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L'ultima preghiera

Di: Francesca Battaglia

Francesca Battaglia, è nata a Torino il 9 Dicembre del 1954, seconda di otto figli; fino a cinque anni rimane con la madre. poi è affidata ai nonni materni con i quali vive fino a tredici anni, tornata in famiglia finisce le scuole medie, poi trascorre un anno in attesa di decidere se andare avanti negli studi o meno, s’iscrive alle magistrali, ma si ritira; poi frequenta un corso di segretaria stenodattilografa e a vent’anni inizia a lavorare.
Nel 1975 è a Loano, due anni dopo è a Roma per una vacanza, seguita da una gita a Venezia. Nel 1983 nasce Serena e io sono la mamma più felice della terra.

Per il suo quarantreesimo compleanno le porgiamo la torta con sopra il commento a questa poesia, che a mio avviso è una delle liriche più belle di Francesca.

«Anche questa è vita

buttata tra trascorsi

d’infiniti inesplicabili.

Ma che esistere è mai questo

che non concede dubbi al domani,

dove sono andati

quei tramonti che fanno sognare?»

Questa vita è ancora chiaramente legata alle esperienze precedenti; se non altro per la presenza di qualche eco post-vociano di liriche e prose poetiche. L’ultima preghiera è la lirica decisiva per la costituzione di una grammatica post-ermetica, quale è stata sviluppata in particolare da Luzi. Io penso, invece che Francesca Battaglia, abbia voluto, in questa lirica, ricercare «assolutezza naturale», un linguaggio rarefatto e provocatorio, con grumi improvvisi di vissuto, così come vuole la poetica dell'«assenza» e dello spazio vuoto visitato dalle precipitazioni del ricordo, che in Battaglia, è anche reale distanza dal mondo dell'infanzia e giovinezza, rievocato miticamente o in una sorta di impressionismo memoriale Questa a mio avviso è la più corretta chiave di lettura della lirica «L’Ultima preghiera» nata dopo la pubblicazione della prima raccolta di poesie, che data 2000

«Là, tra le macerie
un bimbo non ha più lacrime ormai.
Qui, tra la vita,
un bimbo ha sempre lacrime da sprecare
per quello che non ha».

La situazione realistica di partenza potrebbe essere la contemplazione o forse il ricordo di un bimbo che non ha più lacrime e si sente perduto in un paesaggio autunno-invernale bagnato dalle lacrime sprecate illuminate da una luce lunare che rende tutto quasi fiabesco, poiché il bimbo continuerà a piangere, sprecando le «lacrime per quello che non ha». Un dolore forse ricoperto durante il viaggio da casa sua a quella dei nonni materni: il primo viaggio della sua fanciullezza che l’avrebbe tenuta lontano dalla madre per qualche anno; si sente come una zingara, in una carovana di zingari che sosta solo per la notte, la notte, la lunga notte della fanciullezza con le sue paure, le ansie, i suoi desideri frantumati, però com’erano belli i giorni quando ci si trovava tutti della famiglia intorno alla tavola, e il cicaleccio che accompagnava il pranzo e l’incontro: il ritrovarsi.

Ammesso che di questo si tratti, il testo nella sua trama di relazioni analogiche trasfigura questo quadretto e la musica cantata in coro, un coro fatto di voci allegre, ora le rivive attraverso il bambino che non ha più lacrime, ed ha un grumo di sensazioni e vibrazioni arcane, di misteriose presenze e assenze, in un fascio di significati irriducibili a unità razionale. Sa che il risveglio spazzerà via la gioia del giorno precedente, che non godrà per molto tempo del tepore assaporato, proprio come gli uccelli che dormono al freddo con il capo sotto le ali, in senso proprio è probabile, che potrebbe essere un'espressione metaforica. Come non è dato precisare quali precise assenze evochino «le lacrime sprecato del bimbo».

A rendere evocativa e arcana questa immagine non contribuisce artifici tipici del linguaggio ermetico in formazione proprio con la precedente produzione della Battaglia, in questa lirica l'indeterminatezza dell'espressione:

«Il cielo rosso porpora
è macchiato di sangue innocente,
dove l’oro nero nasce
muore la vita».

ci si colloca sulla terra illuminata dalla luce «rosso porpora/macchiato di sangue innocente». E scatta la denuncia, liberamente quasi contro la volontà del subconscio, non è detto con una metafora di un silenzio che peserebbe, ma la lascia esplodere senza fare nemmeno il più piccolo gesto per spegnere la miccia: «Dove l’oro nero nasce/ muore la vita» perché indotta soprattutto dalla iniziale attribuzione «il cielo rosso porpora/è macchiato di sangue innocente», senza essere enfatica e allusiva, la determinatezza del partecipio passato del verbo macchiare e dell'intera frase; la specificazione propria e fantastica replica semplicemente che al risveglio si trova di nuovo ricoperta di solitudine incolmabile. Qualche metafora d'ascendenza pascoliana non guasta, anzi infittisce e accelera il ritmo, già sostenuto per la drammaticità del racconto.

Reno Bromuro

 

 

 

 

 

 

 

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