a sopportare le pene dell'Inferno in attesa delle delizie del Paradiso. Si creava così il più grande mercato possibile della storia, perché i suoi potenziali consumatori includevano l'intera umanità: non solo la presente, come nell'attuale globalizzazione, ma anche quella ormai trapassata!

La moneta ufficiale delle transazioni di questo mercato delle indulgenze era il tempo, misurato in giorni: ancora nel 1903 Pio X specificava che i cardinali potevano elargirne 200 all'anno, gli arcivescovi 100 e i vescovi 50. Teoricamente il periodo indicava la remissione che si sarebbe ottenuta con una penitenza di quella durata, ma in pratica esso finì per essere interpretato come un equivalente condono di pena nel Purgatorio. Questa quantificazione temporale rimase in vigore fino al 1967, quando Paolo VI l'abolì con la Costituzione Apostolica Indulgentiarum Dottrina (« La Dottrina delle Indulgenze»).

L'abolizione del Purgatorio stesso, invece, sarebbe più complicata: la Chiesa si è infatti legata le mani definendone la dottrina nel Concilio di Lione del 1245 e proclamandone l'esistenza come dogma nel Concilio di Firenze del 1439, con decisioni poi ribadite nel 1563 dal Concilio di Trento. In realtà, però, l'unica menzione della Bibbia sensatamente addotta a sostegno della dottrina è un passo del Secondo libro dei Maccabei^ lo stesso nel quale si trova anche l'unico brano addotto a sostegno della dottrina della creazione dal nulla: un libro veramente provvidenziale, non c'è che dire!

Il brano in questione, che l'edizione ufficiale CEI conferma essere « alla base della dottrina cristiana del Purgatorio e dei suffragi per i defunti », dice:

Poi, fatta una colletta, con un tanto a testa, per circa duemila dracme d'argento, le inviò a Gerusalemme perché fosse offerto un sacrifìcio espiatorio, compiendo così un'azione molto buona e nobile, suggerita dal pensiero della risurrezione. Perché se non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti. Ma se egli considerava la magnifica ricompensa riservata a coloro che si addormentano nella morte con sentimenti di pietà, la sua considerazione era santa e devota. Perciò egli fece offrire il sacrifìcio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato.

Ma poiché i Protestanti considetano apocrifo quel libro, essi non credono nel Purgatorio. E non ci ctedono neppure gli Ortodossi, per non parlare delle persone sensate: si tratta infatti di un imbarazzante anacronismo, sul quale persine la Chiesa oggi cerca di minimizzare. Giovanni Paolo II, ad esempio, in tre udienze del Mercoledì dedicate ai tre Regni dell'Aldilà, ha dichiarato che essi sono « situazioni, più che luoghi »: più precisamente, il Paradiso « la pienezza di intimità con Dio », l'Inferno « il rifiuto definitivo di Dio », e il Purgatorio « la necessaria purificazione per l'incontro con Dio ». E il Catechismo gli fa eco, stabilendo: II Purgatorio è lo stato di quanti muoiono nell'amicizia di Dio, ma, benché sicuri della loro salvezza eterna, hanno ancora bisogno di purificazione, per entrare nella beatitudine celeste.

Meglio tardi che mai, verrebbe da dire, almeno per il declassamento del Purgatorio a stato da luogo. Se non fosse che lo stesso Catechismo0 continua:

In virtù della comunione dei santi, i fedeli ancora pellegrini sulla terra possono aiutare le anime del Purgatorio offrendo per loro preghiere di suffragio, in particolare il Sacrificio eucaristico, ma anche elemosine, indulgenze e opere di penitenza.

E se non fosse che è stato lo stesso Giovanni Paolo II a indire, nel 2000, quello che per ora è l'ultimo giubileo della stona: il ventottesimo, cioè, di quei carnevali simoniaci inaugurati nel 1300 da Bonifacio VIII, che permisero al mercato delle indulgenze di passare dal piccolo commercio locale alla grande industria globalizzata. Anche se, questa volta, i precedenti biblici ci sono. Anzi, la parola stessa deriva dall'ebraico yobel, « corno d'ariete », e ricorda lo strumento col quale veniva salutato l'inizio dell'anno di celebrazioni prescritto dal Levitimi:

Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina, né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete la vendemmia delle vigne non potate. Poiché è il giubileo, esso vi sarà sacro; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi. In quest'anno del giubileo ciascuno tornerà in possesso del suo.

Di ben diverso tenore era la bolla Antiquorum habetfida relatio (« C'è una relazione degna di fede degli antichi »), che Bonifacio VIII emanò il 22 febbraio 1300. In essa, infatti, a tutti coloro che avessero visitato durante l'anno le due basiliche di San Pietro e San Paolo (e, nei giubilei successivi, anche quelle di San Giovanni in Latetano e Santa Maria Maggiore) veniva assicurata l'indulgenza plenaria: cioè il condono totale di tutti i debiti accumulati fino a quel momento, che a partire dal 1095 con Urbano II i papi avevano già concesso ai « soldati della fede » che partecipavano alle Crociate.

E fu anche un grande successo di cassetta, tanto che la scadenza originaria di 100 anni fissata da Bonifacio VIII non fu mai rispettata, e l'intervallo fu accorciato dapprima a 50 e poi a 25 anni. Nel Novecento, poi, oltre ai quattro giubilei canonici del 1900, 1925, 1950 e 1975 se ne tennero anche altri due aggiuntivi nel 1933 e 1983, in occasione del centenario e del cinquantenario della morte di Cristo. Ma anche, per contrappasso, dell'anniversario della cacciata dei mercanti dal tempio di Gerusalemme: i quali non erano che poveri dilettanti, se paragonati ai professionisti della Curia romana.

Le indulgenze in particolare, e l'indulgere in generale in attività pratiche sempre più immorali e in elaborazioni teoriche sempre più assurde, hanno quindi periodicamente portato la Chiesa a essere percepita come un imbarazzo sia per la fede che per la ragione, con conseguenti periodiche reazioni di rigetto.

Francesco d'Assisi, ad esempio, propose un ritorno alla povertà evangelica e nel 1210 ottenne da papa Innocenze III il permesso di fondare l'ordine mendicante dei Francescani. Alla sua morte ci fu però un'immediata scissione nei due rami degli « spirituali » e dei « conventuali », solo il primo dei quali seguì gli ideali di ascetismo proposti dal fondatore. In seguito a essi si aggiunse una terza via mediana, quella dei « cappuccini », ma i tre ordini francescani sono sempre rimasti completamente integrati nella Chiesa, fornendo semplicemente una « copertura a sinistra » delle sue degenerazioni.

A un estremo, ad esempio, lo stesso Francesco d'Assisi non disdegnò di avallare le avventure belliche delle Crociate: non solo partendo per la Puglia nel 1204 per arruolarsi, in un tentativo allora frustrato da una sopraggiunta illuminazione, ma anche andando in Egitto nel 1219 al seguito della Quinta Crociata e inneggiando alla « guerra giusta », pur deplorandone gli eccessi. Secondo la testimonianza di prima mano di frate Illuminato da Rieti, egli disse infatti al sultano: « I Cristiani agiscono secondo giustizia quando invadono le vostre terre e combattono, perché voi bestemmiate il nome di Cristo e vi adoperate ad allontanare dalla religione di lui quanti più uomini potete ».

All'altro estremo, ancor oggi la Chiesa gestisce business miliardari imbanditi attorno ai supposti miracoli di vari francescani, da Antonio da Padova (1195-1227) a Padre Pio da Pietrelcina (1887-1968). Quest'ultimo, ad esempio, era stato ufficialmente smascherato come truffatore dal Sant'Uffizio il 31 maggio 1923, ma fu ufficiosamente reintegrato nel 1964 da Paolo VI in cambio del passaggio di proprietà alla Santa Sede delle sue molteplici attività finanziarie, e fu canonizzato da Giovanni Paolo II nel 2002, due anni dopo essere stato beatificato in una delle più mediatiche cerimonie del Giubileo del 2000.

Più seria di quella di Francesco d'Assisi, anche perché più radicale, fu invece la reazione di Martin Lutero al mercato delle indulgenze bandito in Germania nel 1517 da Leone X per finanziare la ricostruzione della basilica di San Pietro. Quello stesso anno Luterò affisse le sue 95 Tesi sul portone della chiesa di Wittenberg in Sassonia, dicendo finalmente al popolo che il papa era nudo:

43. Si deve insegnare ai cristiani che è meglio dare a un povero, o fare un prestito a un bisognoso, che non acquistare indulgenze.

45. Si deve insegnare ai cristiani che chi vede un bisognoso e lo trascura per comprare indulgenze, si merita non l'indulgenza del papa ma l'indignazione di Dio.

50. Si deve insegnare ai cristiani che il papa, essendo al corrente delle esazioni dei questori di indulgenze, dovrebbe preferire che la basilica di San Pietro andasse in cenere piuttosto che essere edificata sulla pelle, la carne e le ossa delle sue pecorelle.

86. Perché il papa, le cui ricchezze oggi sono più opulente di quelle del già opulentissimo Grasso, non costruisce la basilica di San Pietro con i propri soldi, invece che con quelli dei poveri fedeli?

Luterò, che era un monaco agostiniano, fu immediatamente convocato a Roma per rendere conto del suo operato, ma si appellò all'elettore Federico III di Sassonia perché le sue tesi venissero invece discusse in Germania: fin dall'inizio la Riforma religiosa acquistò dunque anche una valenza politica e ricevette il non disinteressato appoggio dei principi tedeschi, che vi trovarono l'occasione per espropriare i beni ecclesiastici e incamerarseli.

Nel 1519 la bolla papale Exsurge Domine (« Sorgi, o Signore ») intimò a Luterò di ritrattare le sue tesi entro 60 giorni, ma allo scadere dell'ultimatum egli la bruciò pubblicamente e fu scomunicato. Nel 1521 l'imperatore Carlo V lo convocò di fronte alla Dieta di Worms, ma neppure allora il monaco si piegò: fu allora dichiarato fuorilegge e bandito dall'Impero, ma l'elettore di Sassonia organizzò un fìnto rapimento e gli diede rifugio nel castello di Wartburg.

Qui egli elaborò la dottrina del Luteranesimo, che si può condensare nel motto dei « quattro soli »: Solus Christus, Sola Scriptum, Sola Gratta, Sola Fide, « Solo Cristo, solo la Scrittura, solo la Grazia e solo la Fede». E si può descrivere come una concezione del Cristianesimo in cui il fedele deve vivere un rapporto diretto col Gesù descritto dai Vangeli, invece che uno mediato col Gesù elaborato dalla Chiesa, e ottiene la salvezza soltanto mediante la Fede e la Grazia, invece che attraverso le proprie buone azioni. Anche se, in pratica, la Riforma non fece altro che sostituire vecchie invenzioni, quali la transustanzia-zione o il Purgatorio, con invenzioni nuove, quali il servo arbitrio e la predestinazione.

Si trattava comunque di uno spirito più consono alla ricerca individuale, che finì per permettere e stimolare la nascita della Scienza: questa è infatti geneticamente incompatibile con il dogmatismo e l'imposizione di verità precostituite, e non a caso la Chiesa Cattolica l'ha avversata fin dalla sua nascita, condannando Giordano Bruno a morte nel 1600 e Galileo Galilei agli arresti domiciliari perpetui nel 1633. Ancor oggi, i Cattolici costituiscono solo un'esigua minoranza all'interno dell'esigua minoranza degli scienziati occidentali credenti: perché se la gran maggioranza degli scienziati è area o agnostica (ad esempio, il 93 per cento dei membri dell'Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati Uniti),72 la gran maggioranza dei pochi che credono è ebrea o protestante.

A proposito del termine « protestante », esso deriva dal fatto che quando la Dieta di Spira del 1529 diffidò i principi tedeschi dall'aderire al Luteranesimo, cinque di essi e quattordici città protestarono ufficialmente contro l'imposizione e costituirono la Lega di Smalcalda. Sconfìtta da Carlo V nel 1547, la Lega si alleò con Enrico II e costrinse l'imperatore alla pace di Augusta nel 1555. Questa concesse libertà di culto ai Luterani, ma costrinse anche i sudditi ad adottare la religione del loro principe o emigrare, seminando così una discordia che diede poi come frutto la Guerra dei Trent'anni (1618-1648).

Nel frattempo, la Riforma inaugurata da Luterò aveva attecchito anche al di fuori della Germania. In Svizzera, in particolare, essa fu promossa da Ulrich Zwingli a Zurigo, che vi instaurò una teocrazia ma finì ammazzato nel 1531 nella guerra tra i cantoni riformati e quelli cattolici.

Dieci anni dopo Giovanni Calvino ci riprovò a Ginevra, in maniera più democratica: questa volta egli conquistò l'intero paese, nonostante predicasse balzane teorie come la « doppia predestinazione », secondo la quale a salvare o dannare una persona non sono le azioni che essa compie, ma soltanto il ghiribizzo di Dio. Una teoria che, comunque, era già stata anticipata non solo implicitamente da Luterò, ma anche esplicitamente da Gregorio da Rimini, che nel suo Commento alle « Sentenze » di Pietro Lombardo del 1346 l'aveva ricondotta al versetto di Malachiti « Ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù ». E, prima ancora, da Agostino.

Quanto all'Inghilterra, agli inizi il re Enrico VIII si oppose alla Riforma e si guadagnò addirittura il titolo di Defensor Fidei, « Difensore della Fede », di cui ancor oggi si fregiano i sovrani inglesi. Ma quand'egli decise di divorziare dalla moglie Caterina d'Aragona, che non gli aveva dato eredi, per risposarsi con Anna Bolena, l'opposizione del papa Clemente VII scatenò uno scisma: nel 1534 il re si fece proclamare capo della Chiesa d'Inghilterra, avocò a sé la nomina dei vescovi, espropriò i beni ecclesiastici e perseguitò sia i Cattolici che i Luterani e i Calvinisti. Dopo una breve restaurazione del Cattolicesimo sotto il regno di Maria I (1553-1558), detta «la Cattolica» o «la Sanguinaria » (Bloody Mary) a seconda dei punti di vista, dal regno di Elisabetta I (1558-1603) il Cristianesimo inglese è rimasto separato da quello di Roma ed è diventato una denominazione del Protestantesimo.

Naturalmente, proprio perché la Riforma è nata rifiutando la mediazione di una Chiesa organizzata tra il fedele e Dio, essa si è frantumata in una costellazione di sette grandi e piccole. I Puritani, ad esempio, sono la versione inglese dei Calvinisti e prendono il nome dal fatto di ispirarsi alla « purezza evangelica»: da essi derivano gli Indipendenti e i Quaccheri, che sfuggirono alle persecuzioni inglesi emigrando in Nord America e rondandovi rispettivamente il Massachusetts e la Pennsylvania. Quanto alle credenze, ci sono i Battisti che propugnano il battesimo degli adulti per immersione, i Pentecostali che si richiamano all'esperienza della Pentecoste, gli Avventisti che attendono il sempre prossimo avvento di Cristo, i Testimoni di Geova che prendono il nome dal verso di Isaia « voi siete i miei testimoni », e chi più ne ha più ne metta.

A questa frammentazione del Protestantesimo, che gli ha permesso di adattarsi alle esigenze locali delle aree più evolute e civilizzate dell'Occidente e di conquistare l'intero Nord Europa e Nord America, fa da contrappunto il monolitismo del Cattolicesimo, che gli ha invece conservato il favore dei popoli più ottusi e retrogradi del Sud Europa e del Sud America. Sia il monolitismo che la frammentazione sono conseguenze del fatto matematico che, date n credenze, c'è un unico modo di accettarle tutte, ma ce ne sono 2"—1 di rifiutarne qualcuna, in ogni combinazione possibile: dunque, anche limitandosi a una trentina di dogmi caratteristici del Cattolicesimo, ci sono già un miliardo di possibili sette del Protestantesimo che ne accettano solo alcuni.

Non parliamo poi di quando i dogmi sono in numero talmente grande che richiedono diciott'anni per essere ribaditi tutti. Tanti infatti ne durò il Concilio di Trento, che dal 1545 al 1563 restaurò la dottrina cattolica e confermò innumerevoli pronunciamenti che la Riforma aveva ormai reso anacronistici: dalla verginità della Madonna alla realtà della transustanziazione, dal ruolo delle indulgenze all'esistenza del Purgatorio, dall'indissolubilità del matrimonio al celibato ecclesiastico.

Il Concilio costituì la base teorica della Controriforma, che per venire incontro alle esigenze pratiche della modernità non trovò di meglio che inventare il Sant'Uffizio, allo scopo di coordinare e centralizzare le persecuzioni volte a mietere innumerevoli vittime e infliggere innumerevoli sofferenze. Il tutto, naturalmente, per la maggior gloria di Dio, come sanciva ufficialmente nel 1542 la bolla di indizione di Paolo III Licet ab initio («E lecito dall'inizio»):

Compito della Suprema Sacra Congregazione dell'Inquisizione Romana e Universale è di conservare pura la fede cattolica tenendo lontana ogni eresia, di ricondurre alla Chiesa i deviati dalla verità per inganno diabolico, e di colpire coloro che perseverassero pertinacemente nelle loro dottrine reiette, in modo che la punizione servisse di esempio agli altri.

E, come si vede, era anche lecito all'inizio chiamare questa congregazione a delinquere con un nome onestamente esplicito: fu Pio X a cambiarlo nel 1908 in Suprema Sacra Congregazione del Sant'Uffizio, e nel 1965 Paolo VI lo annacquò ulteriormente in Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede. L'aggettivo «Sacra» si perse poi nel 1988, quando Giovanni Paolo II riformò la Curia con la Costituzione Apostolica Pastor Bonus («II Buon Pastore»).

Una delle migliori invenzioni del Sant'Uffizio fu la promulgazione nel 1559 dell'Indice dei Libri Proibiti, che rimase in vigore fino al 1966. E poiché detenere questi libri divenne la tipica imputazione nei processi di eresia, l'Indice richiese continui aggiornamenti: un'apposita Congregazione dell'Indice fu dunque istituita nel 1571 e «lavorò» fino al 1917, quando le sue mansioni passarono di nuovo al Sant'Uffizio.

Forse niente testimonia la patetica disperazione della Controriforma meglio dell'inclusione nella prima lista di proscrizione del 1559 delle traduzioni in volgare dell'Antico e del Nuovo Testamento, e della proibizione di leggerle a chiunque non ricevesse un'esplicita licenza, che comunque non poteva essere concessa alle donne! Se la Chiesa tremava di fronte alle opere di Dio, figuriamoci di fronte a quelle degli uomini: la lista degli autori che ebbero l'onore di vedere le loro opere messe all'Indice comprende dunque tutta la cultura letteraria, filosofica e scientifica moderna, da credenti quali Galileo, Cartesio e Kant a miscredenti quali Leopardi, Moravia e Sartre. Ed è un vero peccato che oggi l'Indice non ci sia più, perché questo purtroppo impedisce a tutti noi di aspirare a entrarci con le nostre opere.

Così come niente testimonia la patetica disperazione della Chiesa moderna meglio del Sillabo di ottanta « principali errori dell'età nostra » pubblicato da Pio IX nel 1864, che condannava un'insalata russa di « panteismo, naturalismo, razionalismo, liberalismo, indifferentismo, latitudinarismo, socialismo e comunismo ». Un'allergia a tutti gli ismi, questa, di cui soffrono anche i papi attuali: Giovanni Paolo II, ad esempio, che nell'enciclica Fides et Ratto (« Fede e Ragione ») ribadi esplicitamente i pronunciamenti del Concilio Vaticano I contro « razionalismo e fideismo», riprese le condanne di Pio X, XI e XII contro « il fenomenismo, l'immanentismo, l'agnosticismo, il marxismo, l'evoluzionismo e l'esistenzialismo », e censurò di suo «l'eclettismo, lo storicismo, il modernismo, lo scientismo, il pragmatismo, il parlamentarismo e il nichilismo ». O Benedetto XVI, che è riuscito a scovare ancora un altro ismo con cui prendersela nel relativismo, contro il quale si è scagliato a varie riprese, in assolo o in duetto con l'ineffabile ex presidente del Senato Marcelle Pera.

Il Papa

Oggi, più che con i millenari pronunciamenti dottrinali di cui la maggior parte dei fedeli è completamente ignara, il Cattolicesimo si identifica col papa (dal greco pappa, « papa », diminutivo dipater, «padre»): il sedicente «Santo Papa» o «Santo Padre » che, in quanto vescovo di Roma, pretende di essere il « successore di Pietro » e il « vicario di Cristo » in terra. Anche se abbiamo già visto che, da un lato, non ci sono prove che Pietro sia mai stato a Roma, e tanto meno il suo vescovo; e che, dall'altro, la rivendicazione del primato di Pietro si basa comunque sulle solite stiracchiate interpretazioni di un paio di versetti biblici scelti ad arte: inprimis, sul « tu sei una pietra [petros], e su questa roccia [petra] edificherò la mia Chiesa».

Di queste parole, però, fornisce un'interpretazione autentica la stessa Prima lettera di Pietro « Stringendovi al Signore, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edifìcio spirituale, per un sacerdozio santo ». Per inciso, tutti questi riferimenti alle pietre sono una citazione di Isaia:

« Ecco, io pongo una pietra in Sion, una pietra scelta, angolare, preziosa, saldamente fondata, e chi crede in essa non vacillerà».

In ogni caso, secondo la sensata interpretazione di Pietro il detto di Gesù significava soltanto che la Chiesa era stata fondata sulla pietra angolare di Cristo, e doveva essere costruita con le pietre vive dei fedeli.

È comunque un fatto che il primato del vescovo di Roma in quanto « successore di Pietro » sia un'invenzione tarda: il titolo è infatti stato usato per la prima volta soltanto nel 451 per il megalomane Leone I Magno dal Concilio, di Calcedonia, che nel famoso Canone 28 (ancor oggi « dimenticato » dalle raccolte ufficiali di testi e documenti della Chiesa Cattolica, come Venchirìdion Symbolorum, « Manuale delle professioni di fede ») stabilì allo stesso tempo anche Sparita di primato per i vescovi di Roma e Costantinopoli. Ancora più tardo è il titolo di « vicario di Cristo », usato per la prima volta nel 495 per Gelasio I dal Sinodo di Roma.

Ed è un fatto che il supposto trono di Pietro, decorato con i segni dello Zodiaco e le fatiche di Èrcole, ed esposto in pompa magna come una reliquia nel complesso della Cattedra di San Pietro del Bernini, è invece un regalo a papa Giovanni VIII di Carlo il Calvo in occasione della propria incoronazione imperiale nell'875. Il che non impedisce alla Chiesa di continuare a venerare la Cattedra il 22 febbraio, nello stesso giorno in cui gli antichi romani veneravano i propri defunti con un banchetto nei pressi delle loro tombe, lasciando doverosamente un seggio (cathedra) vuoto per loro.

Di origine altrettanto pagana è il primo attributo speciale che il vescovo di Roma ricevette: Pontifex Maximus, « Sommo Pontefice », un termine che anticamente indicava il « Pontiere Capo », cioè il sovrintendente ai ponti di Roma. In seguito, anche a causa del fatto che il fiume Tevere era considerato una divinità, passò a indicare metaforicamente il « Grande Ermeneuta »: un analogo umano del dio Hermes, cioè, che stabiliva un ponte di collegamento tra le divinità e gli uomini. Infine, divenne il titolo della massima carica religiosa romana: un incarico a vita ricoperto, fra gli altri, da Muzio Scevola, Giulio Cesare e Cesare Augusto. A partire da quest'ultimo il Sommo Pontefice fu l'imperatore, e tale rimase fin oltre l'avvento del Cristianesimo di Stato.

Per colmo dell'ironia, la prima applicazione del termine a un papa fu sarcastica: la fece Tertulliano verso il 220, parlando di un editto di Callisto I come « emanato dal Sommo Pontefice, cioè il Vescovo dei Vescovi ». Ma nel 376 l'imperatore Graziano trasmise seriamente quel titolo al papa Damaso I, separando così le prerogative statali da quelle religiose. E ancor oggi il papa continua a fregiarsene e a vestirsi di bianco come i pontefici latini, anche se per un motivo diverso: fino al 1566 i papi si vestivano infatti di rosso come tutti i cardinali, ma alla sua elezione il domenicano Pio V decise di tenere la veste del suo ordine, con un'innovazione stilistica che fu poi mantenuta dai suoi successori.

A proposito di cardinali, il termine agli inizi del Cristianesimo significava letteralmente « incardinato » e indicava semplicemente qualunque prete assegnato a una parrocchia. Solo col tempo esso passò a indicare metaforicamente un diacono, un prete o un vescovo che aveva una qualche funzione « cardine »: una tripartizione che si è mantenuta fino ai nostri giorni nel Sacro Collegio i cui membri sono simbolicamente suddivisi in cardinali-diaconi, cardinali-preti e cardinali-vescovi.

Ad esempio, è il decano dei cardinali-diaconi ad annunciare ai fedeli l'elezione del nuovo papa con le parole: Nuntio vobis gaudium magnum: habemuspapam, «Vi annunzio una grande gioia: abbiamo il papa», modestamente ispirate a quelle dell'angelo che annunciò ai pastori la nascita di Gesù, e usate per la prima volta nel 1484 per l'elezione di Innocenze VIII.

Quanto all'elezione del papa, appunto, in origine erano semplicemente i fedeli di Roma a scegliere il proprio vescovo all'interno della propria diocesi: per averne uno non romano si dovette attendere Marino I, nell'882. L'elezione fu riservata al clero nel 336, ristretta da Niccolo II ai cardinali-vescovi nel 1059, e riallargata dal Terzo Concilio Lateranense a tutti i cat-dinali nel 1179: anche se a volte questi rimanevano comunque piuttosto pochi, come i dodici che nel 1292 elessero Celestino V, il papa che dopo soli quattro mesi « fece per viltade il gran rifiuto ».

Forse a causa del fatto che è difficile costringere poche persone ambiziose a promuoverne una sola fra loro, a volte la sede vacante durò piuttosto a lungo: come nei 33 mesi tra il 1268 e il 1271 in cui gli elettori non riuscirono a mettersi d'accordo, fino a quando non furono rinchiusi a oltranza nel palazzo vescovile di Viterbo ed elessero immediatamente Gregorio X. Poiché le maniere forti avevano funzionato, nel 1274 il Secondo Concilio di Lione stabilì che da allora in poi l'elezione del papa doveva avvenire appunto in conclave, cioè « sotto chiave » (dal latino cum clave).

Per continuare coi record, i papati storici variano dai 13 giorni di Urbano VII (1590) agli 11.560 giorni di Pio IX (1846-1878). Il papa più giovane fu Benedetto IX, eletto nel 1032 a un'età variamente riportata tra gli undici e i vent'anni, e il suo triplice papato (1033-1044, 1045 e 1047-1048) fu anche il più movimentato: egli lo perse infatti a favore di Silvestre III (1044-1045), lo riconquistò, lo vendette a Gregorio VI (1045-1046), se lo riprese ma fu esautorato dal Concilio di Sutri in favore di Clemente II (1046-1047), e ritornò in sella un'ultima volta, prima di essere scomunicato e definitivamente sostituito con Damaso II nel 1048.

Altrettanto edificante fu il Grande Scisma d'Occidente, quando nel 1378 il papato si divise in due sedi, a Roma e Avignone: ciascuna col suo papa perfettamente legittimo, perché il secondo (Clemente VII) era stato eletto dagli stessi elettori del primo (Urbano VI), pentiti di aver scelto un letterale squilibrato psichico. Come se non bastasse, quando il Concilio di Pisa cercò di risolvere la situazione nel 1409, non riuscì a far altro che eleggere un terzo papa (Alessandro V). Tra il 1415 e il 1417 il Concilio di Costanza depose i due papi di Pisa (Giovanni XXIII) e Avignone (Benedetto XIII), fece dimettere quello di Roma (Gregorio XII) e ne elesse un quarto nuovo (Martino V), anche se lo scisma d'Avignone continuò formalmente fino al 1499.

Non c'è da stupirsi se queste avventure del papato, insieme ad altre sue disavventure alle quali abbiamo già accennato, abbiano finito per fungere da detonatore per la Riforma: al punto che, per sottolineare il loro dissenso nei confronti della figura del vescovo di Roma, i Protestanti si sono spesso riferiti ai Cattolici chiamandoli denigratoriamente Papisti. E non hanno potuto che farsi beffe della Costituzione Apostolica Pastor Aeternus (« Il Pastore Eterno ») che il Concilio Vaticano I ha emanato il 18 luglio 1870. Essa, infatti, anzitutto proclama il primato apostolico di Pietro e la sua trasmissione ereditaria al papa di Roma:

Se qualcuno affermerà che il beato Pietro Apostolo non è stato costituito da Cristo Signore principe di tutti gli Apostoli e capo visibile di tutta la Chiesa militante, o che non abbia ricevuto dallo stesso Signore Nostro Gesù Cristo un vero e proprio primato di giurisdizione, ma soltanto di onore: sia anatema.

Se qualcuno affermerà che non è per disposizione dello stesso Cristo Signore, cioè per diritto divino, che il beato Pietro abbia per sempre^successori nel Primato sulla Chiesa universale, o che il Romano Pontefice non sia il successore del beato Pietro nello stesso Primato: sia anatema.

Due anatemi che, naturalmente, ricadono su tutti coloro che dichiarano che « il papa è nudo », notando come il suo primato sia in realtà un'affermazione più ideologica che teologica: esso fu infatti inventato soltanto nel V secolo, a partire da Innocenze I (401-417), per svincolare il potere papale di Roma dalle influenze imperiali di Costantinopoli. E fu in seguito rivendicato per accampare diritti molto terreni, dall'incoronazione dei re cristiani alla proclamazione delle guerre sante contro gli infedeli.

E come già il potere temporale del papa si era fondato sul falso della Donazione di Costantino, così anche il suo primato spirituale si fondò sul falso delle Decretali dello Pseudo Isidoro, forgiato verso 1850 a Reims da un sedicente Isidoro Mercatore, in seguito confuso con Isidoro di Siviglia e per questo oggi chiamato « Pseudo Isidoro ». Attaccando i prìncipi e l'imperatore per difendere i vescovi e il papa, i decreti enunciavano le prerogative del primato e dell'infallibilità pontificia e stabilivano un falso precedente giuridico, al quale in seguito i papi si appellarono come se fosse autentico.

Uno dei maggiori campioni dell'autorità papale fu Gregorio VII, che a Canossa riuscì a far inginocchiare l'imperatore di fronte a sé. Proprio durante la sua contesa con Enrico IV, nel 1075, egli enunciò i 27 princìpi del Dictatus Papae (« Dettato Papale »), in cui si legge fra l'altro:

2. Solo il Pontefice Romano merita d'essere detto universale.

3. Solo egli può deporre o assolvere i vescovi.

4. Il suo legato in un Concilio comanda su tutti i vescovi, anche se è di rango inferiore, e soltanto lui emana sentenze di deposizione.

9. Il papa è il solo uomo di cui tutti i prìncipi baciano i piedi.

12. A lui è permesso deporre gli imperatori.

18. Le sue sentenze non possono essere riformate da nessuno ed egli solo può tifoimare quelle di tutti.

22. La Chiesa Romana non ha mai sbagliato e, come attesta la Scrittura, non potrà mai sbagliare.

23. Il Pontefice Romano, se è stato ordinato canonicamente, diventa senza ombra di dubbio santo per i meriti di san Pietro.

Natutalmente, il passo dalla finzione dell'infallibilità pontifìcia alla realtà della persecuzione degli oppositori è breve. Puntualmente, nel 1184 Lucio III diede ordine ai vescovi di inquisire gli eretici, definiti appunto come coloro che rifiutavano le disposizioni papali. Nel 1215 il Quarto Concilio Lateranense stabilì che si dovesse procedere d'ufficio contro di essi. Nel 1220 l'imperatore Federico II decretò la morte sul rogo come pena per l'eresia. Nel 1231 Gregorio IX nominò i primi inquisitori pontifìci, tradizionalmente scelti fra i domenicani e i francescani. Nel 1252 Innocenze IV autorizzò l'uso della tor-tuta come mezzo per estorcere la « confessione ». E nel 1484 Innocenze VIII aprì ufficialmente la caccia alle streghe. Da allora la macchina stritolaeretici lavorò a pieno ritmo per secoli, soprattutto con le Inquisizioni spagnola (1478-1820), portoghese (1536-1821) e romana (1542-oggi).

Ma l'infallibilità pontificia è un'arma a doppio taglio, perché vincola i papi alle decisioni dottrinali dei propri predecessori, anche quand'esse sono ormai divenute anacronistiche. Se ne accorse sulla sua pelle Giovanni XXII nel 1324, quando per colpire l'ordine francescano fu costretto a dichiarare nella bolla Quia Quorundam Mentes («Poiché le menti di alcuni»):

Dire che quanto i Sommi Pontefici hanno definito una volta per sempre con la chiave di conoscenza nella fede o morale non è lecito per i loro successori nel dubbio revocare o contraddire, riguardo a quanto è stato otdinato dai Sommi Pontefici stessi pel mezzo delle chiavi del potere, ciò è evidentemente contro la verità. [...]

E questo il Nostro Salvatore, nella promessa delle chiavi al beato Pietro, sembra averlo compreso espressamente quando Egli immediatamente aggiunge: « E quello che tu legherai sulla terra sarà legato anche in cìelo, e quello che tu scioglierai sulla terra sarà sciolto anche in ciclo », non facendo menzione di conoscenza.

La dichiarazione è preveggente, visto che attacca precisamente la formulazione dogmatica di infallibilità della PastorAeter: nus («L'Eterno Pastore»), disperatamente emanata dal Concilio Vaticano I al crepuscolo del potere temporale del Papa Re, quando ormai mancavano due soli mesi alla breccia di Porta Pia e al tramonto dello Stato Pontifìcio:

Proclamiamo e definiamo dogma rivelato da Dio che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando esercita il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani, e in forza del suo supremo potere Apostolico definisce una dottrina circa la fede e i costumi vincola tutta la Chiesa, per la divina assistenza a lui promessa nella persona del beato Pietro, gode di quell'infallibilità con cui il divino Redentore volle fosse corredata la sua Chiesa. [...] Se qualcuno quindi avrà la presunzione di opporsi a questa Nostra definizione, Dio non voglia!: sia anatema.

Dio volle, invece. Anche perché, se non era già chiaro dai Vangeli il primato dell'apostolo Pietro, figuriamoci quanto poteva essere considerato come rivelato da Dio il dogma dell'infallibilità del Romano Pontefice. E infatti, prima della sua proclamazione una quarantina di padri conciliari abbandonarono pilatescamente Roma, per evitare di dover votare la risoluzione. E, dopo la sua proclamazione, un gruppo di inrellettuali e preti cattolici di lingua tedesca fondò nel 1873 la scismatica Chiesa Vetero Cattolica, che non solo rifiutò i nuovi dogmi, ma mentre c'era decise anche di farla finita con la messa in latino (un secolo prima dell'« innovativo » Concilio Vaticano II) e con il celibato ecclesiastico.

Oggi pochi teologi cattolici dissentono sull'infallibilità pontificia: primo fra tutti Hans Kùng, che ha pagato il suo dissenso con la perdita della missio canonica per l'insegnamento. Quanto ai non teologi, in un sondaggio internazionale fra gli studenti delle scuole superiori e delle università cattoliche, di cui il 96 per cento si dichiara credente e l'80 per cento cattolico, soltanto il 37 per cento accetta il dogma dell'infallibilità pontificia (tra parentesi, il 37 per cento crede anche che la Madonna sia una dea e il 42 per cento che ai piedi della croce ella sia diventata la madre di Giovanni Evangelista).

Pur rifiutando il primato e l'infallibilità del papa, gli Ortodossi credono comunque che lo Spirito Santo non permetta alla Chiesa di sbagliare in materie dottrinali: in particolare, i primi sette Concili Ecumenici tenuti a Nicea, Costantinopoli, Efeso e Calcedonia tra il 325 e il 787 vengono considerati infallibili, e i loro pronunciamenti su Cristo e Maria dogmatici.

I Protestanti vanno naturalmente più in là, negando qualunque intermediazione dottrinale tra il fedele e Dio da parte non solo del papa, ma anche della Chiesa. Ad esempio, il Credo di Westminster del 1646 dichiara esplicitamente:

La regola infallibile per l'interpretazione della Scrittura è la Scrittura stessa: dunque, quando sorgono problemi di verità o falsità riguardo al senso vero e compiuto di un passo della Scrittura, questo dev'essere cercato e trovato in altri passi che parlino più chiaramente. [...]

Non c'è altro capo della Chiesa all'infuori del Signore Gesù Cristo. E il papa di Roma non può essere il suo capo, in alcun senso: piuttosto, egli è l'Anticristo, un peccatore, un figlio di perdizione, che si autoesalta, nella Chiesa, contro Cristo e tutto ciò che si chiama Dio.

L'identificazione del papa con l'Anticristo, un tetmine inventato dall'apostolo Giovanni non è per nulla un'idea balzana del suddetto Credo, ma una posizione uniformemente condivisa dai Protestanti. E non come metaforico insulto, ma come letterale realizzazione della profezia di Gesù: « Molti verranno nel mio nome, dicendo: Io sono il Cristo, e trarranno molti in inganno ».

Naturalmente per i Cattolici l'Anticristo era invece Luterò, anche se bisogna onestamente riconoscere che le vicende del papato sembrano offrire ai Protestanti appigli molto migliori nella diatriba: come qualcuno ha detto, infatti, « se il papa non è l'Anticristo, è ben sfortunato ad assomigliarci cosi tanto ».

E, in effetti, non c'è bisogno di essere degli esegeti per accorgersi che la commistione diretta e indiretta del Vaticano negli affari terreni e mondani ha poco o nulla a che spartire con lo spirito religioso evangelico, per non parlare della sua lettera. E non c'è neppure bisogno di invocare la storia passata, alla quale abbiamo comunque accennato a più riprese: basta la cronaca, anche recente. Ad esempio, lo scandalo di pedofilia ecclesiastica generalizzata che ha travolto il Vaticano allo scadere del secondo millennio. Dopo decenni di reticenza, la punta dell'iceberg delle molestie e violenze sessuali perpetrate da preti, suore e laici cattolici sui minori (ma non solo) di orfanotrofi, scuole e seminari da loro gestiti sta infatti venendo a galla: soprattutto all'estero, naturalmente, perché in Italia la servile autocensura degli organi di stampa nei riguardi del Vaticano ha sempre impedito di parlare di questi fatti, che solo faticosamente stanno cominciando ad affiorare anche da noi.

Per ora, i casi più noti venuti a galla sono quelli del padre messicano Marciai Maciel, fondatore della Legione di Cristo tanto amata da Giovanni Paolo II, e del frate irlandese Brendan Smyth, che detiene un record di 45 anni (1945-1990) di abusi sistematici. Il caso più blasfemo è invece quello, citato nel Rapporto governativo irlandese del 22 ottobre 2005, di un prete della diocesi di Ferns che ha violentato una ragazza sull'altare della parrocchia. E lo scandalo ha raggiunto anche i massimi livelli ecclesiastici, fino al cardinale Hans Hermann Groer di Vienna e a una ventina di vescovi del mondo intero, tutti costretti a dimettersi (il primo già nel 1995).

A volte la vergogna individuale ha avuto il sopravvento, come quando il frate irlandese Sean Fortune si è suicidato nel 1999 prima di un processo per lo stupro di 29 bambini. Ma a livello collettivo c'è sempre stata una sistematica connivenza delle gerarchle ecclesiastiche, che al più si limitavano a spostare i colpevoli ad altre istituzioni: un comportamento che ha anch'esso provocato varie dimissioni dei responsabili, dal cardinale Bernard Law di Boston negli Stati Uniti al vescovo Brendan Comiskey di Ferns in Manda (entrambi nel 2002).

Un'idea dell'ordine di grandezza degli abusi si deduce dal fatto che, nei soli Stati Uniti, fino al 2003 erano state presentate 11.000 denunce contro 4400 preti, che avevano portato a risarcimenti pari a un miliardo di dollari e alla letterale bancarotta di tre diocesi. In vari paesi, lo scandalo ha fatto cadere la popolarità del Vaticano ai suoi minimi storici: in Manda si è persino arrivati a chiedere una revisione dei rapporti fra Stato e Chiesa, ritenendo che i casi scoperti rivelino non deviazioni individuali ma pratiche istituzionali.

E con ragione, perché il Vaticano sapeva benissimo che la perversione sessuale covava nei suoi ranghi, ed era da tempo corso ai ripari per evitare che venisse scoperta. Già nel 1962, infatti, il Sant'Uffizio del Papa Buono Giovanni XXIII aveva emanato la disposizione segreta Crimen Sollicitationis (« II Crimine di Sollecitazione »), in cui si istruivano i vescovi a proposito dei preti che facevano avance! sessuali ai fedeli durante la confessione, o che peccavano di bestialità, pedofilia o omosessualità. In particolare, si ordinava di mantenere sui fatti scoperti un segreto totale, comprendente anche i nomi delle vittime degli abusi, pena la scomunica: la quale, paradossalmente, veniva dunque comminata non per la perpetrazione dei delitti, ma per la loro divulgazione! Quarant'anni dopo, il 19 maggio 2001, nella lettera ai vescovi di tutto il mondo De Delictis Gravioribus (« Circa i Delitti più Gravi»), il cardinale Ratzinger confermava ufficialmente che la disposizione segreta era rimasta « finora in vigore », e reiterava che i delitti contro il (per lui) sesto comandamento commessi « mediante sollecitazione, nell'atto o in occasione o con il pretesto della confessione », oppure « da un chierico con un minore», erano «di competenza esclusiva della Congregazione per la Dottrina della Fede » e « soggetti al segreto pontificio ».

L'esistenza della Crimen Sollicitationis, che copriva anche se stessa con il segreto totale, non venne alla luce che nel 2003, durante uno dei processi relativi allo scandalo, e la conferma delle disposizioni da parte di Ratzinger portò alla sua incriminazione agli inizi del 2005 da parte di una Corte distrettuale — del Texas, per connivenza nei reati e ostruzione alle indagini. Ma il 26 settembre 2005 il ministero della Giustizia degli Stati Uniti ordinò al tribunale di archiviare la pratica perché, essendo nel frattempo diventato papa, egli ora gode di immunità in quanto capo di Stato e il procedimento penale sarebbe « incompatibile con gli interessi della politica estera degli Stati Uniti ».

Benedetto XVI si è così salvato per il rotto della cuffia. O meglio, del camauro: il vezzoso copricapo di velluto rosso bordato d'ermellino che egli stesso ha provveduto a riesumare dal cestino dei rifiuti della storia nel quale era finito insieme ad altri anacronismi papali quali la tiara e la sedia gestatoria. Ma, anche senza una sentenza ufficiale, si può ben affermare che la vicenda iniziata con un Bambin Gesù disceso dalle stelle finisce per ora con il suo clero disceso nelle stalle dei processi per pedofilia. Erano dunque previdenti i maestri di cerimonie che, nel passato, facevano accendere per tre volte un cerino di fronte al neoeletto papa da un monaco scalzo, che gli ripeteva per tre volte l'aforisma di Tommaso da Kempis: sic transit gloria mundi, « così passa la gloria del mondo ». Così è, infatti, e così sia.

(Tratto da "Perchè non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici)" di Piergiorgio Odifreddi - 2007 Longanesi)