Lo sguardo di Windows

La seduzione della tecnologia nel pensiero di Ivan Illich

 

di Paolo Coluccia

(paconet@libero.it)

 

I PARTE

 

 

I nostri attuali sistemi ci obbligano a sviluppare

e ad accettare qualsiasi strumento di guerra

che la tecnologia renda oggi possibile,

qualsiasi tipo di macchina, di attrezzatura,

di materiale e di fornitura che aumenti

la produzione e diminuisca i costi, qualsiasi

seduzione della pubblicità e del consumismo.

(Ivan Illich, Invito ad una celebrazione)

 

 

Sia dal punto di vista biologico, sia da quello sociale,

le calorie sono benefiche solo fin quando rimangono

entro lo stretto margine che separa

l’abbastanza dal troppo.

(Ivan Illich, Elogio della bicicletta)

 

 

Premessa

Cinquant’anni di meraviglie e d’orrori. Non è il titolo di un triller, ma quanto scienza e tecnica hanno prodotto negli ultimi cinquant’anni del XX secolo. La seconda metà del ‘900 affonda però le sue radici nei secoli passati, e questi nei millenni. L’accelerazione degli ultimi tempi è stata formidabile e inquietante ad un tempo. Se questo ritmo dovesse continuare all’infinito non ci basterebbe più questo pianeta, anche perché i poveri (oltre quattro miliardi di persone) spingono per raggiungere le nostre meraviglie e, purtroppo, anche i nostri orrori. È nota, infatti, la domanda che a Davos qualche anno fa venne posta ad un ministro africano: «Se i poveri vogliono diventare come i ricchi, occorrerebbero almeno cinque pianeti in più. Siccome non ne abbiamo che uno solo, il problema si pone tra i ricchi. Esiste una visione che possa tener conto di questa problematica?»[1]. Il malcapitato ammutolì. La risposta non può che essere la seguente: ‘Si deve ritrovare il senso della misura!’.

Questo aneddoto apparentemente ingenuo stimola la riflessione per la costruzione di una società di giustizia, un progetto utopico di società a cui nessuno può sottrarsi, da immaginare, implementare e costruire insieme con gli altri. L’utopia sociale, più che una semplice insoddisfazione collettiva, che genera il desiderio di qualcosa, mediante il quale si tenta di realizzare le utopie[2], oltre che il fattore intrinseco della storia[3] o la spinta esponenziale dinamico-costruttiva di un processo storico orientato al futuro[4], è soprattutto un impegno civile, un progetto di vita, un percorso storico che abbia per fine una società giusta. «Il pensiero utopico si definisce dunque come pensiero progettuale della società di giustizia, la quale si va progettando e costruendo, e ancora sempre riprogettando lungo la storia»[5]. Lungo la ricerca sull’utopia storica emerge la giustizia, con la sua storia e il suo senso. «Questa storia è un fondamento di speranza, il fondamento della nostra speranza nell’umanità»[6]. L’ulteriore traguardo è una società fraterna.

  

1. La storia della tecnologia va in parallelo con la storia dello sguardo. Ivan Illich ha tracciato una storia dello sguardo (o della visione). Lo sguardo può essere attivo, poco attivo o per niente attivo. Nell’Antichità lo sguardo s’intese come un organo erettile, che afferrava gli oggetti, le forme e i colori e li portava nell’occhio. Nel Medioevo divenne un raggio di luce che entrava nell’occhio dall’alto. Nell’uno e nell’altro caso persisteva sempre una certa distanza tra l’organo dello sguardo e le cose. Nella Modernità, mediante la prospettiva e l’assonometria, le distanze si sono annullate: non c’è più distanza tra oggetto e occhio. Nel mondo ridotto ad immagine[7], le distanze non contano più. Si può riprodurre ogni oggetto con un’immagine, persino immagini che rievocano e sono legate agli strumenti. Non c’è più una prospettiva oggettiva, ma un’auto-prospettiva. Oggi lo sguardo è una macchina fotografica che capta e registra gli oggetti come immagini e li registra nella memoria.

 

1.1 La storia dello sguardo può essere vista come la storia della distanza tra la mano e lo strumento. Per Aristotele ogni strumento era un tutt’uno con l’organo: il martello del fabbro, la spada del guerriero, la cetra del musico ecc. L’organo/strumento era lo status della classe sociale cui si apparteneva. Nell’alto medioevo, precisamente intorno al 1100, osserva Illich, iniziò l’epoca degli strumenti, o meglio, della separazione organo/strumento. Lo strumento diventò indipendente da chi lo prendeva in mano per farne uso. Per la prima volta qualcuno disegnò gli strumenti artigianali su un tavolo, separati dalle mani e dalle persone che li usavano. Da una falsa etimologia della parola meccanica – erroneamente fatta derivare da moichós (μοιχός = adulterio) – Teofilo presbiter osservò che non è decente mostrare gli strumenti separatamente dalla mano, perché essi possono sedurre, proprio come fanno le prostitute.

Ci fu un triplice cambiamento: semantico, filosofico, teologico. La teologia, in particolare, ritenne che se gli strumenti fossero stati usati correttamente questi sarebbero stati buoni e quindi derivati da Dio. Da questa consacrazione iniziò la tecnologia, cui seguì la scoperta delle invenzioni. 

Sulla scorta della metafora dello sguardo, e potendo oggi osservare la terra dallo spazio, abbiamo di fronte a noi tre punti luce:

1) la costa nord-est (USA);

2) la costa nord-ovest (Europa);

3) la costa del Giappone.

Nello spazio dunque ci sono 3 punti luce (illuminazioni):

Questo                                                                                 costa nord-est (USA)

Punto  +  dipende dagli investimenti                                      costa nord-ovest (Europa)

Visivo                                                                                   costa del Giappone

Prigogine ha osservato che il livello di movimento sulla terra appartiene alle fasi di movimento delle auto e non degli uomini che le guidano. Quest’ultimo non appartiene più agli uomini, ma è di dominio assoluto degli strumenti meccanici che essi guidano.

 

1.2 Ma da dove parte questa visione? Qual è l’origine più emblematica della tecnologia moderna? La scrittura, secondo Illich, risultato dell’alfabeto e della pagina, è alla radice del pensiero occidentale. L’alfabeto è la tecnologia per eccellenza, che, strumento esso stesso, si arricchisce continuamente di nuovi strumenti, come «la pagina, la stampa, la scuola, poi la produzione massiccia di libri, la generalizzazione delle immagini, il linguaggio informatico, i sistemi logici e Internet»[8]. E lo sguardo gioca un ruolo straordinario. Questa storia comincia a partire dalla rivoluzione avvenuta nel testo scritto intorno al 1100 per arrivare fino alla pagina elettronica di un wordprocessor. Ma oggi Windows è uno strumento? Lo afferri o sei afferrato? Lo afferri con lo sguardo e con le mani o è il suo sguardo che ti avvolge e ti annulla? Ancora una volta il problema dello sguardo irrompe sullo scenario contemporaneo, lo sguardo ritorna in tutta la sua dirompente complessità.

Per alleggerire il discorso e per fare un esempio concreto, voglio narrarvi un curioso aneddoto realmente accaduto legato al correttore automatico di Word. Un professore universitario, mentre leggeva una relazione, che aveva scritto per presentare un libro che conteneva una raccolta di saggi di vari autori, si soffermò brevemente su un mio testo inserito nella raccolta per citarne una frase. Ma, con sommo stupore, alcuni dei presenti ed io stesso, nel sentir citare l’autore di quel saggio, cioè io, sentimmo pronunciare il mio cognome da Coluccia a cosuccia! Cosa era successo? Semplice: quando il relatore aveva scritto il testo della relazione al suo computer, aveva lasciato libero il correttore automatico di Word, il quale, non riconoscendo la parola del mio cognome, aveva pensato bene di mutarla automaticamente con quella che a lui sembrava la più ovvia, cioè cosuccia, dal significato strumentale più ovvio. Questo fa capire che chi scriveva non solo aveva ormai perso il controllo dello strumento, ma anche il contatto con la realtà, cioè con il libro e con me, che ero almeno in parte all’origine della sua citazione testuale, e con il mondo. E, convinto della bontà del suo strumento d’elaborazione testi, ha lasciato inalterato l’errore corretto erroneamente. Non è l’unico ad esserci capitato, in verità, visto che il mio cognome, come tanti altri, si prestano a simili scherzi. Un’altra volta c’è cascato un caporedattore di una rivista: ho le prove di quanto affermo! A questo punto mi chiedo: a cosa potrà mai servire il correttore automatico elettronico di Word ad un professore universitario o a un caporedattore se non a disincarnarsi dalla carne e dalla realtà?

 

1.3 Cosa abbiamo perso e cosa abbiamo guadagnato in tutto questo, si è chiesto Illich, nella nostra relazione con le persone e con il mondo? Illich ha scritto su questo argomento un memorabile commento al Didascalicon di Ugo di San Vittore[9], un monaco di origine sassone vissuto a Parigi tra la fine dell’XI secolo e la prima metà del XII secolo. Si tratta forse della sua opera più importante, ma anche di quella meno conosciuta, apparsa agli inizi degli anni ’90.

Secondo Illich, proprio verso l’inizio del XII secolo avvennero importanti cambiamenti nell’arte del leggere e dello scrivere, legati a filo diretto sia allo sguardo che alla tecnologia/libro/stampa che da lì a qualche decennio avrebbero preso piede. «Prima del 1141, data della morte di Ugo di San Vittore, le abitudini orali predominavano fin nell’atto di leggere. Gli occhi erano al servizio dei polmoni, della gola, della lingua e delle labbra, mentre l’orecchio del lettore si sforzava di cogliere ciò che la sua bocca articolava. La lettura silenziosa era ancora praticamente sconosciuta, tanto che era possibile a ciascuno leggere con le orecchie piuttosto che con gli occhi. La discriminazione sociale tra alfabetizzati e analfabeti era assolutamente impensabile. La pagina era letteralmente incarnata attraverso la lettura»[10] .

A partire dal XII secolo, dunque, nell’Occidente medievale e post-medievale si cominciò ad osservare una progressiva disincarnazione della parola. Il fenomeno è osservabile guardando le parole, composte di caratteri alfabetici, che cominciano a distanziarsi l’una dall’altra sui manoscritti, mentre prima erano totalmente legate  una all’altra, e anche la stessa pagina, che comincia ad arricchirsi di note in fondo e a margine e di capoversi, e poi ancora lo stesso libro, che si dispiegherà progressivamente in parti, capitoli, paragrafi ecc. Proprio questo cambiamento, osserva Illich, ha reso possibile la lettura silenziosa, quasi impossibile con parole legate tra loro, ma finirà per diventare una specialità di pochi (i chierici) e coloro che fino ad allora avevano letto con le orecchie (come lo stesso Carlomagno!) saranno tecnologicamente degradati al rango di analfabeti. Questa discriminazione dilagherà nei secoli fino a comprendere il pagano, il contadino, l’eretico, il selvaggio, il sottosviluppato fino ad arrivare al computer illiterate (il contemporaneo analfabeta del computer).

Sarà la tecnologia dell’alfabeto e della scrittura che fornirà lo stampo di coloro che sono o meno al passo con i tempi, ad essere o meno moderni. Conseguenza estrema di questo processo è l’abdicazione post-moderna dalla realtà trasformata in immagine, un vero suicidio etico. Ha scritto Umberto Galimberti: «Le immagini sono più forti delle parole. Stiamo lentamente ritornando analfabeti, l’intelligenza è sempre meno sequenziale»[11]. Ma il senso di questa citazione è opposto da quello che voglio far capire in queste pagine. In ogni caso, l’era della strumentalità o della tecnologia sono impensabili senza questa rivoluzione avvenuta nel testo scritto.

 

1.4 Illich esamina il processo storico della tecnologia narrando la metafora del granchio di Kukenbuch[12]:

 

«Cercando una disciplina storiografica che consenta di recuperare il passato senza mai dimenticare la distanza che lo separa dal presente, Ludolf Kukenbuch ha inventato una parabola. Egli parla di storiografia servendosi della metafora del granchio. Quasi tutti gli animali, quando fuggono da qualcosa, si voltano e guardano nella direzione in cui si muovono. Il granchio invece cammina all’indietro, mentre i suoi occhi sporgenti restano fissi sull’oggetto da cui si allontanano. Lo schermo del computer è la mia immagine del presente. […] Voglio esplorare quello che succede quando comincio ad arretrare tenendo gli occhi fissi sul presente. […] Se, alzandomi dalla mia work station davanti allo schermo, mi fossi voltato indietro […] con lo sguardo rivolto al passato, quasi inevitabilmente avrei continuato a portare quei particolari occhiali che indosso per battere il mio manoscritto in Wordperfect. […] Avrei concentrato la mia attenzione su come pian piano sia giunto a vedere le cose che vedo ora. Arretrando come un granchio, invece, la mia attenzione è rivolta soprattutto a com’era il mio mondo allora. E la disciplina che m’impongo consiste nel ricordare la sorpresa che la dissoluzione o la frantumazione degli elementi di quel mondo mi ha provocato. Cerco di non riesaminare il passato con preveggenza, bensì di conoscere il presente con la retroveggenza di un granchio»[13].

 

Ci sono storici che si soffermano a studiare i fatti e gli avvenimenti del passato per capire proprio il passato; Illich ha preferito studiare i modi di comportamento delle donne e degli uomini del passato per capire il presente, perché il presente sia oggi così com’è e non diversamente, e di conseguenza costruire il futuro. Illich perciò non fugge il presente per rifugiarsi nel passato, perché questo è passato, egli dice, è morto, ma lo analizza e soffre nel presente, quel presente che si riflette inevitabilmente nello specchio del passato. E non si può far nulla per cambiarlo, il presente, come per il passato: la nostra unica speranza di cambiamento e di miglioramento non può che essere rivolta al futuro. È l’unica dimensione temporale che possiamo influenzare, nel bene o nel male.

Anche se è stato ingiustamente ritenuto un nostalgico e uno spirito antiquato, Illich non ha mai proposto un ritorno nel passato, ma una riconsiderazione del passato con una base concettuale ancorata al presente, per ri-orientare il futuro. «Io non avallo il passato, disse in un’intervista nei primi anni ’90, è passato, è finito. Avallo ancor meno il presente. Io lo subisco, io sono dentro»[14]. Il problema sta nel poter tornare a ri-concepire un passaggio graduale con il quale si possa passare dallo strumento tecnologico allo strumento conviviale[15].

 

1.5 Lo strumento è o non è conviviale. Illich non è mai stato contrario alla tecnologia. Il suo pensiero su questo è molto chiaro e sintetico: la tecnologia può essere o non può essere conviviale. Non lo è se domina l’uomo, lo è se è l’uomo a dominarla. Ci sono per esempio tecnologie conviviali in sé, come il telefono. Nessuno può obbligarmi a chiamare qualcuno e parlargli per forza di lavoro o di un film. La scelta dell’atto e dell’argomento, il dominio dello strumento quindi, rimane sotto la mia totale volontà. Purtroppo, anche se la tecnologia aumenta la produttività, allo stesso tempo annienta la produzione umana. Da ciò scaturisce una controproduttività etica, sociale e distopico-dispotica della tecnologia (e della scienza). Il vernacolare, termine altamente complesso e frainteso, potrà risolvere secondo Illich problemi che altre economie (capitalista e pianificatrice) non hanno potuto né potranno mai risolvere.

Illich individua tre azioni pubbliche capaci di far gradualmente transitare senza scosse le società dal paradigma dell’homo oeconomicus a quello dell’homo habilis. Si tratta nei fatti di una scelta politica concreta, che si esprime su tre assi:

 

1.        Asse x – gerarchia sociale/autorità politica/proprietà/mezzi di   produzione/allocazione delle risorse ecc. (destra - sinistra) - homo oeconomicus.

2.        Asse    y      merci/servizi/tecnica/tecnocrazia/scelta ecc. (duro – morbido) -      ancora homo oeconomicus.

3.        Asse      z       soddisfazione umana/ideale sociale (avere – fare) - homo habilis.

 

«La forma della società contemporanea è il prodotto delle scelte attuali lungo questi tre assi indipendenti. E la credibilità di una comunità politica oggi dipende dal grado di partecipazione pubblica in ciascuno dei tre gruppi di opzioni»[16]. Anche se il progetto culturale che va verso l’asse della soddisfazione umana può apparire assai modesto nei confronti della potenza espressa dalle altre due opzioni, come nell’epoca attuale, occorre spingersi per quanto sia possibile «in direzione dell’autosufficienza, producendo da sé quello che [si] è in grado di produrre, scambiando il sovrappiù con i vicini ed evitando nella misura del possibile i prodotti del lavoro salariato»[17].

 

 

 

Breve nota bio-bibliografica

 

Paolo Coluccia, dottore in Pedagogia e ricercatore socio-economico indipendente, anche se non strutturato nel sistema universitario, dal 2003 è membro del Centro Interdipartimentale di Ricerca sull’Utopia istituito presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali dell’Università di Lecce. Saggista e traduttore, ha pubblicato La Banca del tempo (Bollati Boringhieri, Torino 2001), La cultura della reciprocità (Arianna, Casalecchio-BO 2002), Il tempo... non è denaro! (BFS, Pisa 2003), Dalla distopia ipertelica all’etica conviviale: verso nuovi fattori di ricchezza, (nel vol. a cura di C. Quarta, Una nuova etica per l’ambiente, Dedalo, Bari 2006) e ha tradotto il libro/rapporto di Patrich Viveret, Ripensare la ricchezza (TerrediMezzo, Milano 2005). Collaborando con saggi e recensioni, fa parte della redazione della “Rivista di Studi Utopici” di Lecce, promossa dal Centro Interuniversitario di Studi Utopici, ed è saggista e traduttore della rivista elettronica  di scienze umane e sociali “M@gm@” di Catania. Ulteriori notizie sull’autore sono su Internet: http://digilander.libero.it/paolocoluccia.


 

[1] Raccontato da M-D. Perrot, De la démesure ordinaire à la démondialisation nécessaire, in La Ligne d’horizon (a cura di), Défaire le développement, refaire le monde, atti del «Colloque international sur l’après-développement», UNESCO-Parigi, 28 feb., 1-2-3 mar. 2002, L’Aventurine-Parangon, Paris 2003, p. 192. «Riportare il senso della misura è dunque vegliare affinché nessuno venga escluso, né l’uomo, né la natura, né il sacro».

[2] Cfr. Y. Friedman, Utopie realizzabili, tr. it. Macerata 2003.

[3] Cfr. K. Mannhein, Ideologia e Utopia, tr. it. Bologna 1970.

[4] Cfr. E. Bloch, Il Principio Speranza, tr. it. Milano 1994.

[5] Cfr. A. Colombo, L’Utopia. Rifondazione di un’idea e di una storia, Dedalo, Bari 1997.

[6] A. Colombo, La Costruzione della Società di Giustizia. Ricomprendere la storia umana, Testo Programmatico del «Movimento per la Società di Giustizia e per la Speranza». Il Movimento è attivo a Lecce ed è animato da Arrigo Colombo (in http://digilander.libero.it/ColomboUtopia).

[7] M. Heidegger, Il mondo ridotto ad immagine, in Holzwege. Tr. it. di Pietro Chiodi, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1997.

[8] T. Paquot, Préface a I. Illich, Œuvres complètes, vol. II, Fayard, Paris 2004.

[9] I. Illich, In the Vineyard of the Text. A Commentary to Hugh’s Didascalicon, Éditions du Cerf, Paris 1991. Tr. it. A. Serra e D. Barbone, Nella vigna del testo. Per un’etologia della lettura, Raffaello Cortina editore, Milano 1994. Il Didascalicon di Ugo di San Vittore si trova in Migne, Patres latini, 678 D.

[10] J. Robert/V. Borremans, Préface a I. Illich, Œuvres complètes, vol. I, Fayard, Paris 2004.

[11] L’Espresso, 29-03-2007.

[12] Ludolf Kukenbuch, professore tedesco amico di Illich, trascrisse la prima versione in tedesco del commento al Didascalicon che Illich stava elaborando, proprio alla maniera medievale.

[13] I. Illich, In the Mirror of the Past. Lectures and Addresses. Tr. it. di Antonio Airoldi e Augusto Sabbadini, Nello specchio del passato. Le radici storiche dei moderni concetti di pace, economia, sviluppo, linguaggio, salute, educazione, Boroli, Milano 2005; in passato il libro è stato pubblicato anche RED-Studio, Comi, 1992.

[14] David Cayley, Ivan Illich in Conversation (1992). Tr. it. di Stefano Stogl, Conversazione con Ivan Illich, Introduzione di Franco La Cecla, Elèuthera, Milano 1994.

[15] Cfr. I. Illich, La convivialità, Boroli, Milano 2005.

[16] I. Illich, Le tre dimensioni della scelta politica, in Nello specchio del passato, cit., p. 87.

[17] Ibidem.