Rimini come, viaggio dentro la città [7]
Il giallo si addice alla costa
"il Ponte", Rimini, 11.09.1988
C’è un volto violento e nascosto della città, che viene periodicamente svelato dai lampi della cronaca nera.

Riministoria
il Rimino

C’è un volto violento e nascosto della città, che viene periodicamente svelato dai lampi della cronaca nera. Passato il fragore delle notizie, tutto torna a tacere. Restano i problemi. Il silenzio, con l’inevitabile rassegnazione che l’accompagna, non può però annullare i timori della gente per il continuo peggioramento della qualità della vita, dovuto anche ad altri mille ‘piccoli’ episodi ormai di routine, dai furti nelle abitazioni agli scippi.
«Nelle nostre case, eravamo abituati a lasciare la chiave nel portone» ci confida in redazione un lettore che abita alla Sinistra del Porto, «ora dobbiamo dare la doppia mandata, con quegli strani tipi che girano per tutta la giornata e che di notte si divertono a danneggiare le auto in sosta».
Gli scippi soprattutto rendono temibile alle persone anziane la semplice uscita in vie poco frequentate. Prese di mira, sono quasi sempre le donne. Non esistono statistiche a Palazzo di Giustizia, se ne sa qualcosa di più al Pronto soccorso dell’Ospedale civile, ove molte vittime finiscono ferite e con ossa fratturate. Domenica 4 settembre a Miramare, la 76enne Angela Casiraghi di Monza è stata fatta cadere durante un tentativo di rubarle la borsa: ha battuto il capo e dopo poche ore è morta.
Questo volto nascosto della malavita ha tratti compositi, sostanzialmente differenti fra loro, che messi insieme costituiscono un’immagine ben definita, ma non facilmente decifrabile. Accanto ai fenomeni più gravi (che esplodono di tanto in tanto ad esempio in omicidi, e che nascono da trame sotterranee entro le quali i colpevoli trovano sicura impunità), c’è una mutevole ed impalpabile microcriminalità che si adagia sull’onda della ricchezza rivierasca, come un gabbiano su quella del mare.

Chi regge i fili?
A quest’ultima piccola delinquenza (la definizione è degli esperti, non di chi la subisce), risalgono i fatti che, dal borseggio allo spaccio di droga, si legano in una catena di ‘mestieri’ proibiti dalla legge, ma che tuttavia vengono esercitati egualmente, tra una retata e l’altra, tra una discussione sul disagio giovanile ed una tavola rotonda mirata a lanciare l’allarme contro i vucumprà, capri espriatori di tensioni e pregiudizi dell’estate ‘88. Ed intanto, sulle spalle di ignoti protagonisti (spesso ragazzi incensurati che approdano sulla costa, fraintendendo i messaggi pubblicitari che vorrebbero garantire sui nostri lidi la totale liceità di ogni atteggiamento), si arricchiscono quelli che reggono i fili della mala locale, personaggi che spesso sono d’importazione (anche estera) e che vengono scoperti soltanto quando ne fanno stazioni alcuni colpi di rivoltella.
Tra fantasia e realtà, la Rai ha programmato lo scorso inverno uno sceneggiato in cui un piccolo malavitoso da strapazzo (licenziato dalla corte riminese dell’ex bagnino Gianni Morandi diventato ricco imprenditore turistico), pensa di vendicarsi e s’impegola con un ricatto, passato poi di mano ad una banda di calabresi che lavorano in Riviera a rifornire l’obitorio.
Dal cinema alle voci ufficiali. Nell’ottobre scorso, il vecchio questore Ioele dichiarava con un candore disarmante: «La delinquenza presente a Rimini non è organizzata». Pochi giorni prima, tre agenti del Commissariato ai Rimini erano stati feriti gravemente a Cesena, lungo l’autostrada, da altrettanti banditi che ricattavano un commerciante du Rimini, Savino Grossi.

Il racket
Quanti avevano parlato dell’esistenza del racket a Rimini come di un fenomeno inevitabile in zona come la nostra, a rapido e diffuso arricchimento, ma erano stati zittiti dalla mancanza di prove concrete (o, soprattutto dallo spirito di carità di patria, per non diffamare la città ed impaurire gli ospiti o gli imprenditori a venire), adesso potevano citare le pallottole che avevano colpito in maniera seria Antonio Mosca, Luigi Cenci ed Addolorata di Campi.
In settembre il negozio di auto di Grossi era stato preso a colpi di mitraglietta e di pallettoni, per due volte, a distanza di sette giorni. Gli avevano chiesto denaro. La polizia cerca di attirare in trappola i banditi, ma accade il contrario. Dal buio di un cavalcavia dell’A14, i delinquenti sparano con l’intenzione di uccidere. Grossi ha paura: smentisce di essere stato lui a chiamare la Polizia.
Due mesi dopo «Il Ponte» intervista Mario Gentili che rilascia una dichiarazione che farà rumore, e sarà ripresa dalla stampa nazionale: «La criminalità organizzata controlla il 25 per cento del reddito della nostra città».
La gente ha paura. Nessuno parla. Ma capita di ricevere confidenze da chi non t conosce come cronista. Una signora così racconta che un proprio parente ha dovuto chiudere il ristorante. Ogni sera, i protettori in abbondanti tavolate onoravano il cuoco ed il padrone del locale, ‘gradendo’ l’ospitalità ed offrendo in cambio una ipotetica protezione contro i malintenzionati. «Non ne poteva più, ed ha abbandonato l’attività», dice.
Secondo Gentili, «Rimini è anche una grossa piazza di riciclaggio di denaro sporco». Dello stesso parere, a proposito dell’intera Riviera, è l’ex senatore comunista Sergio Flamigni che dichiara al «Carlino»: «La droga finisce per essere alla base di tutto ed aggravare tutto, anche il fenomeno del gioco d’azzardo che adesso rappresenta un canale per lo smercio del denaro sporco». Per questo motivo, la malavita costiera (dice Flamigni) presenta una situazione da tenere d’occhio. Soprattutto a Rimini (aggiungiamo noi), dove il tavolo verde è molto affollato, con immancabili agganci alla mala. (e intanto, Riccione pensa al casinò!)

«Un salto di qualità»
Il nuovo questore di Forlì, D’Onofrio (Ioele è stato nel frattempo trasferito, dopo il ferimento dei tre agenti a Cesena), non è però pessimista. Nello scorso febbraio, aveva ammesso che la nostra zona è «estremamente ricettiva ad accogliere una criminalità stanziale», tuttavia aveva sentenziato che Rimini non è come Palermo.
Pochi giorni prima, sabato sera 31 gennaio ’88, una feroce fallita rapina alla nuova Coop delle Celle aveva fatto una vittima, Giampiero Picello (41 anni), guardia giurata addetta al trasporto dei valori. Poteva essere una strage. «Il Ponte» del 7 febbraio intitolava: «La mala spara, la città in ginocchio». Sempre sul «Ponte» (dicembre ’87) si è parlato di «Bellaria, centrale della cocaina» con rivelazioni riprese da tutta la stampa nazionale.
Giugno ’88, il prefetto di Forlì ammette: «Siamo in presenza di un salto di qualità nella ferocia criminale», e conferma quanto emerge dalla cronaca: in aprile a Villagrande di Montecopiolo, è ucciso Cesare Tosi (34 anni), vengono arrestati Patrizia Trabucco (22) e Giuseppe Ciuffi (32) imputati di omicidio volontario premeditato. Ciuffi è anche imputato a Pesaro per fatti di droga del clan Badalamenti. Il 9 maggio la strage di S. Andrea in Besanigo: due coppie di coniugi (Luigi Pagliarani, 60 anni, e Patricia Schofield, 58; Sergio Gassi, 66, e Silvana De Vita, 59) sono giustiziati in un delitto oscuro, ma perfetto, tant’è che finora le indagini svolte tra Rimini, Londra (dove Pagliarani aveva a lungo lavorato) e Montecatini (dove risiedevano gli altri sposi), non hanno cavato il classico ragno dal buco.
Ogni fattaccio ripropone il dilemma: gli autori dono gelidi professionisti del crimine o balordi dai nervi fragili? Quattordici vittime di oscuri delitti in quattro annisono il dato matematico di un tragico conteggio, ma anche la cifra simbolica di una situazione in cui i misteri della delinquenza si uniscono forse ad un mancato controllo della mala, per penuria di informatori.
C’è chi paragona gli incensurati ai bambini usati a Napoli nel traffico della droga: l’innocenza che copre interessi più grandi. Fatto sta che tutti, reclute o veterani della delinquenza, spesso sono accomunati da uno spirito violento che ritroviamo ad esempio nella vicenda di Romano Arcangelo. Era un biscazziere di Rimini, scomparve nel luglio ’83: lo avrebbero ucciso ad Igea Marina quelli della banda di Angelo Epaminonda detto il Tebano, che agiva in Lombardia, ma aveva ramificazioni in Riviera. A Riccione abitava Antonio Scaramello, luogotenente di Epaminonda: in una villa d’affitto, si tenne il rapporto al capo sul delitto Arcangelo. Altra vittima di Epaminonda, Lombardo Calogero, freddato a San Giuliano nel 1984.

Storie di ordinaria violenza
A luglio di quest’anno, anche il nuovo questore D’Onofrio (quello che distingueva Rimini da Palermo), comincia ad avere le idee più chiare sulla nostra zona: «Ci sono tutti i presupposti economici per un insediamento della grande malavita».
Ma il fatto è che, come la vicenda Epaminonda conferma, la grande malavita qui c’è già, e da parecchi anni. Nessuno se ne è accorto? I delitti compiuti parlano chiaro. Qualche esempio, risalendo indietro negli anni: oltre a Calogero (1984) e ad Arcangelo (1983), Giuseppe Torturro (ucciso nel 1981 in via Rossa da Antonio Di Rienzo: si contendevano Serafina Mari); Ciro Esposito (1980, ammazzato in pieno centro cittadino); Salvatore Borrelli (1974, regolamento di conti nel mondo della prostituzione, davanti alla Stazione ferroviaria: è colpito da Antonio Pignatelli, il cui posto a Rimini, dopo la sua fuga, venne preso dal clan di Epaminonda; la cattura di quest’ultimo permise a Pignatelli di risalire la china, passando dalla prostituzione alla droga, prima di venir arrestato a Milano due anni fa).
Nella prostituzione, esistono gruppi nazionali che all’inizio hanno tentato di controllare anche le straniere. Quello siciliano viene sgominato nel febbraio ’87 (lo guidava un panettiere di 54 anni), dopo il ferimento di un’austriaca, dopo cioè forse quella che si dice una ‘lezione’: era una delle ragazze che avevano denunciato i protettori? Ben presto, le pronipoti di Cecco Beppe si sono rese autonome, con tanto di papponi connazionali, ricchi e violenti. L’Europa unita della malavita è molto più veloce di quella dei politici: quello austriaco è un vero e proprio racket della prostituzione, che magistratura e polizia, nonostante ripetuti interventi, non riescono a piegare.
Ma anche i confini europei vengono superati dalla malavita, diventata sempre più internazionale in questi ultimi periodi. Lo confermano arresti di nordafricani legati alla prostituzione e alla droga.
Il lavoro delle forze dell’ordine è duro e difficile: «Servizi investigativi sono stati e vengono svolti» dice il vicequestore di Rimini Alessandro Ferini; ma, aggiunge, «serve forse un’investigazione diversa con strumenti nuovi». La nostra è «una criminalità che viene da fuori e si muove disposta a portare a termine a qualsiasi prezzo un’impresa», precisa Ferini. [7]

NOTA. Antonio Mosca, poliziotto, ferito a Cesena il 3 ottobre 1987 muore nel 1989.

ARCHIVIO.
Quella "Uno bianca"


La vicenda tragica della "Uno bianca". Dalla Storia de "il Ponte" 1987-1996, riprendo una pagina del 1988.

L'anno si è aperto con la tentata rapina alla Coop delle Celle a Rimini, la sera di sabato 31 gennaio: due portavalori sono assaliti da altrettanti malviventi mascherati che sparano tra la folla, con fucili a canne mozze. Una guardia privata (Giampiero Picello, 41 anni, di Ravenna), è uccisa, un suo collega ferito gravemente, altre cinque persone colpite, tra cui una bimba di nove anni raggiunta da pallini alla testa. [24]
È una "nuova malavita senza volto" quella che si affaccia in città, scrive Il Ponte, sottolineando un particolare che sfugge alla cronache dei quotidiani, e che verrà confermato dalla indagini sulla banda riminese della "Uno bianca": "Il piano della fuga era stato predisposto con attenzione, utilizzando scappatoie che solo gente molto pratica della zona" poteva conoscere. [25] All’allarme che si diffonde in città, il questore di Forlì Francesco D’Onofrio risponde che sulla Riviera la malavita non è un’epidemia come a Palermo, anche se, ammette, la nostra è una zona "estremamente ricettiva ad accogliere una criminalità stanziale". [26] Il vice-questore di Rimini Alessandro Fersini parla di "criminalità che viene da fuori e si muove disposta a portare a termine a qualsiasi prezzo un’impresa". [27]

NOTE
[24] Cfr. A. M., La mala spara, la città in ginocchio, n. 6, 7/2/88.
[25] Cfr. L. Mari, Nuova malavita senza volto, n. 7, 14/2/88.
[26] Cfr. L. Mari, E il questore dice: "Rimini non è Palermo", n. 7, 14/2/88.
[27] Cfr. A. Montanari, Il giallo si addice alla costa, ultima puntata dell’inchiesta "Rimini come, viaggio dentro la città", n. 34, 11/9/1988.

Una pagina web del 2010

"Uno bianca", l'Italia "nera" dei misteri
Per Rimini un ruolo decisivo nelle indagini


Quindici storie dal lato oscuro, le chiama uno slogan nella quarta di copertina. Sono quelle che Roberto Sapio, magistrato in pensione, napoletano di origine e riminese di adozione, racconta in un libretto interessante per molti aspetti, non ultimo quello di fornirci la testimonianza diretta del suo lavoro, svolto nella "Rimini nera" di cui dice il titolo. Sono storie che partono dagli anni '80 e che dovrebbero delineare, come suggerisce il sottotitolo, "L'altra faccia di una città".
L'introduzione dell'editore Massimo Roccaforte annuncia una Rimini post-moderna come sintesi di quella nuova società italiana in cui tutto sembra perduto, guastato e putrefatto. Il libro di Sapio è come un piccolo mosaico, le cui tessere delineano un'immagine inquietante, se ci si lascia sopraffare dall'emozione. Se usiamo la freddezza che richiede la volontà di capire, scopriamo che non si parla soltanto di Rimini.

Il volume raccoglie testi già apparsi sulla stampa locale e contributi originali, il più importante dei quali, per il suo contenuto e contesto, è quello intitolato "Banditi in divisa", ovvero la storia della banda della "Uno bianca". Storia che meritava maggior spazio, se non tutto il libro, per un approfondimento che appare indispensabile.
Sapio parte dal 18 agosto 1991, quando due senegalesi (Babon Cheka e Malik Ndiay, operai, 27 e 29 anni) sono uccisi a San Mauro Mare: "La Uno bianca degli assassini fugge e, all'altezza di San Vito, non si ferma ad uno stop e quasi investe una Ritmo con a bordo tre ragazzi provenienti da un locale da ballo. Alla rabbiosa protesta di costoro la Uno bianca si mette ad inseguirli sparando un colpo che per fortuna non raggiunge alcuno dei ragazzi, che arrivati al vicino paese, si rifugiarono in un bar mentre gli inseguitori proseguirono verso Torre Pedrera dove abbandonarono la macchina".
Il sostituto procuratore di Rimini Sapio, avvisato dai Carabinieri, interviene sul posto, e decide di saltare le ferie per chiarire il mistero di quel fatto. Si forma una convinzione: quelli che hanno ucciso a San Mauro i due giovani (ferendone un terzo) sono "persone che indossano una divisa o che, all'occorrenza, possono mostrare un tesserino".
Questo è l'aspetto autobiografico del racconto, in cui si aggiunge: la riflessione di quel sostituto procuratore "provocò la reazione dei superiori e la minaccia di esonero dall'inchiesta". A questo punto Sapio riassume come giunse a quella scandalosa conclusione che sarebbe stata confermata dagli sviluppi delle indagini.
Sono considerazioni psicologiche che il cronista può riassumere con una sola parola, arroganza. Sapio fa un ritratto dei banditi basandosi anche sui precedenti episodi in cui la banda della "Uno bianca" ha agito. Quello di San Mauro non è il primo della serie.
Ripercorriamoli, gli altri fatti. Dal libro di Antonella Beccaria intitolato "Uno bianca e trame nere", riprendiamo l'elenco delle vittime con i luoghi dei ferimenti o delle esecuzioni, che precedono il delitto di San Mauro.
Antonio Mosca, poliziotto, ferito a Cesena il 3 ottobre 1987 muore nel 1989; Giampiero Picello, guardia giurata, ucciso il 30 gennaio 1988, Rimini; Carlo Beccari, guardia giurata, ucciso il 19 febbraio 1988, Casalecchio di Reno; Umberto Erriu e Cataldo Stasi, carabinieri, ammazzati il 20 aprile 1988, Castelmaggiore; Adolfino Alessandri, pensionato, ucciso il 26 giugno 1989, Bologna; Primo Zecchi, autista Hera, ammazzato il 6 ottobre 1990, Bologna; Rodolfo Bellinati e Patrizia Della Santina, nomadi, uccisi il 23 dicembre 1990, Bologna; Andrea Farati, benzinaio, e Luigi Pasqui, dirigente aziendale, uccisi il 27 dicembre 1990, Castelmaggiore; Paride Pedini, artigiano, ammazzato il 27 dicembre 1990, Trebbo di Reno; Mauro Mitilini, Andrea Moneta e Otello Stefanini, carabinieri, uccisi il 4 gennaio 1991, Bologna; Claudio Bonfiglioli, benzinaio, ammazzato il 20 aprile 1991, Borgo Panigale; Licia Ansaloni, commerciante, e Pietro Capolungo, carabiniere a riposo, ammazzati il 2 maggio 1991, Bologna; Graziano Mirri, benzinaio, ucciso il 19 giugno 1991, Cesena. In tutto fanno 19 vittime. Giancarlo Armorati, pensionato, ferito il 15 gennaio 1990 a Bologna, muore nel 1993. Siamo così a 20 vittime.

Antonio Mosca, ferito a Cesena, era un poliziotto di Rimini. Leggiamo le nostre cronache nel Ponte del 1987. La banda del racket che ha preso di mira l'autosalone riminese di Savino Grossi, è intercettata dalla polizia il 3 ottobre, mentre sta ritirando a Cesena sull'autostrada una valigetta piena di soldi. I banditi sparano contro la vettura di Grossi e l'auto-civetta del Commissariato di Rimini, colpendo tre agenti: Antonio Mosca (39 anni), Luigi Cenci (25), Addolorata Di Campi (22). Il Ponte si domanda: "Dietro tutta la vicenda, c'è solo una richiesta di trenta milioni?". Antonio Mosca muore nel 1989 in seguito a quelle ferite.
Saltiamo al 1988, sabato 31 gennaio. Alla Coop delle Celle, due portavalori sono assaliti da altrettanti malviventi mascherati che sparano tra la folla, con fucili a canne mozze. Una guardia privata, Giampiero Picello, 41 anni, di Ravenna, è uccisa, un suo collega ferito gravemente, altre cinque persone colpite, tra cui una bimba di nove anni raggiunta da pallini alla testa.
È una "nuova malavita senza volto" quella che si affaccia in città, scrive Il Ponte, sottolineando un particolare che sfugge alla cronache dei quotidiani, e che verrà confermato dalla indagini sulla banda riminese della "Uno bianca": "Il piano della fuga era stato predisposto con attenzione, utilizzando scappatoie che solo gente molto pratica della zona" poteva conoscere.
All'allarme che si diffonde in città, il questore di Forlì Francesco D'Onofrio risponde che sulla Riviera la malavita non è un'epidemia come a Palermo, anche se, ammette, la nostra è una zona "estremamente ricettiva ad accogliere una criminalità stanziale". Il vice-questore di Rimini Alessandro Fersini parla di "criminalità che viene da fuori e si muove disposta a portare a termine a qualsiasi prezzo un'impresa".
Le ultime vittime della banda, dopo i due senegalesi, sono Massimiliano Valenti, fattorino, 24 febbraio 1993, Zola Predona; Carlo Poli, elettrauto, 7 ottobre 1993, Riale (BO); Ubaldo Paci, direttore di banca, 24 maggio 1994, Pesaro. Il bilancio finale è di 25 morti e 10 feriti in 103 delitti. Esso non è geograficamente limitato alla nostra zona, per poter parlare soltanto di "Rimini nera".

È la solita storia. Quella delle storie di periferia che scivolano nel dimenticatoio perché le si crede secondarie, in base all'opinione alquanto ridicola che a far notizia dev'essere soltanto quanto accade nelle capitali o nelle grandi città.
Provate a guardare nei libri più famosi sulla recente storia italiana usciti in questi anni: non troverete una riga della vicenda della "Uno bianca". Una agente di Polizia, Simona Mammano, recensendo su Repubblica-Bologna il bel volume di Antonella Beccaria, nel 2007 ha scritto: "Una questione irrisolta per tutte: come è stato possibile che un commando di assassini potesse operare indisturbato per così tanto tempo?", concludendo: "Questa, dunque, è una storia scandita da errori, valutazioni sbagliate, depistaggi palesi e false testimonianze".
Nel 2003, Sandro Provvisionato su "L'Europeo" ha ricordato che il sostituto procuratore di Rimini Roberto Sapio fu "il primo a sostenere (non creduto)" che la banda fosse composta di gente in divisa.

Sapio era osservato da vicino. E minacciato dalla Falange Armata. Anche con un messaggio cifrato, come il richiamo ad un racconto di Poe, "La lettera rubata". Dove una missiva scomparsa nella casa di una gran dama è ritrovata sulla scrivania di un prefetto.
Nel 1995 si è discusso se la banda della "Uno bianca" fosse collegata a Gladio, come suggerivano i servizi segreti francesi. Smentiva Daniele Paci, il magistrato riminese che ha incastrato i sei feroci assassini della banda: "occuparsi dei servizi segreti o della falange, sarebbe come occuparsi dei marziani".
Sulla Falange Armata scrive Beccaria che nel 1994 essa è indicata da una informativa della DIGOS come un gruppo formato da uomini appartenuti al Sisde ed alla Folgore.
Nicola Mancino nel 1991 quale ministro dell'Interno la ritiene composta da "terroristi della disinformazione che lavorano in orario di ufficio".
Un sostituto procuratore romano parla di gente che ha piena disponibilità di una rete informativa all'intero dell'apparato pubblico. Le telefonate intercettate della Falange sono circa 500, delle quali 221 riguardano la banda della "Uno bianca". Tutte arrivano a fattaccio avvenuto.
Nel 1995 a Roma in Senato il prefetto di Forlì Raffaele Pisasale sembra non credere ad un'organizzazione a vasto raggio: "Voglio dire che mi sembra strano che una organizzazione, sia essa terroristica o mafiosa, non sia intervenuta in aiuto, non abbia tentato un qualche intervento".

Quella della "Uno bianca" non è soltanto una vicenda della Rimini nera, ma una pagina sconosciuta e misteriosa delle politica italiana. Come tante altre storie simili. Ridurla ad un fatto locale è una stranezza provinciale di chi, come l'editore, scambia il proprio ombelico per il centro del mondo.
A risolverla furono due poliziotti riminesi, Pietro Costanza e Luciano Baglioni, che da soli scoprirono i Savi. Il loro capo era Oreste Capocasa, attuale questore (ed ex compagno di corso nel 1979 di Antonio Di Pietro). "Dopo la vicenda dei Savi me ne sono successe di tutti i colori" confidò Baglioni a Simonetta Pagnotti di "Famiglia Cristiana", dichiarando che il vero errore della Procura di Bologna era stato di seguire la pista del "clan dei catanesi" e poi quella della "quinta mafia" del Pilastro.


Rimini ieri. Cronache dalla città
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2089, 26.09.2014

Antonio Montanari

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