RICONCILIAZIONE E PERDONO - UN PERCORSO DI RICONCILIAZIONE CON SE STESSI

Difficoltà e prospettive alla luce della Psicologia del Profondo

(Dott.ssa Anna Portoghesi)

 

Introduzione Al Problema

All’incirca un mese fa, Erica, una mia nipotina di otto anni, raccontava con aria trionfante di essere stata ad Edenlandia e di aver visitato (“da sola, senza papà e mamma”) il Castello degli Orrori e, poiché si dilungava compiaciuta a parlarmi dei vari “Mostri”, le ho chiesto se aveva avuto paura. “Soltanto un poco, zia” mi ha risposto, “ma in effetti li conoscevo già: sono tutti i Mostri che io mi sogno e che tu mi hai detto che i sogni li creiamo noi nella nostra mente”.

“E’ vero, è proprio così” le ho detto “è sempre così nella vita”. Non ci sono “Mostri”, fuori di noi, nel mondo esterno, più di quanti popolino il mondo, talvolta nascosto persino a noi stessi, dei nostri sogni e delle nostre fantasie.

·        Ho voluto riferire di questo piccolo aneddoto autobiografico per entrare subito nel vivo del problema in maniera piuttosto informale e scherzosa, ma indubbiamente la vita ci pone di continuo di fronte a situazioni ed eventi drammatici, spesso terribili, minacciosi, persecutori, ostili, altro che Castello degli Orrori. Basta guardarsi intorno, ascoltare il Telegiornale: squadroni della morte, rapimenti, omicidi, violenze assurde di ogni tipo anche sui bambini.

·        Di fronte a tutto questo ha senso, umanamente e psicologicamente, parlare di riconciliazione e di perdono? In altre parole, volendo in questo momento far riferimento prioritariamente, anche se non esclusivamente, ad una psicologia della salute e del benessere, ha senso parlare di opportunità del perdono e della riconciliazione? E’ vero che perdonare ci aiuta a stare meglio in salute, oltre che ad essere più felici e più creativi?

·        Se l’evoluzione spirituale dell’uomo passa necessariamente attraverso il perdono delle offese ricevute e l’amore verso i nemici, perché a volte la volontà non basta? Perché talvolta è tanto difficile perdonare? La Psicologia del Profondo può aiutarci a trovare delle risposte venendo in soccorso alla Psicologia delle Vette?

Personalmente ritengo che ci siano motivi umani molto validi per imparare a perdonare e ad amare: come credenti e come cristiani abbiamo una marcia in più  (“amatevi come io vi ho amati” Gv. 13,24), ma, attenzione! È anche una responsabilità in più.

Certo tutto è Grazia ed opera attraverso la Grazia, ma la Grazia di Dio lavora oltre che con mezzi straordinari e soprannaturali, anche con mezzi naturali ed umani.

Qui ci occuperemo di questi secondi mezzi, che non escludono i primi, anzi, in un certo senso ne costituiscono la base operativa, il presupposto, la premessa facilitante.

Camminare nella vita con amore e nell’amore, vivere da riconciliati, nonostante tutto, non significa ignorare o negare il male fuori di noi e nemmeno quello dentro di noi, ma significa, innanzitutto, imparare a guardarlo proprio lì, dentro di noi, e riconoscerlo ed accettarlo: quindi, solo dopo aver passato bene in rassegna la nostra personale “Galleria dei Mostri”, integrare ed elaborare quei contenuti psichici trasformandoli attraverso un’alchimia interiore.

La dinamica psico-spirituale della pace e del perdono, dell’amore per i nemici passa di continuo attraverso questa duplice via: la Discesa agli Inferi nell’universo personale delle immagini fantasmatiche inconsce (i “Mostri”), fino ad incontrare il fantasma più terrificante di tutti, la “Ferita” e fino al punto in cui lo sguardo, dapprima ostile e terrorizzato, ne risulta purificato e pacificato; e quindi la risalita verso l’Alto, l’esterno e gli altri, senza lasciarsi più schiavizzare dalla paura, dalla rabbia e dal rancore, non perché invulnerabili al male e al dolore, ma perché ormai capaci di stemperarli nella consapevolezza profonda di un comune destino di fragilità e forza insieme , avvolgendo tutto in uno sguardo di compassione e di misericordia, lo sguardo di chi sa perdonare gli altri perché ha imparato a perdonare se stesso.

E la spinta motrice di tutto questo? Cosa dà l’avvio a questo duplice movimento?

Solo un’esperienza autentica e gratuita di accoglienza e di amore può indurre ad intraprendere un simile viaggio nelle tenebre del mondo interiore:

                                         “…..se siedo nelle tenebre,

                                           il signore sarà la mia luce.”

                                                                       (Mi 7,8)

L’amore, infatti, discende sempre dall’alto, o direttamente o attraverso il tramite di una relazione umana. Solo un cuore grato e consapevole del dono ricevuto può disporsi con coraggio ed umiltà a questo lavoro grande e terribile di bonifica interna.

Il viaggio dentro, nei meandri oscuri della mente e del cuore alla ricerca delle tracce traumatiche della propria storia costituisce una vera esperienza iniziatica di “rinascita” (o di resurrezione) e una volta sperimentato fornisce una chiave determinante: comprendi allora che se vuoi rimanere aperto alla vita e all’amore hai bisogno di rifarlo sempre, di continuo.

In altre parole, per perdonare ed amare hai bisogno di sanare la tua ferita e per risanare la ferita hai bisogno di rimanervi consapevole, di tenerla presente, continuando a guardarla con consapevolezza, misericordia e benevolenza.

 

 

                  Guardare La Ferita

                  (o conoscere la Ferita)

Adesso, però, abbiamo bisogno di procedere gradualmente per renderci conto in maniera chiara e precisa dei passaggi e delle implicanze coinvolte.

Partiamo da un paio di esperienze più o meno famigliari a tutti.

a)      Ci sarà capitato di ricevere un torto o un danno non insignificante da qualcuno e di non esserci sentiti feriti più di tanto: in questo caso è stato facile accettare e perdonare.

b)      In altre situazioni, in presenza di un danno analogo o magari anche meno grave, talvolta una piccola disattenzione, una frase, una parola, un’inezia qualsiasi, hanno scatenato in noi una sorta di reazione emotiva a catena, qualcosa di quasi incontrollabile. Un incredibile marasma emotivo si è impadronito di noi, una vera e propria bufera emozionale: rabbia, ostilità, dolore, sentimenti di esclusione e/o di persecuzione, intolleranza, scontentezza e sensi di colpa si agitavano in noi creando un vortice di pensieri negativi e negativizzanti, che ancora di più andavano ad alimentare il tumulto interiore.

      E  la  tensione  interiore  cresceva in un momento a spirale che si allargava sempre di più:  dal    

      cuore alla testa, dalla testa al cuore, dal cuore di nuovo alla testa e così via.

Quante volte abbiamo pensato in quei momenti:

 “Ma ce l’ha proprio con me!”

 “Questo non me lo doveva fare!”

 “Perché capitano tutte a me?”

 “Non mi va proprio giù che pensi questo di me.”

 “Questa volta non ci sto: gliela farò pagare!”

 “Non dovevo permetterglielo, non posso sempre fare lo stupido!”

E ancora:

      “No così non va, dovrei passarci sopra, ma non ci riesco proprio!”

      “Veramente nemmeno se lo merita, devo fargli capire che sta sbagliando.”

      “E poi, pensa di aver trovato un pollo? Io cosa sono per lui: lo zerbino su cui si pulisce i piedi?”

Ora, al di là del fatto oggettivo, abbiamo bisogno di capire che cosa è successo dentro di noi, che cosa ha scatenato quella valanga emotiva.

Intanto, come già visto, ciò non si verifica sempre: in altre situazioni prendo atto dell’accaduto, avverto anche il turbamento emotivo di dispiacere o di rabbia o di delusione, ma il tutto fa il suo corso e scivola via lasciandomi tranquilla: prendo le mie risoluzioni e vado oltre, non avverto dentro di me nessuna fratturata me e l’altro, sono in pace (magari l’altro/a non è in pace con me, ma non è questo che importa: il perdono  è tale proprio perché è “per-dono”).

Abbiamo bisogno di capire cosa rende diverse le situazioni. Evidentemente un contraccolpo esterno comporta reazioni molto diverse a seconda del territorio interiore che va a toccare: certo una cosa è ricevere un urto su un arto sano, un’altra cosa è ricevere lo stesso urto su di un arto ferito o malato; in tal caso il dolore può essere lancinante.

 Per i territori dell’anima accade la stessa cosa. Ed allora un dolore antico, risvegliato da una ferita recente, risveglia i fantasmi interni, che all’antica ferita ed al suo dolore si accompagnavano.

Potremmo dire ciò anche in modo diverso: non è tanto il fatto in se a farci male, quanto piuttosto il significato (o i significati) che quel fatto assume dentro di noi, anche a nostra insaputa, il suo fungere da cassa di risonanza per vecchi contenuti psichici, non conosciuti abbastanza e quindi, non risolti. Naturalmente, appena toccati, tornano ad agitarsi in superficie con tutta la loro virulenza.

Se non si è avvezzi all’introspezione, non è facile, soprattutto in quei momenti , riconoscerli come immagini fantasmatiche, provenienti dai territori più arcaici e rimossi del nostro inconscio ed allora si tenderà a confonderli con l’effettiva realtà esterna, mentre sono soltanto immagini psichiche, proiettate sullo schermo del mondo come in uno specchio (in termini tecnici, Proiezioni).

Riconoscerli come “Fantasmi” significherebbe prendere atto che, se qualcuno ha sbagliato verso di me, probabilmente non intendeva perseguitarmi ed io non sono perseguitato, ma mi sento perseguitato…ora…come allora…Non sono tradito, ma mi sento tradito, ora , come allora. Non sono minacciato, ma mi sento minacciato, ora, come allora.

E l’unica vera persecuzione è quella proveniente dai vissuti traumatici della mia storia, quei vissuti tanto tempo fa rimossi dalla coscienza, perché avvertiti troppo dolorosi e inaccettabili.  Jung li chiamò Ombra che impariamo a nascondere persino a noi stessi, escludendoli dalla consapevolezza. Il viaggio negli Inferi è il viaggio nel Regno dell’Ombra.

Alla radice di tanta sofferenza “inutile” nei rapporti interpersonali e nel rapporto con noi stessi e con la vita e di tanta inanità nella tensione spirituale verso l’Amore ci sono, dunque, due meccanismi psichici molto frequenti, di cui la Psicologia del Profondo ha esplorato le dinamiche:

-         la Rimozione, cioè l’allontanamento dalla coscienza di ciò che non vogliamo ricordare e accettare in noi;

-         la Proiezione, cioè l’attribuire agli altri ciò che è dentro di noi e che non possiamo riconoscere avendolo rimosso.

Ed è una vera e propria sfilata di “Mostri”! Certo ognuno di noi ha “Mostri” particolari, più facilmente ricorrenti, ma guardando bene e serenamente possiamo parafrasare Paracelso:

                        “Come fuori, così dentro”.

Io non sono né migliore, né peggiore degli altri, ma posso mettermi in cammino e provare a crescere. Questo però comporta molta umiltà e il coraggio necessario per non fuggire dinanzi a me stesso e per fermarmi a guardare in faccia ai miei Fantasmi. Comporta accettare di scoprire che ci sono proprio tutti, quelli cattivi ed angoscianti, ma pure quelli buoni ed edificanti: il padre violento e dominante, ma anche il padre protettivo ed amorevole, il fratello traditore, invidioso e geloso, ma anche quello che sa essere collaborativo e camminarti al fianco, la madre castrante e possessiva, o perversa e abbandonica, ma anche la madre che nutre e conforta; il mondo interiore è popolato di ogni sorta di personaggi, è molto difficile che emergano quelli positivi (gli Archetipi di Jung) se prima non siamo stati disposti ad incontrare quelli negativi.

Tutto ciò non implica necessariamente che i nostri genitori e familiari siano stati veramente così negativi ed angoscianti, ma significa che, almeno in un certo momento critico della nostra vita e della nostra storia, li abbiamo vissuti così ed abbiamo rimosso il tutto sentendolo ingestibile e inaccettabile.

Nessuno probabilmente allora ci ha aiutati a capire che emozioni e sentimenti  non sono di per sé valutabili a livello morale e che nella sfera emotiva ciò che è valutabile è solo l’uso che la persona ne fa; troppo spesso si confonde la responsabilità etica nel comportamento con l’imbrigliamento emotivo:

“Se voglio comportarmi bene, non devo (non posso permettermi di) provare rabbia, dolore, gelosia …”

Da qui parte i processo di rimozione. Ma in effetti non può esserci autentica responsabilità nella condotta senza responsabilità emotiva, perché i Fantasmi, non riconosciuti come tali, ti fregano facendoti lo sgambetto, quando meno te l’aspetti! Ma non c’è responsabilità emotiva senza libertà emotiva (verità emotiva). Intanto comincio a guardare ed a riconoscere ciò che provo, bello o brutto che sia, che mi piaccia o no, semplicemente perché è così, questa è la mia verità interiore in questo momento della mia vita, poi vedremo che cosa posso farne e cosa voglio farne.

E man mano che riportiamo alla luce della consapevolezza e accettiamo nella pace, quei Fantasmi, così rumorosi e disturbanti cominciano ad allontanarsi, esercitano ora una pressione molto minore, ora che si sentono riconosciuti ed accettati sembrano placarsi.

Ma il viaggio non termina qui, anzi ci aspetta la parte più impegnativa del tragitto in un territorio psichico molto più tenebroso e silenzioso. E’ come lasciarsi scivolare giù lungo un budello buio in una sorta di “vuoto” doloroso: è un dolore senza parole e senza suoni, e se suono c’è, è soltanto un grido o un pianto, inerme, sommesso, come quello di un bambino molto piccolo.

Siamo in presenza del Fantasma più terrificante di tutti: la Ferita: stiamo penetrando nel vivo della prima ferita, le sue labbra sono ancora aperte e sanguinanti – Poco importa se ricordiamo o meno le circostanze precise in cui è stata inferta, ciò che conta è il messaggio emotivo, ora la nostra ferita è lì, dinanzi a noi, allo scoperto e ne avvertiamo tutta la dolorosità allagante.

Rimanere lì e mettersi in ascolto di quel dolore non è facile: intanto comporta prendere atto di essa, della Ferita e del nostro non essere integri ma per l’appunto divisi, feriti, lacerati dentro, nel nucleo più profondo e delicato del nostro essere. E’ prendere atto della limitazione, della fragilità, dell’impotenza, e insieme al dolore cogliere il terrore oscuro che la ferita porta con sé: il rischio dell’annientamento, dello smembramento, della morte come catastrofe ultima, totale annichilimento e disintegrazione dell’essere.

E’ riconoscersi umilmente e nella verità come creatura, fragile, vulnerabile, ferita e, tuttavia, (meraviglia!) ancora lì, ancora nella vita; posso dire ancora “io” e posso constatare che quella ferita, pur così terribile non mi ha distrutto, non mi ha condotto alla morte.

Ora accade qualcosa di nuovo: il dolore sembra stemperarsi, addolcirsi e un sentimento diverso, un misto di curiosità, di stupore e di gratitudine comincia ad affiorare. Forse la Ferita reca per me un messaggio che ho bisogno di interpretare; forse nella mia Ferita è scritto il mio destino, la direzione di vita che sono chiamato a prendere; forse la Ferita chiede perdono a me e con essa il Feritore (ma “Chi” è?); forse ho bisogno di riconciliarmi con la ferita.

Ma quando mi pongo questi interrogativi è segno che sto già cominciando ad accettare.

 

                   Sanare La Ferita

                   (o accettare ed amare la Ferita).

Certamente la Ferita ha un suo segreto da rivelare, e interrogarsi su di essa è già dare l’avvio ad un processo di guarigione interiore, è già cominciare a prendersi cura di essa: ciò ne facilita la cicatrizzazione.

I miti e le leggende di varie culture sembrano indicare possibili risposte. Le antiche leggende del Sacro Graal narrano del re custode del Graal come di un “dolce signore” dotato di poteri arcani e taumaturgici, ma afflitto da una misteriosa ferita all’inguine, che doleva e sanguinava di continuo. Nessuno a corte osava domandare nulla del male e della ferita del re, nonostante il fatto che tutte le azioni delle dame e dei cavalieri del castello ruotassero attorno al re ferito. Eppure a corte ognuno sa che soltanto quando verrà posta al re la domanda sul suo male innominabile, si romperà l’incantesimo e il re sarà risanato come per magia dal suo male.

Il significato è chiaro: la ferita non accettata e non riconosciuta, la ferita di cui si tace, rimane aperta e continua a dolere e  a sanguinare; la ferita guardata, assunta consapevolmente come parte di se da accogliere ed amare, tende a guarire spontaneamente e svela al possessore i suoi segreti. Può fare di te un guaritore, oppure un guerriero e un eroe.

La ferita accettata ed amata, non vissuta più come oltraggio, punizione, rischio o menomazione, ma accolta come dono e opportunità, diventa la breccia da cui scaturisce la luce e conferisce a chi ne è segnato facoltà superiori.

Nella mitologia greco-romana il dio Vulcano, storpio e zoppo, aveva la capacità straordinaria di costruire armi magiche e meravigliose, che rendevano invincibile chi le indossava. Anche nella Bibbia, è presente un messaggio analogo: Giacobbe, dopo aver lottato una notte intera con l’Angelo del Signore, fu ferito all’anca da lui e per il resto della sua vita rimase zoppicante, ma da quell’evento maturò in lui un’autocoscienza di se stesso e della sua missione tale da renderlo capo delle dodici tribù di Israele.

I miti dell’antichità ci aiutano a fare chiarezza sul tema della Ferita, che è poi il tema della difficoltà a perdonare e a pacificarsi: sembrano indicare che la Ferita, vissuta con consapevolezza ed assunta nella pace, viene a costituire una sorta di “Memento mori” o, potremmo dire memoria della morte ed apre, quindi, alla possibilità della rigenerazione e della vita; essa viene a formare, inoltre, un nucleo di integrazione degli opposti polari, sempre presenti all’interno della persona: principio maschile e principio femminile, animus e anima, puer e senex, salute e malattia, fragilità e forza, genitore e figlio, trovano una loro armonica e paradossale confluenza, proprio attraverso la Ferita, nel solco dell’antica Ferita. Tutto ciò è confermato dalla Psicologia del Profondo e dai risultati della sua applicazione terapeutica.

Ma per avere una chiave di comprensione più esplicita di “come” ciò possa accadere ci viene in aiuto il mito di Ulisse:

 

“una delle derivazioni etimologiche del nome di Ulisse (Ulixes in latino) è composta da oulos, che significa ferita, è da tichea, che significa coscia. Evidentemente la coscia ferita doveva essere essenziale alla sua natura, se ha dato ad Ulisse il nome.

…………. Ulisse non muore a causa dell’incornatura, la sua ferita diventa una cicatrice …………

Da un lato, egli è, come gli altri, un Puer (bambino) – sempre in partenza per altri luoghi, nostalgico e pieno di desiderio, amato da donne che egli rifiuta, opportunista e scaltro, sempre in pericolo di annegare. D’altro canto, egli è un padre, un marito, un comandante con le qualità senex (anziano) del consigliere e della capacità di sopravvivere.

La storia del ferimento di Ulisse viene rivelata verso la fine dell’Odissea, quando la vecchia nutrice gli lava i piedi, si accorge della cicatrice e per poco non lo tradisce ………….

Un sereno scambio tra giovane e vecchio lo vediamo nel particolare rapporto che egli ha con Nestore (chiamato senex nelle versioni latine) e anche con il figlio di Achille (chiamato puer), ed è notevole l’amore che c’è tra lui e suo padre e fra lui e suo figlio Telemaco ……….. L’ultima pagina del libro vede l’alba di un nuovo giorno con Ulisse che si alza e insieme al figlio va incontro a suo padre …………. La cicatrice che lo fa riconoscere è il segno dell’anima nella carne. E’ il sigillo dell’anima, la psiche somatizzata. La sua carne è diventata la ferita .………….. Il corpo ferito è diventato la ferita incarnata è la ferita di Ulisse essendo incarnata, cementata nella sua esistenza, mediante la gamba che lo porta e cammina, è anche la sua comprensione nascosta ed il suo sostegno di fondo ………… La ferita aperta ed insita nella struttura puer, la ferita cicatrizzata, invece, sembra riferirsi ad un individuo la cui anima può prendersi cura di lui …………..

Non ci si aspetta che la guarigione giunga da altrove. Essa  emerge dalla profondità della ferita e lascia una cicatrice; una cicatrice che è sempre visibile alla propria nutrice ……………

L’ultima scena del ricongiungimento di Ulisse con la sua casa ci mostra il vecchio Laerte, suo padre, che indossa una tunica ed un cappello di pelle di capra, mentre zappa tutto solo un campetto di erica ………………… Finora Ulisse era sempre stato il padre e Telemaco il figlio in cerca del padre. Ma ora, alla fine, di fronte a Laerte ………… Ulisse è il figlio, che ricorda la Ferita; la caccia, e il giardino nella sua giovinezza. Ed è proprio da questi segni che viene riconosciuto ………………… “

(James Hillman, Saggi sul Puer, Raffaello Cortina ed., Milano, 1988)

L’incapacità a riconoscere e ad amare la ferita suggella, quindi, una immaturità o quanto meno una difficoltà a crescere e ad amare; al contrario, il riconoscimento e il ricongiungimento con la propria ferita consentono il salto di qualità verso la maturità affettiva, la misericordia e il perdono, in quanto permettono di cogliere ed amare attraverso la propria anche la fragilità e la ferita traumatica dell’altro.

La ferita stessa diventa padre e madre della nostra esistenza. Non è facile, né  scontato, ma è un dono e un’opportunità stupenda.

“Questo significa che la ferita dei non amati è guarita una volta per tutte? Come è possibile, se le tracce traumatiche di una precoce carenza d’amore non possono mai rimarginarsi del tutto ed  il sentimento di estraneità rimane una condizione fondamentale dell’uomo? La ferita dei non amati tornerà a riaprirsi nei momenti cruciali dell’esistenza. Tuttavia ora sappiamo che cosa fare. Ancora una volta ci libereremo da una dipendenza per rendere possibile l’amore. La ferita che il non amore ci ha inferto è il ventre dal quale veniamo generati molte volte”.

(Peter Schelleebaum, La ferita dei non amati, Red Ed., Como, 1991).

 

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