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L’EPOPEA DI JAMM’ MÒ

 

"Jamm' ", per i sulmonesi, è divenuto un'epopea. Quella rivolta è parte della storia di Sulmona ed alimenta tutta un'aneddotica spesso non direttamente vissuta da chi la favorisce.

È accaduto infatti che un episodio, verosimilmente vissuto da un numero limitato di protagonisti, è stato raccontato all'estensore di queste note, in versioni più o meno simili, da un numero di presunti protagonisti di gran lunga superiore a quello di coloro che avrebbero avuto, in effetti, l'occasione di partecipare all'azione narrata. Un osservatore superficiale o poco attento potrebbe parlare di millanteria. Ma il fenomeno è troppo diffuso e merita un approfondimento maggiore, partendo dalla considerazione secondo la quale quei fatti sono divenuti patrimonio della storia e della cultura sulmonese...

"Jamm' " è espressione dialettale che alcuni cittadini, forniti di un buon bagaglio retorico e pedante, si affrettarono a tradurre, subito dopo Le giornate del 2 e 3 febraio del '57, con l'equivalente in lingua "andiamo adesso", non mancando di avvertire che derivava dal latino 'eamus mox'. La trasposizione del dialetto in italiano, condita e nobilitata, più che da etimi latini, da quel pizzico di latinorum che non guasta mai, sebbene formalmente accettabile, non rende la ricchezza del suo significato nella lingua parlata. "Jamm' " è, infatti, un'incitazione propria del mondo contadino della Vallata Peligna. Viene usata ancora oggi, sebbene con una frequenza minore che nel passato, generalmente come incitazione ad un collettivo, ma può essere rivolta anche ad un singolo individuo, nel compimento di uno sforzo e per dare un ritmo allo stesso se è continuato nel tempo. Per render meglio l'idea, è la traduzione in dialetto sulmonese del classico grido di lavoro "oh issa". Inoltre, il grido "Jamm' " riveste la caratteristica di incitare a produrre il meglio di sé nell'azione che si sta compiendo. Questo aspetto particolare dell'espressione fa sì che essa dal mondo del lavoro sconfini nel sociale, in maniera generalizzata. Può essere rivolta infatti al bambino che sta compiendo i primi passi e si muove incerto o all'uomo che, durante il gioco della classica "passatella", nelle ancora più classiche cantine, deve scolare d'un solo fiato un intero fiasco di vino. Usata nelle giornate del 2 e 3 febbraio, perciò, poteva avere un solo significato: "picchiate il più duro possibile". Era in pratica il grido di guerra della rivolta popolare. Popolare e non borghese.

Infine, tra le molteplici facce del significato di "Jamm' ", è necessario segnalarne un'altra: quella per la quale tale espressione significa incitare alla vittoria chi sta compiendo un"azione di forza e di coraggio. Vale a dire che se "Jamm' " è un'espressione ricollegabile al mondo del lavoro, essa può essere usata anche per esprimere la carica gioiosa e trionfante per il compimento di una fatica fertile, produttrice di risultati positivi. Gridata in questo senso, durante la rivolta popolare, era un grido di vittoria, corrispondente all'"hurrah" internazionale. Che sia anche questo, lo testimonia il fatto che oggi a Sulmona, quando si dice "Jamm' ", gli occhi di chi è stato protagonista della vicenda si accendono, i volti si atteggiano a sorriso e, con la massima soddisfazione, dalle labbra scaturisce, irrefrenabile, un "c'ero anch'io". E di qui al ricordare una sequela interminabile di piccole vittorie negli scontri, isolati o di massa, con le forze dell'ordine, il passo è breve, anzi spesso inesistente.

Di quegli episodi se ne riporta alcuni, oltre queli già inseriti nella ricostruzione delle due giornate, solo per sottolineare, se ce ne fosse ancora bisogno, il clima di epopea nel quale vengono collocati i ricordi della rivolta.

Dalle interviste raccolte risulta come dato unificante della vicenda che i rivoltosi, nel resistere alle forze dell'ordine, si divertirono anche a sbeffeggiarle. In questo senso va infatti una tattica di scontro che utilizzava il cosiddetto "contraggiro" (da notare l'assonanza di questo termine con il classico "raggiro"). In pratica accadeva questo: le pattuglie delle forze dell'ordine venivano "adescate" da un gruppo di rivoltosi nei vicoli del centro storico; raggiunto il labirinto degli ambienti urbani più vecchi di Sulmona, il gruppo dei rivoltosi, utilizzando i doppi ingressi dei palazzi gentilizi, scompariva alla vista dei celerini e dei carabinieri per riapparire alle loro spalle. Gli ingressi su due strade consentivano, "contraggirando" un intero isolato, di cogliere alle spalle i malcapitati tutori dell'ordine che venivano così sonoramente malmenati.

Aveva un sapore di beffa anche il rilancio dei candelotti lacrimogeni. Le forze dell'ordine ne fecero un uso non certo improntato al risparmio, ma i lacrimogeni venivano regolarmente rispediti al mittente che rimaneva spesso sconcertato e "piangente".

Un altro episodio ricordato con allegria è quello relativo alla punizione inflitta ad un ufficiale della celere che con un'autoblindo si produceva in arroganti "caroselli" in piazza XX Settembre nel pomeriggio del 3 febbraio. Si dice, ma (non è stato possibile verificare l'attendibilità della notizia, che l'ufficiale fosse fidanzato con la figlia di un notabile sulmonese, molto in vista all'epoca, e questo fatto costituiva una ragione di maggiore zelo nel compimento del dovere da parte dell'ufficiale. Dall'alto della torretta del suo mezzo, questi ordinava con arroganza alla folla di disperdersi immediatamente. Un mattone in cotto, però, lo colpì in pieno viso interrompendo a mezzo una delle sue invettive alla folla.

Un gruppo di rivoltosi poi assalì l'autoblindo, gettò a terra l'ufficiale e ribaltò l'automezzo...

La beffa venne ricercata non solo in momenti di lotta di massa, ma anche in scontri individuali. Proverbiale è rimasta quella del poliziotto dall'occhio nero. Nel salone di un barbiere sulmonese, nei giorni successivi alla rivolta, entrò, per farsi radere, un poliziotto recante su un occhio una vistosa medicazione che nascondeva a malapena un ematoma, molto più vistoso della medicazione stessa. La curiosità dei "barbitonsori" è universalmente nota ed il figaro sulmonese, pur con tutte le cautele del caso, non seppe trattenersi dal chiedere la ragione di quell'occhio nero. "Meriterei d'aver nero anche l'altro pare sia stata la risposta per come mi sono procurato questo bel ricordo. Stavo accompagnando un ragazzo in caserma, 'quando questo si è messo a gridare, guardando in alto: "attento, attento!"; io, come un cretino, ho guardato in aria e quel figlio di buona donna mi ha dato un pugno nell'occhio ed è fuggito". Di aneddoti di questo genere se ne raccontano a centinaia, ma a parte la loro attendibilità, quelli citati sono sufficienti per chiarire coma la rivolta popolare di Sulmona abbia avuto, anche nei suoi momenti più drammatici, quel carattere beffardo e vittorioso che l'espressione "Jamm' " nella lingua parlata spesso esprime. Bisogna però ricordare che quando i reparti Celere di Roma e di Senigallia e i carabinieri, stanchi di essere tenuti in scacco dalla folla, adottarono mezzi repressivi più duri, e ci scappò il ferito grave, il grido che echeggiò per le strade di Sulmona, non fu quello di "Jamm' ", bensì un altro, che annunciava la presenza in città di 800 doppiette. Di fronte all'uso delle armi da fuoco i sulmonesi in rivolta si ritrassero, minacciando però di rispondere al fuoco con il fuoco.

I fatti di "Jamm' ", in ogni caso, come una vera epopea che si rispetti, ebbero i loro cantori. Fiorì infatti in quel periodo una schiera di verseggiatori, anonimi ed illustri, che sentirono il gusto di celebrare le gesta dei sulmonesi in rivolta. Di Ottaviano Giannangeli è la seguente composizione (1):

NUNC EST EUNDUM (ovverosia Jamm' )

Dal torvo Morrone la fresca mattina

invade la valle. Sulmona supina

appare tra il verde. Nel cielo, più bella

sorridi Maiella.

I bimbi alla scuola van seri, pensosi.

Son forse presaghi di tristi marosi?

Ovidio tentenna la testa: "Per Bacco,

di noia mi fiacco".

Peligni, Peligni, terrore di Roma

chi dunque vi ha posto il giogo, la soma?

Son morti nel cuore gli evviva, i peani

dei tempi lontani?

Corfinio, è sepolto per sempre l'orgoglio?

la guerra continua... lo ha detto Badoglio.

I socii ove sono?.. te li mostrerò:

Vajjù, Jamme !.

Là verso il Quadrivio la gente s'appressa,

si accresce come onda, sobbalza, fa ressa

intorno ad un'auto che avanza, che gira,

che attonita mira.

Sulmona si scuote. Un vento trasvola

di fremiti e d'ire. Davanti a una scuola

si nutre, conflagra la prima scintilla

accesa alla Villa.

- Studente, docente, , dacci una mano!

E tu non mancare, borghese, artigiano,

a questa crociata, a questa rivolta!

non siamo alla svolta?

Il ballo comincia. Un canto di guerra

si leva rombando tra il cielo e la terra.

Il grido è raccolto. Ognuno ascoltò.

Vajjù, JAMME MÒ!

Arrivano gippe, gipponi, soldati,

reparti leggeri, reparti blindati,

galoppa la Celere dai monti, dal mare.

Ragazzi, che fare?

Gli arnesi di guerra?! guardate là sotto...

si prendano i selci del vecchio acquedotto;

togliete gli infissi, le porte e finestre

per armi e balestre!

Coraggio, al nemico sbarrate 'la strada!

Vi chiama a raccolta la vostra contrada!

Quegli alberi a terra! Spandetelo a fiume,

l'ardente bitume.

, forza ragazzi! Ebbene, la storia

non v'ha raccontato di Quel di Portoria,

di quel che il piccolo sasso lanciò?

Vajjù, JAMME MÒ!

O care giornate del nostro riscatto:

lanciaste ai soprusi il grido di sfratto!

Oh vecchia campana peligna risuona!

Avanti Sulmona!

Risuona tra i monti Sirente e Maiella:

che Italia l'ascolti, la lieta novella!

Risuona tra i monti Morrone e Genzana,

peligna campana!

Oh santo vessillo che un giovane al vento

faceva garrire, raccogli il concento:

dei tanti drappelli fa' santa una lega

e al ciel ti spiega!

, , Vittorito, Corfinio, Raiano,

Bugnara, Introdacqua, Pacentro, Cansano!

a Pratola e a Popoli, Sulmona volò

il tuo JAMME MÒ!

 

 

Di autore anonimo (1):

 

LE DU JURNATE DE SULMONE (2-3 febbraio 1957)

 

Lu popule s'arrevote tutte de botte

contre lu Guverne che lu fotte.

Quist'appunte sta annutate a nu librette

co la frase "arrevuleme lu distrette".

Pirciò m'arrevé nmente la battaija

e lu zulfarielle ch'appiccì la paija:

de matina prieste cumenzise la tresche,

come quande acchiappivene i tudesche.

Nu rione intere circundirene

le pratiche de lu distrette carechirene,

po', pe restabbilì l'assette,

ecchete che inviirene lu Prefette!

La stime, l'amore, che gli tributirene!

rinchiuse na iurnata lu tenirine.

A na cert'ore i brave cunsigliere

lu trasferirene ai Carabiniere.

Intante lu popule 'n fermente

piagneve senza botte, senza niente,

ardivene 'nterre sotte sotte

'na decine de robuste cannelotte.

Lu iuorne dope, senza cumplimente,

arrive de la Celere nu reggimente

ed ecch' a na cert'ore

ricumenze la mischie traditore.

Le porte, le fenestre accatastate,

i banche, i cancielle tutte schiuvate

facirene capì ch'ivene arrevate

de Sulmone le due iurnate.

Pe le vie, a mane, a mane

s'aprivene le caruvane;

ogni tante sott'a na cunette

s'abbluccheve na camiunette.

Cuscì la Celere romane de lu caruselle

pe' la matosche! se l'ha viste belle:

impresse remaste chelle che so'

le parole famose: JAMME MO'!

 

Un altro verseggiatore, un sulmonese rimasto anonimo per essersi firmato con la sigla PATI, dette alle stampe, per i tipi della tipografia Labor di Sulmona, un libello intitolato "Il Bidone".

 

2 FEBBRAIO 1957

Il Distretto che han levato

un gran chiasso ha suscitato

e il fermento è aumentato

per il tiro a noi giocato.

Nuovi e vecchi tradimenti

accaldato hanno le menti

ed a questo poi il ministro

ha aggiunto un bel sinistro

quando a Roma bellamente

si è scusato vagamente.

Tutto il danno perpetrato

riferito poi in teatro,

traboccare ha fatto il vaso

per quest'ultimo sopruso.

Poi un dì, ecco t'arriva,

il Prefetto senza evviva.

Or comincia la sventura

del Prefetto testadura,

che beffando infin la gente

al Comun giunge ugualmente

e la folla che ha saputo

grida: "via, perch'è venuto?".

Ma la gente or ha una mira

e vieppiù sogghigna e adira,

e al Comune se ne andrà

in più grande quantità.

Al Prefetto impaurito

grida giungono all'udito.

"Come faccio a uscir di qua?;

chiede al Sindaco, "beh! che si fa?".

Il telefono squillando

allarmato ha il comando:

truppe e carri cingolati

fa arrivar ben lucidati.

Ma non bastano i soldati

né poi l'Arma e i poliziotti

e a frenare tanta gente

non son buon gli sfollagente.

E persino a profusione

lacrimogeni in funzione.

Qui la ciurma anche piangendo

non ripiega e sta godendo

nel tirar sassi alla forza

che si ripiega e si rinforza.

E non bastano le salve

ch'escon fuor dalle mitraglie,

qui s'aggiungon le campane

e le note sembran strane

alla gente che a quell'ora

crede sia la Candelora.

Ma alla forza quei rintocchi

fan piegar pure i ginocchi

e guardandosi negli occhi

dicon: "beh! che semo allocchi?"

...Nel Comune il poveraccio

divenuto è uno straccio,

da dieci ore o press'a poco

è assediato e non è poco.

Per tener la pelle addosso

egli esclama "Che far posso?".

Ma intanto al poveretto

par che il cuor esca dal petto,

per portarlo su di tono

somministran cardiocromo.

Poi a sera, in carro armato,

se la svigna macerato

ed a casa alfin tornato

con il naso un po' filato

ringraziando il buon Gesù

prega e giura: "Non lo faccio più".

 

3 FEBBRAIO 1957

Il bollor pare sedato

ed il sol splende indorato,

mentre, in piazza, di consueto,

or la gente di ogni ceto

si raggruppa e fa commenti

sui misfatti precedenti.

Ma con grande meraviglia

nota, invece, e se ne acciglia

quella celere temuta

e di notte trattenuta

con falò pece e bitume,

da ragazzi cui il barlume

per tardar, ha suggerito, q

uell'arrivo inaudito.

Ma per fare esibizioni

come il circo coi leoni

il tenente ch’è un romano

sollevata ha una mano

e così per fare i belli

fanno pure i caroselli.

Fendon l'aria i manganelli

per colpire donne e monelli

e la folla scompigliata

nei porton si è riparata.

Il tenente ormai sicuro,

che un colpo ha inferto duro,

fa cessar quel carosello

e il piacer lo fa più bello.

Ecco ancora i dimostranti

col cartello andare avanti

dove han scritto, nero e grande,

un invito al comandante:

"a lasciar questo paese

arcistufo delle offese".

Il tenente alla romana

li ammonisce e li richiama:

"state bboni" e in quel momento

un matton riceve al mento.

Qui una tipica espressione

"alla carech" - JAMM' MO"

strana suona e si capisce

alla forza che smarrisce.

Pure Ovidio ognor pensoso

par sorrida ed è gioioso

e incurante strizza l'occhio

a un impavido marmocchio

che additando verso i tetti

rivoltar fa quegl'inetti,

poi burlandoli oiboh!

loro grida: "picchialò! ".

Or per far salva la pelle

più non van per le melle,

già fregati coi portoni

sono stati quei fresconi;

quei portoni a doppio accesso

ch'evitar poi ha permesso

ai ragazzi furbi e lesti

di finir contusi e pesti.

Ricordar io devo infine

quelle provvide sentine

c'han permesso ai dimostranti

d'impedire d'andare avanti

alla Celere infuriata

proprio lì all'Annunziata.

E persin nell'Ospedale

dove audaci, a gran pedale,

implorando per pietà

sono usciti per di là.

Qui la celere ignorando

per corsie girovagando

ritrovata infin la porta

ha subìto, a farla corta,

ciò che sotto i gioghi infami

han provato un dì i Romani.

Or rimar non posso troppo

che ogni tanto esce un intoppo;

per finir questa canzone

or dirò di quel bidone

che a qualcuno è parso strano:

far girar con qualche mano

si potesse il cilindrone

grosso quanto un cisternone.

il rumor sinistro e strano

aumentando a mano a mano

mette in fuga i celerini

bianchi ormai come cerini.

Una ridda fiammeggiante

poi sprigiona il carburante

sparso e acceso sopra il fusto

accentuandone il trambusto.

Or la notte è già discesa

su Sulmona ben difesa;

per la strade è buio pesto

e sapor han di funesto.

E la Celere sfinita

in caserma è riparata;

ma sfiniti, e pare a josa,

vanno a casa i rivoltosi.

Poi la forza per rifarsi

ha pensato d'appostarsi

nei crocicchi e per il corso

dove agguantano pel dorso

tutti quel che passan

per sfogar la curiosità.

Tutto ciò fin qui narrato

spero ben d'aver rimato;

nel timor d'aver errato

chiedo d'esser scusato

per aver di questi eventi

spifferato ai quattro venti.

 

Non solo gli improvvisati verseggiatori locali si interessarono ai fatti di "Jamm' ": anche a livello nazionale si trovò chi ebbe da ridire sui fatti di Sulmona in versi e strofette. Mario Amendola, sceneggiatore di testi per riviste, avanspettacolo e programmi radiofonici produsse il seguente gioiello:

 

PRIMO: E lasciando Venezia dove vogliamo andare?

SECONDO: Ma è ovvio a Sulmona!... È la località di moda (Cantano sull'aria di "'Ramona") Sulmona / che ti succede per favore?/Sulmona/ma perché mai tanto furor?

SECONDO (canta su l'aria de "La sirena del laghetto"): Voglion toglierle il Distretto/come fu come non fu, /e Sulmona questo/proprio non lo vuole mandar giù. /Ma lasciatele il Distretto/grande industria in verità / (per i grandi capitali che ci spendono i soldà) /. (Viene avanti un rigido funzionario del Ministero della Guerra che canta sul motivo "Ma l'amore no")

FUNZIONARIO: Ma il distretto no/lasciarlo non si può/ormai così ha deciso il Ministero.

I TRE TIPI (si inginocchiano davanti al funzionario congiungono le mani e cantano sull'aria di "Munasterio e Santa Chiara"): Ministero della Guerra/cambia quest'idea bizzarra/Non le togliere il Distretto,/usa almeno un po' di tatto/non la fare disperar.

FUNZIONARIO (batte il piede per terra facendo scaturire una vampata di zolfo infuocato dal terreno, poi continua, cantando sempre sul motivo di "Ma l'amore no"): Ma il Distretto no/il Distretto non si può/Ormai così ha deciso il Ministero/e a Sulmona che vuol dimostrar si suonerà... (Tutti e quattro si prendono per mano e fanno il girotondo cantando sul motivo del "Valzer di pover gente"): Il valzer dello sfollagente/che sfascia le teste/così come niente./Mentre lei dice: il Distretto occorre,/ecco la Celere accorre!/Lei prima t'abbotta la testa/poi senza pensarci t'acchiappa e t'arresta/poi dirà "Ha ragione ci scommetto, dobbiamo ridarle il Distretto!". (La rivista finisce; a conclusione, quattro belle ragazze abruzzesi, in costume caratteristico ci cantano il coretto di chiusura).

CORO DI CHIUSURA: Qui finisce la rivista/che con animo innocente/prende in giro certa gente/che di parlare fa.

 

Le operette "immortali" rintracciate e qui riportate, nonostante siano il frutto di spiriti provinciali o tutt'al più goliardici, testimoniano ancora una volta come la rivolta di Sulmona abbia avuto tutte le caratteristiche racchiuse nella espressione dialettale "Jamm' "; ma ne esiste un'ultima anonima, che per le sue caratteristiche, linguistiche, letterarie e per la struttura complessiva sembra scaturisce direttamente dalla cultura popolare, senza alcuna intermediazione; la diamo qui di seguito:

 

LE TRE IURNATE DE SULMONE

Stu Guverne, dorma dorme,

passe uogge pe' demane,

sole nghe le bomb'ammane

lu putemme resbià!

 

Pe' piarce mo' pe fesse,

ce facirene la promesse

c'a Sulmone lu Destrette

nun l'avriene cchiù levate.

Ma se l'hanne po' purtate,

ste fetiente sbrevugnate!

 

A sta bella futteture

che ce porte tante danne,

la pacienza da tant'anne

s'è perdute adderetture!.

 

E de sere e de matine

senza tante meravije

s'hanne viste i sulmuntine

pe' tre juorne senza brije!

T'hanne fatte la battajje

nghe la stupefa sberraje

ca la cucce ha aula

dentre e fore a sta cettà.

 

I celerine strafettente

mo se l'hanna recurdà

chesta bella lezzione

recevute da Sulmone.

 

La miserie 'de la vite

mo' l'avessa fa pentì,

stu guverne tante cane

c'a lu puoste de le pane

te fa da' manganellate

a lu povere affamate!.

 

La trascrizione dialettale di questa composizione si avvicina molto alla lingua parlata, così come risultano tipicamente popolari sia le invettive che le espressioni figurate. Anche il verso, l'ottonario, è quello più comunemente usato nelle composizioni popolari. In ogni caso, tutte le composizioni concorrono alla celebrazione delle gesta del popolo sulmonese in rivolta. Si trattò di una vera epopea, con tanto di epica, scritta e orale.

 

Note:

(1)

La composizione dal titolo "LE DU IURNATE DE SULMONE (2-3- febbraio 1957), pubblicata nell’edizione originale alle pagg. 107-108, è di autore anonimo e non opera di Ottaviano Giannangeli, come erroneamente scritto a p. 105. 

 

CAPITOLO 5

JAMM' MÒ

CAPITOLO 7