OSSERVATORIO
*** Ferrara e l'Altrove ***
ANNO VII – NN. 33/34
LUGLIO-AGOSTO/SETTEMBRE-OTTOBRE 2003 FERRARA
Copertina: La Divina
Commedia di Dante Alighieri/Sulla groppa del mostro (incisione sul legno)
di Béla Gy. Szabó; Foto dell'incisione
stampata: di Mario De Bartolomeis.
NOTIZIE
Il nuovo
lavoro di Gizella Németh Papo e Adriano Papo, frutto di una lunga ricerca
condotta in numerosi archivi e biblioteche italiani e ungheresi, è incentrato
sulla figura di Ludovico Gritti. Ludovico Gritti, figlio naturale del doge di
Venezia, Andrea, era nato attorno al 1480 a Costantinopoli, dove il padre
praticava con grandi profitti il mestiere di mercante e di banchiere. Sua
madre, molto probabilmente, era una concubina del padre, non si sa se greca,
turca o slava. Siccome nella Repubblica di Venezia non poteva accedere alla
carriera politica né entrare nella cancelleria dogale poiché era un figlio
illegittimo anche se di un patrizio veneziano, Ludovico Gritti si stabilì
definitivamente sul Bosforo, alle Vigne di Pera, dove attese alla professione
di mercante e di banchiere, divenendo in breve tempo uno degli uomini
finanziariamente più potenti di Costantinopoli, ma anche il leader carismatico
dei mercanti europei che risiedevano sul Bosforo. Fu un attivo partner commerciale della Repubblica di
Venezia, cui procurò importanti privilegi mercantili, ma anche un suo fedele
informatore politico-militare, proprio come lo era stato il padre prima dello
scoppio della guerra veneto-turca del 1499. La sua ascesa finanziaria ed
economica fu anche favorita dall’amicizia di cui godeva da parte del gran vizir
Ibrahim pascià, che addirittura lo introdusse alla corte del sultano Solimano
il Magnifico, di cui divenne intimo amico e fidato consigliere, oltreché il
principale fornitore di pietre preziose.
Il grande
potere economico e finanziario acquisito sul Bosforo non tardò a dischiudere a
Ludovico Gritti le porte della politica, che lo condussero alle più alte
cariche del regno d’Ungheria di Giovanni Zápolya. In breve tempo il figlio del
doge divenne consigliere regio, sommo tesoriere e governatore del regno
d’Ungheria, conte di Máramaros, comandante supremo dell’esercito magiaro,
vescovo eletto di Eger, signore di Clissa, Poglizza e Segna. Sennonché, i suoi
metodi dispotici di governo (impose pesanti tasse alla nobiltà, al clero e alle
città), il suo immenso potere politico e finanziario e la sua smisurata
ambizione — era addirittura corsa voce che aspirasse alla corona magiara e che
volesse sistemare i propri figli sui troni di Valacchia e di Moldavia — gli
procurarono numerosi detrattori e acerrimi avversari politici sia in Ungheria
che a Costantinopoli. Cadde perciò vittima dell’odio dei suoi nemici, trovando
una morte atroce nella città transilvana di Medgyes il 29 settembre 1534.
La
monografia, preceduta da un’incisiva presentazione di Giorgio Dissera Bragadin
e da una documentatissima prefazione di Amedeo Di Francesco sul personaggio di
Gritti nella mitografia letteraria ungherese, si articola in tre parti. La
prima parte è incentrata sulla famiglia di Ludovico Gritti, sulla sua
personalità, sui suoi costumi, sulla sua attività mercantile e finanziaria e
riporta i profili di alcuni dei suoi principali collaboratori, partigiani e
oppositori politici. La seconda parte, la più estesa, ha per tema l’attività
politica e militare del Gritti e si intreccia strettamente con le vicende
storiche del regno d’Ungheria del dopo Mohács, allorché ben due re, Giovanni
Zápolya e Ferdinando d’Asburgo, si contesero la corona di Santo Stefano. La
terza parte è dedicata al declino politico di Ludovico Gritti e al suo ultimo viaggio
alla volta dell’Ungheria, che culminò nella sua drammatica fine di Medgyes. Lo
studio si conclude con una rassegna dei giudizi della storiografia
contemporanea sulla figura del Gritti, spesso considerato come una sorta di
avventuriero cinico, egoista, avido di potere e di gloria che — si disse — per
entrare nella schiera dei pascià ottomani addirittura non esitò a convertirsi
all’islamismo. Alcuni storici, basandosi sulla sua brama di potere e di
ricchezze, sulla sua mentalità economica e sul fatto che non aveva disdegnato
di far carriera eliminando fisicamente i suoi avversari politici, lo hanno
addirittura definito un ‘principe del Rinascimento’. Gli Autori vedono invece
nel figlio del doge non più che un mercante e banchiere che entrò in politica per
rafforzare i propri interessi economici, ma anche perché manovrato dal sultano
Solimano il Magnifico, che aveva bisogno di un cristiano e figlio di un
principe occidentale da collocare al fianco di Giovanni Zápolya per
controllarne la politica estera. Essi hanno altresì rivalutato la figura di
questo poliedrico personaggio della storia del XVI secolo, adducendo prove
oggettive che ne dimostrerebbero l’infondatezza della presunta apostasia e
delle aspirazioni alla corona magiara e ne hanno messo in risalto le qualità
morali e le indubbie doti imprenditoriali.
Il libro non
è però soltanto una mera biografia di Ludovico Gritti, ma è anche un libro di
storia politica ungherese ed europea; le vicende del Gritti, infatti, si
dipanano proprio nel cruciale periodo storico delle guerre d’Italia, combattute
da Carlo V e Francesco I per la supremazia in Europa, e un importante capitolo
di questo conflitto era stato aperto proprio sul fronte balcanico-danubiano,
dove anche il figlio del doge fu uno dei principali protagonisti.
Note biografiche sugli autori: —Gizella
Németh Papo e Adriano Papo
si sono laureati in Storia presso l’Università degli Studi di Trieste.
Attualmente si occupano di temi di storia dell’Ungheria, su cui hanno
pubblicato diversi saggi e tenuto conferenze e lezioni. Sono anche autori del
libro «Storia e cultura dell’Ungheria»,
Rubbettino, Soveria Mannelli 2000, già vincitore come opera prima del Premio Internazionale di
Saggistica «S. Valitutti», VIII edizione, 2001. Sono stati inoltre
organizzatori e curatori degli Atti del Convegno «Hungarica Varietas. Mediatori
culturali tra Italia e Ungheria», che si è tenuto presso l’Università degli
Studi di Udine il 7-8 novembre 2002. Adriano Papo è anche laureato in
Ingegneria chimica e insegna presso l’Università degli Studi di Udine.
Ora, per un
po' di assaggio, riportiamo qualche brano dal volume:
…Ludovico Gritti
abitava “fuori di Pera” in un bellissimo palazzo, “grande e pomposo” e
attorniato da ameni giardini, che egli stesso aveva fatto costruire in stile
italiano con notevole spesa di denaro. Viveva con mirabile grandezza e teneva
alle sue dipendenze numerosi schiavi e servitori, che soleva affrancare
offrendo un onesto salario a coloro i quali optavano di rimanere al suo
servizio anche da liberi. Non lo
si poteva avvicinare se prima non si passava “per pompa e non per paura” tra
due file di guardie schierate. Possedeva cento bellissimi cavalli di razze
diverse, 150 cammelli e 60 muli per i carriaggi. Invitava spesso a pranzo
ospiti sia turchi che cristiani, e gli stessi Solimano il Magnifico e Ibrâhîm
pascià si recavano frequentemente a fargli visita “in abito privato”.
Nonostante i fastosi e opulentissimi banchetti che organizzava nella sua
abitazione di Pera, era molto sobrio nel mangiare e nel bere: beveva poco vino
e per di più diluito con molta acqua.
Ludovico
Gritti era religiosissimo, tanto che non perdeva neanche una messa o altra
funzione; era generoso e caritatevole, tanto da guadagnarsi l’amore del popolo
di Costantinopoli: chi gli si avvicinava, per offrirgli, secondo l’usanza di
quelle parti, un fiore o un frutto o qualche altro omaggio, veniva ricompensato
con ricchi doni. Quando usciva dalla sua abitazione di Pera, Gritti si spostava
a cavallo seguito a piedi da numerosi servitori e gentiluomini sia cristiani
che turchi. Al palazzo del sultano, veniva di solito accolto da due çavus,
ossia da due messaggeri di Solimano, che lo scortavano procedendo a cavallo, di
poco davanti a lui, secondo il cerimoniale osservato per onorare un gran
personaggio. E quando scendeva da cavallo, gli tenevano la staffa non perché
avesse bisogno di simile aiuto, essendo egli “prosperosissimo et gagliardo”, ma
come segno di “grandezza et pompa”. (p. 34)
…Gritti
viveva coi Turchi “al modo Turchesco” e coi Cristiani “alla Christiana”; la sua
corte era però gestita secondo l’usanza turca, e come il sultano possedeva un
serraglio di putti e di donne, anche se di dimensioni più modeste. Vestiva alla
turca, ma al posto del turbante portava in capo, secondo l’usanza ungherese, un
berretto di zibellini di forma piramidale. A 54 anni ne dimostrava appena
quaranta; era di corporatura robusta più del comune, ma ben proporzionato, con
gli occhi neri e vivi che parevano “di foco”; le sopracciglia, molto lunghe, si
congiungevano sulla fronte; il naso era un po’ aquilino e storto; aveva il
colorito scuro e la barba nera. Parlava con una voce sonora, gesticolando con
le mani e roteando gli occhi. Pronunciava discorsi eloquenti ma sensati,
riuscendo a carpire la massima attenzione da parte dei suoi ascoltatori;
siccome, però, rare volte era capace di concludere i suoi ragionamenti, veniva
tacciato di eccessiva loquacità. Chi parlava con lui anche una sola volta
capiva di essere al cospetto di una persona degna d’ogni rispetto. Gritti aveva
dimestichezza con le lingue turca, greca, latina e italiana. Ci teneva a essere
ringraziato, almeno a parole, per i benefici che concedeva, ed esigeva che
questa sua generosità fosse apprezzata da tutti. Coloro i quali gli chiedevano
altri benefici senza ringraziarlo per quelli già ricevuti venivano da lui
rimproverati d’ingratitudine. Aveva un solo difetto: quello di credersi
valoroso e unico. Pregò gli amici che dopo la sua morte dicessero in giro: “che
fu uno Aloygio Gritti, lo quale con la sola sua vertù ascese un grado, dove o
per forza, o per hereditate vi ascendono gli altri”. (pp. 37-38)
Uscito dalla città, Gritti fu
raggiunto da un cavaliere moldavo, che gli sferrò un pugno sulla spalla e gli
tolse il berretto di zibellini; fu proprio il provvidenziale intervento del
della Valle a salvare il governatore, oltretutto indebolito per la febbre: il
fido ciambellano disarcionò il guerriero nemico, che finì tagliato a pezzi
dalle scimitarre dei soldati turchi, nonostante che il veneziano li implorasse di
non farlo (“Il mio Signore volto a noi gridava in lingua Turchescha, ingitima,
ingitima, che vol dire non fate, non fate”). Gritti rifiutò il consiglio del
suo segretario di rientrare in città; anzi, lo pregò che, se un giorno fosse
tornato a Venezia, riferisse quegli avvenimenti al suo vecchio padre.
Il figlio del doge non riuscì però a scampare alla cattura: fu alfine
raggiunto dai soldati moldavi, i quali, dimentichi del salvacondotto e
rifiutando l’offerta di 100.000 ducati, lo consegnarono, com’era stato
pattuito, nelle mani degli Ungheresi. Davanti a Maylád e a Kun, Gritti si
proclamò invano innocente per l’assassinio di Czibak; confessò che aveva voluto
catturarlo solo per conoscere da lui il motivo per cui aveva armato il popolo
transilvano. Ma i soldati ungheresi lo volevano morto (gridavano: “Fate morire
questo turco”). Invano Gritti cercò di rammentare ai suoi giustizieri che egli
era stato eletto dal re Giovanni e dai signori e baroni del regno governatore e
capitano generale; inutili furono le sue minacce secondo cui il sultano, che
egli rappresentava, avrebbe vendicato la sua morte; inutile fu il suo ultimo
tentativo di corrompere i suoi giustizieri con la promessa di 200.000 scudi
oltre al bottino che avrebbero sicuramente raccolto.
Allora Maylád decretò la sua condanna a morte. E Gritti
“humanamente” maledì i suoi carnefici pregandoli di accelerare l’esecuzione:
“Sanguis meus super vos et super filios vestros, però [sic] si ti est amore dei
cito expediatis”. Prima di morire chiese che gli venissero somministrati i
sacramenti. Nessuno voleva però assumersi la responsabilità di ucciderlo;
accettò di farlo un carrettiere chiedendo in cambio i suoi stivali. A Gritti fu
subito tagliata la testa, che venne consegnata a Petru il Moldavo; il suo corpo
fu invece sepolto nella chiesa di San Francesco di Medgyes. Il boia trovò negli
stivali “di panno pavonazzo” che aveva ricevuto in dono due buste piene di
pietre preziose d’immenso valore, che vendette al nipote di Czibak, Miklós
Patócsy, per un cavallo e 38 fiorini d’oro. (pp. 269-270)
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