OSSERVATORIO LETTERARIO

 

*** Ferrara e l'Altrove ***

 

ANNO VII – NN. 33/34    LUGLIO-AGOSTO/SETTEMBRE-OTTOBRE 2003     FERRARA

 

Copertina: La Divina Commedia di Dante Alighieri/Sulla groppa del mostro (incisione sul legno) di  Béla Gy. Szabó; Foto dell'incisione stampata: di Mario De Bartolomeis.

 

 

NOTIZIE

 

SUL LIBRO DI GIZELLA NÉMETH — ADRIANO PAPO: «LUDOVICO GRITTI. UN PRINCIPE-MERCANTE DEL RINASCIMENTO TRA VENEZIA, I TURCHI E LA CORONA D’UNGHERIA» (Edizioni della Laguna, Mariano del Friuli Gorizia, 2002) — La segnalazione ci è pervenuta dopo la chiusura definitiva delle bozze, perciò in questa rubrica possiamo darne notizia:   Il libro è il primo volume di una nuova collana di pubblicazioni italo-ungheresi edite dalle Edizioni della Laguna di Mariano del Friuli (Gorizia): «Italia-Ungheria. Collana di Studi e Documenti». Gizella Németh Papo e Adriano Papo sono anche autori del libro «Storia e cultura dell’Ungheria», uscito nel 2000 per i tipi della Rubbettino di Soveria Mannelli, già vincitore come opera prima del Premio Internazionale di Saggistica «S. Valitutti», VIII edizione, 2001.

   Il nuovo lavoro di Gizella Németh Papo e Adriano Papo, frutto di una lunga ricerca condotta in numerosi archivi e biblioteche italiani e ungheresi, è incentrato sulla figura di Ludovico Gritti. Ludovico Gritti, figlio naturale del doge di Venezia, Andrea, era nato attorno al 1480 a Costantinopoli, dove il padre praticava con grandi profitti il mestiere di mercante e di banchiere. Sua madre, molto probabilmente, era una concubina del padre, non si sa se greca, turca o slava. Siccome nella Repubblica di Venezia non poteva accedere alla carriera politica né entrare nella cancelleria dogale poiché era un figlio illegittimo anche se di un patrizio veneziano, Ludovico Gritti si stabilì definitivamente sul Bosforo, alle Vigne di Pera, dove attese alla professione di mercante e di banchiere, divenendo in breve tempo uno degli uomini finanziariamente più potenti di Costantinopoli, ma anche il leader carismatico dei mercanti europei che risiedevano sul Bosforo. Fu un attivo partner commerciale della Repubblica di Venezia, cui procurò importanti privilegi mercantili, ma anche un suo fedele informatore politico-militare, proprio come lo era stato il padre prima dello scoppio della guerra veneto-turca del 1499. La sua ascesa finanziaria ed economica fu anche favorita dall’amicizia di cui godeva da parte del gran vizir Ibrahim pascià, che addirittura lo introdusse alla corte del sultano Solimano il Magnifico, di cui divenne intimo amico e fidato consigliere, oltreché il principale fornitore di pietre preziose.

   Il grande potere economico e finanziario acquisito sul Bosforo non tardò a dischiudere a Ludovico Gritti le porte della politica, che lo condussero alle più alte cariche del regno d’Ungheria di Giovanni Zápolya. In breve tempo il figlio del doge divenne consigliere regio, sommo tesoriere e governatore del regno d’Ungheria, conte di Máramaros, comandante supremo dell’esercito magiaro, vescovo eletto di Eger, signore di Clissa, Poglizza e Segna. Sennonché, i suoi metodi dispotici di governo (impose pesanti tasse alla nobiltà, al clero e alle città), il suo immenso potere politico e finanziario e la sua smisurata ambizione — era addirittura corsa voce che aspirasse alla corona magiara e che volesse sistemare i propri figli sui troni di Valacchia e di Moldavia — gli procurarono numerosi detrattori e acerrimi avversari politici sia in Ungheria che a Costantinopoli. Cadde perciò vittima dell’odio dei suoi nemici, trovando una morte atroce nella città transilvana di Medgyes il 29 settembre 1534.

   La monografia, preceduta da un’incisiva presentazione di Giorgio Dissera Bragadin e da una documentatissima prefazione di Amedeo Di Francesco sul personaggio di Gritti nella mitografia letteraria ungherese, si articola in tre parti. La prima parte è incentrata sulla famiglia di Ludovico Gritti, sulla sua personalità, sui suoi costumi, sulla sua attività mercantile e finanziaria e riporta i profili di alcuni dei suoi principali collaboratori, partigiani e oppositori politici. La seconda parte, la più estesa, ha per tema l’attività politica e militare del Gritti e si intreccia strettamente con le vicende storiche del regno d’Ungheria del dopo Mohács, allorché ben due re, Giovanni Zápolya e Ferdinando d’Asburgo, si contesero la corona di Santo Stefano. La terza parte è dedicata al declino politico di Ludovico Gritti e al suo ultimo viaggio alla volta dell’Ungheria, che culminò nella sua drammatica fine di Medgyes. Lo studio si conclude con una rassegna dei giudizi della storiografia contemporanea sulla figura del Gritti, spesso considerato come una sorta di avventuriero cinico, egoista, avido di potere e di gloria che — si disse — per entrare nella schiera dei pascià ottomani addirittura non esitò a convertirsi all’islamismo. Alcuni storici, basandosi sulla sua brama di potere e di ricchezze, sulla sua mentalità economica e sul fatto che non aveva disdegnato di far carriera eliminando fisicamente i suoi avversari politici, lo hanno addirittura definito un ‘principe del Rinascimento’. Gli Autori vedono invece nel figlio del doge non più che un mercante e banchiere che entrò in politica per rafforzare i propri interessi economici, ma anche perché manovrato dal sultano Solimano il Magnifico, che aveva bisogno di un cristiano e figlio di un principe occidentale da collocare al fianco di Giovanni Zápolya per controllarne la politica estera. Essi hanno altresì rivalutato la figura di questo poliedrico personaggio della storia del XVI secolo, adducendo prove oggettive che ne dimostrerebbero l’infondatezza della presunta apostasia e delle aspirazioni alla corona magiara e ne hanno messo in risalto le qualità morali e le indubbie doti imprenditoriali.

   Il libro non è però soltanto una mera biografia di Ludovico Gritti, ma è anche un libro di storia politica ungherese ed europea; le vicende del Gritti, infatti, si dipanano proprio nel cruciale periodo storico delle guerre d’Italia, combattute da Carlo V e Francesco I per la supremazia in Europa, e un importante capitolo di questo conflitto era stato aperto proprio sul fronte balcanico-danubiano, dove anche il figlio del doge fu uno dei principali protagonisti.

   Il volume è corredato in appendice di una vasta bibliografia, di una tavola toponomastica comparata, di un glossario dei principali termini plurilingue usati nel testo, di una guida alla pronuncia delle lingue ungherese, turca, rumena e slave, di un ricchissimo indice dei nomi e di una cartina dell’Ungheria dopo la pace di Adrianopoli del 1568. Il libro è abbellito e impreziosito da una ricca iconografia, anche a colori, che senz’altro ne rende piacevole la lettura.

Note biografiche sugli autori: Gizella Németh Papo e Adriano Papo si sono laureati in Storia presso l’Università degli Studi di Trieste. Attualmente si occupano di temi di storia dell’Ungheria, su cui hanno pubblicato diversi saggi e tenuto conferenze e lezioni. Sono anche autori del libro «Storia e cultura dell’Ungheria», Rubbettino, Soveria Mannelli 2000, già vincitore come opera prima del Premio Internazionale di Saggistica «S. Valitutti», VIII edizione, 2001. Sono stati inoltre organizzatori e curatori degli Atti del Convegno «Hungarica Varietas. Mediatori culturali tra Italia e Ungheria», che si è tenuto presso l’Università degli Studi di Udine il 7-8 novembre 2002. Adriano Papo è anche laureato in Ingegneria chimica e insegna presso l’Università degli Studi di Udine.

   Ora, per un po' di assaggio, riportiamo qualche brano dal volume:

 

  …Ludovico Gritti abitava “fuori di Pera” in un bellissimo palazzo, “grande e pomposo” e attorniato da ameni giardini, che egli stesso aveva fatto costruire in stile italiano con notevole spesa di denaro. Viveva con mirabile grandezza e teneva alle sue dipendenze numerosi schiavi e servitori, che soleva affrancare offrendo un onesto salario a coloro i quali optavano di rimanere al suo servizio anche da liberi.  Non lo si poteva avvicinare se prima non si passava “per pompa e non per paura” tra due file di guardie schierate. Possedeva cento bellissimi cavalli di razze diverse, 150 cammelli e 60 muli per i carriaggi. Invitava spesso a pranzo ospiti sia turchi che cristiani, e gli stessi Solimano il Magnifico e Ibrâhîm pascià si recavano frequentemente a fargli visita “in abito privato”. Nonostante i fastosi e opulentissimi banchetti che organizzava nella sua abitazione di Pera, era molto sobrio nel mangiare e nel bere: beveva poco vino e per di più diluito con molta acqua.

Ludovico Gritti era religiosissimo, tanto che non perdeva neanche una messa o altra funzione; era generoso e caritatevole, tanto da guadagnarsi l’amore del popolo di Costantinopoli: chi gli si avvicinava, per offrirgli, secondo l’usanza di quelle parti, un fiore o un frutto o qualche altro omaggio, veniva ricompensato con ricchi doni. Quando usciva dalla sua abitazione di Pera, Gritti si spostava a cavallo seguito a piedi da numerosi servitori e gentiluomini sia cristiani che turchi. Al palazzo del sultano, veniva di solito accolto da due çavus, ossia da due messaggeri di Solimano, che lo scortavano procedendo a cavallo, di poco davanti a lui, secondo il cerimoniale osservato per onorare un gran personaggio. E quando scendeva da cavallo, gli tenevano la staffa non perché avesse bisogno di simile aiuto, essendo egli “prosperosissimo et gagliardo”, ma come segno di “grandezza et pompa”. (p. 34)

 

   …Gritti viveva coi Turchi “al modo Turchesco” e coi Cristiani “alla Christiana”; la sua corte era però gestita secondo l’usanza turca, e come il sultano possedeva un serraglio di putti e di donne, anche se di dimensioni più modeste. Vestiva alla turca, ma al posto del turbante portava in capo, secondo l’usanza ungherese, un berretto di zibellini di forma piramidale. A 54 anni ne dimostrava appena quaranta; era di corporatura robusta più del comune, ma ben proporzionato, con gli occhi neri e vivi che parevano “di foco”; le sopracciglia, molto lunghe, si congiungevano sulla fronte; il naso era un po’ aquilino e storto; aveva il colorito scuro e la barba nera. Parlava con una voce sonora, gesticolando con le mani e roteando gli occhi. Pronunciava discorsi eloquenti ma sensati, riuscendo a carpire la massima attenzione da parte dei suoi ascoltatori; siccome, però, rare volte era capace di concludere i suoi ragionamenti, veniva tacciato di eccessiva loquacità. Chi parlava con lui anche una sola volta capiva di essere al cospetto di una persona degna d’ogni rispetto. Gritti aveva dimestichezza con le lingue turca, greca, latina e italiana. Ci teneva a essere ringraziato, almeno a parole, per i benefici che concedeva, ed esigeva che questa sua generosità fosse apprezzata da tutti. Coloro i quali gli chiedevano altri benefici senza ringraziarlo per quelli già ricevuti venivano da lui rimproverati d’ingratitudine. Aveva un solo difetto: quello di credersi valoroso e unico. Pregò gli amici che dopo la sua morte dicessero in giro: “che fu uno Aloygio Gritti, lo quale con la sola sua vertù ascese un grado, dove o per forza, o per hereditate vi ascendono gli altri”. (pp. 37-38)

 

   Uscito dalla città, Gritti fu raggiunto da un cavaliere moldavo, che gli sferrò un pugno sulla spalla e gli tolse il berretto di zibellini; fu proprio il provvidenziale intervento del della Valle a salvare il governatore, oltretutto indebolito per la febbre: il fido ciambellano disarcionò il guerriero nemico, che finì tagliato a pezzi dalle scimitarre dei soldati turchi, nonostante che il veneziano li implorasse di non farlo (“Il mio Signore volto a noi gridava in lingua Turchescha, ingitima, ingitima, che vol dire non fate, non fate”). Gritti rifiutò il consiglio del suo segretario di rientrare in città; anzi, lo pregò che, se un giorno fosse tornato a Venezia, riferisse quegli avvenimenti al suo vecchio padre.

Il figlio del doge non riuscì però a scampare alla cattura: fu alfine raggiunto dai soldati moldavi, i quali, dimentichi del salvacondotto e rifiutando l’offerta di 100.000 ducati, lo consegnarono, com’era stato pattuito, nelle mani degli Ungheresi. Davanti a Maylád e a Kun, Gritti si proclamò invano innocente per l’assassinio di Czibak; confessò che aveva voluto catturarlo solo per conoscere da lui il motivo per cui aveva armato il popolo transilvano. Ma i soldati ungheresi lo volevano morto (gridavano: “Fate morire questo turco”). Invano Gritti cercò di rammentare ai suoi giustizieri che egli era stato eletto dal re Giovanni e dai signori e baroni del regno governatore e capitano generale; inutili furono le sue minacce secondo cui il sultano, che egli rappresentava, avrebbe vendicato la sua morte; inutile fu il suo ultimo tentativo di corrompere i suoi giustizieri con la promessa di 200.000 scudi oltre al bottino che avrebbero sicuramente raccolto.

Allora Maylád decretò la sua condanna a morte. E Gritti “humanamente” maledì i suoi carnefici pregandoli di accelerare l’esecuzione: “Sanguis meus super vos et super filios vestros, però [sic] si ti est amore dei cito expediatis”. Prima di morire chiese che gli venissero somministrati i sacramenti. Nessuno voleva però assumersi la responsabilità di ucciderlo; accettò di farlo un carrettiere chiedendo in cambio i suoi stivali. A Gritti fu subito tagliata la testa, che venne consegnata a Petru il Moldavo; il suo corpo fu invece sepolto nella chiesa di San Francesco di Medgyes. Il boia trovò negli stivali “di panno pavonazzo” che aveva ricevuto in dono due buste piene di pietre preziose d’immenso valore, che vendette al nipote di Czibak, Miklós Patócsy, per un cavallo e 38 fiorini d’oro.  (pp. 269-270)

 

 

 

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