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La rivoluzione industriale

capitolo 8: capitale, banche e capitalisti
di Guido Marenco
«La ricchezza, in qualsiasi modo sia acquisita, in Inghilterra fa
di meccanici dei Lord, gentiluomini dei masnadieri
non occorrono antiche origini e nascita
l'impudenza ed il denaro fanno il pari
Il fato ha posto una assai lieve differenza
tra il banco del contabile e la corona nobiliare»
(da The True-Born Englishman di Daniel Defoe - 1701
Accumulazione sporca ed arricchimento pulito: "tutto fa brodo"
Il punto da indagare è l'accumulazione del capitale mercantile, per lo meno per la parte che non si costituì in modo illecito, o moralmente riprovevole, attraverso la rapina delle risorse dei paesi d'oltremare, la pirateria ed il commercio di schiavi. Quantificare la componente torbida dell'accumulazione non è possibile; pensare che fosse rilevante è comunque giustificato, data la quantità di informazioni storiche di cui siamo in possesso. Certamente era molto integrato con l'intero sistema. Lo stesso capitano che trasportava schiavi, trasportava anche cotone tornando in Inghilterra.
C'è da capire che non tutto quello che oggi consideriamo torbido fosse a quel tempo anche illegale. Lo era solo in parte, lo era solo in determinati posti. La schiavitù risultava moralmente riprovevole in Inghilterra, ma poiché occhio non vede-cuore non duole, essa era perfettamente tollerata e perfino approvata nelle colonie americane e centroamericane. Il contrabbando non era tollerato, anzi era molto osteggiato, ma finché vennero applicati dazi esagerati sulle importazioni conobbe momenti davvero floridi. Quando la lana veniva a mancare, non era difficile sbarcarne grandi quantità provenienti dalla Spagna. Il tè, che era ormai diventato bevanda di larghissimo consumo popolare, veniva regolarmente contrabbandato dall'Olanda. I contrabbandieri inglesi erano inoltre molto bravi ad aggirare le barriere doganali degli altri paesi. E' facile immaginare che molto di quello che venne esportato non seguì vie normali. Adam Smith ne disse peste e corna, sottolineando che i margini di fallimento erano talmente ampi da sconsigliare un'attività del genere. Ma il contrabbando prosperò ugualmente.
Abbiamo già cercato di dimostrare, inoltre, che nell'accumulazione di capitale "tutto fa brodo" e che le somme guadagnate nel modo più discutibile entravano in circolo anche quando capitavano in mano ad individui o gruppi che a tutto pensavano salvo che investirle in attività produttive.
Adam Smith fu perentorio, come vedremo, nel distinguere tra impieghi produttivi e impieghi improduttivi della ricchezza, ma non tenne sufficientemente in conto che il denaro non sparisce mai nel nulla; si limita a passare di mano in mano e , prima o poi, capita in quella giusta . Smith commise un piccolo errore, in sostanza, nel dare un giudizio assoluto. La sua valutazione era infatti più che valida da un punto di vista soggettivo: chi ha soldi fa male a sperperarli. Ma la società nel suo insieme può trarne, a volte, un vantaggio ugualmente. Del resto, dal lato opposto proprio questa era stata la tesi di De Mandeville: senza la corruzione dei singoli che cercano insane comodità ed inseguono vizi e dissipatezze, non c'è progresso economico. Un'altra estremizzazione a senso unico, d'accordo, ma con tanto di verità incorporata.
Ciò detto, ha grande importanza trovare il filo delle vie "oneste" dell'accumulazione perché è persino ovvio che esse costituirono la parte più rilevante dell'intero processo.
Conta molto, secondo gli storici dell'economia più accreditati l'aumento della quota del reddito nazionale destinata al risparmio, che è la forma primitiva dell'accumulazione. Un paese sottosviluppato, per W.A. Lewis, risparmia circa il 6%. Mentre un paese sviluppato risparmia il 12%. «Rostow ha posto come condizione del "decollo" verso lo sviluppo autosufficiente il passaggio della quota nazionale di investimenti da circa il 5% del reddito nazionale a circa il 10%. Se esistessero delle statistiche sul reddito nazionale nel periodo della rivoluzione industriale saremmo in grado di dire quando avvenne per questo paese la variazione della quota di investimenti. Sfortunatamente queste statistiche non esistono.» (Deane, cit)
Gregory King fece due conti, alla fine del '700, e calcolò molto approssimativamente che veniva investito circa il 5% del reddito prodotto. Alla metà dell''800 il tasso annuo era del 10%. Siamo dunque ad una variazione significativa, ma si tratta di percentuali di valori sostanzialmente ignoti, anche perché mancano notizie preciso su come lo stesso reddito era distribuito. In generale si pensa che se i salari sono troppo alti, si opera una dispersione tale della ricchezza da limitare il risparmio e quindi l'investimento. Ma questo è vero solo in parte, giacché l'aumento dei consumi porta comunque ad accellerare la circolazione del capitale D-M-D (denaro-merce-denaro) che si ricostituisce quindi prontamente, rendendosi disponibile all'investimento. Inevitabilmente, il problema è più circoscritto:qual'era la quota di reddito dei più facoltosi che veniva destinata all'investimento? E su cosa si investiva? Cercherò di rispondere a queste domande. Ma prima occorre evidenziare attraverso quali processi si passò da un'economia di sussistenza, sostanzialmente stagnante, ad un fase di sviluppo molto graduale.

Braudel e la dinamica del primo capitalismo
Il modello storico d'interpretazione più plausibile è quello presentato da Ferdinand Braudel, il quale evidenzia la differenza tra una semplice economia di mercato, la quale è l'elementare dimensione dello scambio tra diversi produttori in un'economia che abbia come base la vita materiale e quotidiana della gente in ogni angolo del mondo, e il capitalismo vero e proprio, che è una dimensione più evoluta e raffinata che supera la realtà della fiera e del mercato, per inaugurare un modo completamente diverso di reperire le merci e poi venderle. Il mercante capitalista non aspetta le offerte, ne va in cerca attivamente; non va in fiera per comperare o scambiare, ma per vendere, o perfino per sospendere la vendita se non la trova conveniente.
Su questo piano, Braudel ha evidenziato il ruolo del mercante itinerante che punta direttamente alla fonte della produzione. Egli compra il grano prima ancora che sia seminato e la lana prima ancora che nasca la pecora. E poi, innanzitutto, trasporta, a volte superando grandi distanze e tutte le rigidità e le limitazioni dei mercati locali e regionali. Accaparra ed immagazzina tonnellate di merci non deperibili, firma cambiali, sottrae grandi quantità di prodotti al libero gioco della contrattazione. In tempi di carestia o relativa scarsità, può rivendere le merci al prezzo da lui stesso dettato. In generale è molto abile a trasformare anche i periodi di abbondanza in tempi di apparente scarsità. Braudel evidenzia come in tutte le lingue esista una differenza lessicale tra il negoziante al dettaglio con la sua botteguccia od il suo tendone eretto in fiera, ed il grossista davvero grosso, quello che attrezza carovane, carica le chiatte che scendono pigramente i fiumi ed arma velieri capaci di arrivare in India per fare incetta di té o di pepe. In Germania si parla di Krämer e Kaufmann, in Inghilterra di tradesman e merchant, in Italia di mercante al taglio e di negoziante. Ma questa distinzione non è un'esclusiva dell'Occidente. Anche in arabo e nelle lingue storiche dell'India troviamo qualcosa di simile: «Nel territorio islamico il Tayir, fin dall'apparizione dei primi mercanti occidentali, è un esportatore importatore che dirige dalla sua casa agenti e commissionari...» (Braudel, cit)
In altre parole, il capitalismo commerciale non fu qualcosa di specificamente occidentale, come lo sarà poi il capitalismo industriale. Salvo che in Cina, dove a quanto pare la speculazione mercantile era vietata anche nell'età imperiale (i cinesi che volevano mercanteggiare dovevano espatriare), il capitalismo mercantile permeava nel profondo tutte le società più evolute. E fu a questo livello del denaro e del potere che si formarono capitali, i quali si riprodussero, si allargarono, si accumularono.
Che fosse questa la dinamica originaria del capitalismo non pare discutibile, come non sembra discutibile che si trattasse di un fenomeno globale da moltissimo tempo.
Il salto di qualità fu rappresentato, in Inghilterra ma non solo, dalla capacità di alcuni grossi mercanti di arruolare nel loro esercito i produttori tessili che lavoravano a domicilio e costruirsi quindi molte fonti a portata di mano. Il sistema industriale nasceva decentrato, perché così era più conveniente. Si ricomporrà nella fabbrica moderna quando le tecnologie imporranno la concentrazione della produzione. Ma non saranno gli stessi mercanti-imprenditori a guidare la trasformazione. Non avevano la mentalità per il salto. Moltissimi di questi signori della sterlina d'argento e della ghinea d'oro avrebbero preferito che tutto andasse alla vecchia maniera. Mantoux è lapidario sotto questo profilo: gli industriali di vocazione furono una specie che poteva nascere sotto un cavolo, non in famiglie che avevano già tantissimi soldi, ma semplicemente da una crisi di identità e da una volontà di rivalsa fondata, s'intende, sul piccolo ma non disprezzabile patrimonio di famiglia.

Origine contadina degli industriali, scorrettezze a iosa, selezione della specie
Studiando la genealogia di alcune stirpi di grandi imprenditori, Mantoux dimostra che i più importanti, sia nel settore tessile che in quello del ferro e dell'acciaio avevano padri o antenati della yeomanry, i liberi proprietari saldamente legati alla terra, ma con dei telai impiantati in casa o con la ferriera nelle vicinanze, nella quale arrotondavano nei periodi di ferma dei lavori agricoli. Quando, pressati dalle circostanze, dovettero scegliere, scelsero l'industria invece dell'agricoltura. Tutti i grandi nomi dell'industria britannica, i Wilkinson, i Boulton, i Peel avevano origine contadina e non mercantile. La scoperta può sconcertare perché sembrerebbe avvalorare la tesi di fondo degli amici del capitalismo selvaggio: chiunque ce la può fare a diventare Paperone partendo da un cent trovato per terra.
Naturalmente, non è così. Avevano tutti qualcosa da parte. Vendendo la terra, realizzarono anche qualcos'altro. Nessuno era povero o proletario in senso stretto tranne Radcliffe e Kennedy, i nomi scovati da Mantoux in un'indagine che suppongo certosina su campioni di centinaia di nomi.
Alcuni trovarono per terra non il classico cent, bensì l'illecito uso di macchine brevettate senza il pagamento del copyright. Nessun inventore, tranne James Watt, fece fortuna, ma nessuno come loro fu così imitato. Nel periodo della massima fioritura delle macchine a vapore, una su due era taroccata. Giudici ed avvocati ebbero molto da lavorare. Giustizia fu fatta solo qualche volta. Premiato non fu l'ingegno ma la furbizia e le perseveranza nella scorrettezza.
Se questa fu la tendenza di fondo, non mancarono le eccezioni, ma proprio in quanto eccezioni non furono mai regola. Si sa, ad esempio, che Robert Owen, uno dei primi socialisti utopisti, cominciò a fare l'imprenditore partendo con un prestito di suo fratello pari a 100 sterline. Era un piccolo capitale, ma pur sempre parte di un capitale familiare più grande. La storia personale di Richard Arkwright l'abbiamo già vista. Da barbiere a magnate del cotone; la sua fortuna fu quella di trovare sempre al momento giusto l'interesse e la simpatia di qualche amico facoltoso che ebbe fiducia in lui.
Ma la storia vera e taciuta di tentativi analoghi parla di fallimenti ed incarcerazioni per debiti, non di successi. La selezione darwiniana della specie fu impietosa.
Ciò detto, si capisce che quando si sostiene che in Inghilterra la rivoluzione industriale fu trainata da piccole imprese a carattere domestico ed artigianale, si sostiene una mezza verità ideologica ed una mezza falsità storica.
E' vero che disponendo di un piccolo gruzzolo, non era impossibile impiantare un'azienda artigianale organizzata su base domestica. Ma questo non rendeva automaticamente capitalisti ed imprenditori autonomi. Tutt'altro che autonomi. L'artigiano su basi domestiche dipendeva in modo quasi assoluto dalle anticipazioni del grossista, il quale poteva pagare le merci perché disponeva di contanti, oppure poteva pagare in natura, o ancor meglio, con dei buoni d'acquisto spendibili nell'emporio di sua stessa proprietà. Se rimaneva un resto, ti mettevano nel sacco due caramelle ed un lecca-lecca. Ed era questa la sostanza del rapporto.
Distinguere tra impresa artigiana subalterna, anche di una certa dimensione - quello che noi oggi chiameremmo indotto - e industria vera e propria diventa fondamentale per comprendere la dinamica dello sviluppo, il quale non è la semplice somma di tante piccole imprese a carattere familiare.
E' ancora Mantoux a fornire la chiave giusta di lettura per comprendere che cosa accadde realmente. I primi veri capitalisti industriali non si limitarono a produrre per i mercanti, divennero mercanti essi stessi. Cominciarono a produrre non più su ordinazione del grossista, ma per il mercato in generale. Divennero in qualche decennio più danarosi degli stessi grossisti. E fu questo a fare la selezione. Parole chiave: talento organizzativo nel disciplinare il lavoro e fiuto affaristico. Tale rovesciamento nei rapporti di forza tra commercio e produzione ha del prodigioso, inutile nasconderlo. Non tutti i passagi sono chiari; se non si pone mente al fatto che la produzione diventava offerta in modo molto più rapido e che l'offerta stessa sollecitava domanda crescente quando i prodotti risultavano soddisfacenti e, una volta assunta l'abitudine, si facevano indispensabili. Poi bisogna guardare al saggio di profitto. La dimensione produttiva su vasta scala fu indubbiamente più vantaggiosa di quella commerciale, che rimase pur sempre una mediazione. Una volta rotto il monopolio della mediazione, la concorrenza tra mercanti contribuì ad abbassare ulteriormente le cosiddette ricariche. Sarebbero occorsi dei supermarket per rialzare le sorti del commercio, ma l'idea non era ancora matura ed attuabile.

Qualche problema l'ebbero anche i capitalisti
Un'idea dei non pochi problemi che dovettero affrontare i primi industriali la si può avere guardando alcuni dati offerti dalla Deane. Tra il 1790 ed il 1815 una jenny costava non più di 5 sterline, un filatoio intermittente ne costava 30, mentre una piccola macchina azionata a vapore ne costava 50. Ma una potente macchina a vapore in grado di far funzionare una miniera od un reparto di uno stabilimento siderurgico veniva pagata con somme da 500 a 800 sterline. Sono cifre che mostrano il costante deprezzamento dei macchinari ormai obsoleti, come la gloriosa jenny, a vantaggio di cifre elevatissime per l'attrezzatura necessaria ad una piccola industria. Inoltre, nel conto dovevano per forza rientrare i costi per i fabbricati. Tutta la produzione tessile precedente era domestica o semidomestica. Le manifatture più grandi non erano qualcosa di diverso da una casa d'abitazione con annessa una stalla occupata da filatoi meccanici.
Ma quando si passò alla propulsione idraulica, fu necessario costruire capannoni vicino al corso dei fiumi. E quando si passò all'energia termica, bisognò costruire fabbricati. Tutto questo richiedeva capitali sempre più grandi ed occorrevano anche banche in grado di anticipare le spese più consistenti, scontare cambiali e promesse di pagamento. La nascita di un sistema del credito insieme alla disponibilità di moneta e banconote di piccolo taglio fu quindi una necessità del processo di industrializzazione, ma essa fu soddisfatta con ritardo e, come vedremo, in modo piuttosto selvaggio ed avventuroso.
Osseva Ashton: «Il costo del magazzinaggio del prodotto finito, pronto per la consegna e l'intervallo fra la vendita e l'incasso costituivano però un onere gravoso. Anche qui la regola erano lunghi crediti: per tutto il secolo decimottavo occorrevano sei o dodici mesi e talvolta anche un paio d'anni o più perché il fabbricante incassasse il corrispettivo della sua merce.» (Ashton, cit)
Nacque l'uso di praticare sconti per il pagamento in contanti ed a breve. E naturalmente si cominciò a caricare di interessi i pagamenti a lungo termine. Ma questa non fu una buona soluzione perché gli interessi dell'8-10% annui incidevano sui prezzi in maniera spropositata e diminuivano anche i margini di profitto.
Erano espedienti che non risolvevano i problemi fondamentali: sostanzialmente due, ovvero la scarsità di moneta e banconote di piccolo taglio circolanti e l'impossibilità da parte di un piccolo imprenditore di avviare e mantenere un'attività con poco denaro a disposizione.
Ashton racconta episodi che la dicono lunga sull'arte di arrangiarsi dei primi capitalisti industriali: «La scarsità di monete di piccolo taglio fu un problema serio per i manifatturieri che avevano da pagare salari: molti di essi passavano giornate a girare da un paese all'altro in cerca di scellini; qualcuno faceva economie adottando dall'antico regime industriale l'uso della "paga differita"; e, quantomeno, un filandiere dei primi del secolo decimonono risolveva il problema scaglionando il pagamento; la mattina di buonora pagava un terzo degli operai e li mandava a fare i loro acquisti: nel giro di un'ora o due il denaro, passando per le mani dei bottegai, ritornava alla fabbrica, dove serviva a pagare un secondo scaglione di operai...» (Ashton, cit.)
C'era chi pagava in natura, oppure emettendo dei tickets spendibili negli empori che li accettavano. E ci fu anche chi, come il magnate dell'acciaio John Wilkinson si mise a battere moneta in proprio. Essa era smerciabile esclusivamente nella zona in cui Wilkinson era nome rispettato ed onorato, ovvio. Ma, a quanto sembra, il nome non era sconosciuto perfino sulla piazza di Londra.

Come spendere un capitale
Una volta realizzato il gruzzolo, secondo Adam Smith, il capitale poteva prendere diverse strade. Una era radicalmente sbagliata e la storia diede ragione a Smith. Vivere nell'agiatezza, circondarsi di domestici e servitori improduttivi portava ad una lenta (e qualche volta veloce) dissipazione. La distinzione smithiana tra lavoro improduttivo e produttivo può apparire grezza e poco soddisfacente oggidì, in un'epoca nella quale anche un cantante od un'attrice sono produttivi di ricchezza, spesso come nessun altro, ma a quel tempo la distinzione era utile e persino giustificata, soprattutto dal punto di vista di chi aveva i soldi, perché la comodità, il divertimento e gli svaghi erano sostenuti più che altro da attività di tipo mecenatistico a fondo perduto.
Smith asseriva, a ragion veduta, che la spesa improduttiva aveva un respiro corto. Pagare salari a domestici e laute prebende agli artisti non portava che a soddisfare bisogni immediati, ma era un lavorare contro il futuro e contro gli investimenti produttivi di nuovi commerci e nuova ricchezza. Scrivendo le sue osservazioni solo all'inizio del processo di industrializzazzione, e morendo poi nel 1790, egli non ebbe modo di vedere il sorpasso dell'industria meccanizzata sull'agricoltura. Continuò a pensare che l'investimento di capitali nella terra e nella stessa agricoltura fosse l'impiego più vantaggioso per l'intera società. Ed erano ancora in molti a credere nella medesima convinzione a cavallo del nuovo secolo ed anche nei primi decenni. Ciò, forse, ritardò un poco lo spostamento dei capitali, ma non l'ostacolò. Di fatto agricoltura ed industria erano già complementari, ed almeno nel settore delle macchine agricole, grazie alle quali si realizzò un notevole incremento della produzione della terra, il connubio era molto stretto.
Qui interessa, tuttavia, evidenziare come mercanti ed aristocratici inglesi fossero in generale più parsimoniosi degli aristocratici francesi, italiani o spagnoli. Ma non furono mai taccagni i fino al punto di nascondere i tesori accumulati sottoterra. Investivano, e si può dire, in generale, che seppero investire bene,
Questo può spiegare uno dei motivi basilari per il quale la rivoluzione industriale partì in Inghilterra e non altrove: la ricchezza disponibile veniva dissipata in modo molto meno scandaloso ed appariscente. Come giustamente aveva osservato Daniel Defoe, in ogni aristocratico c'era una vena mercantile e realistica, ed in ogni mercante c'era una vena operosa ed imprenditoriale. Possiamo aggiungere che questa rivoluzione economica impedì la rivoluzione politica che invece si rese necessaria in Francia, dove una classe di parassiti totali sperperava il denaro pubblico e privato per una festa ininterrotta che cominciava il 1 gennaio e terminava il 31 dicembre.

In conclusione, è facile comprendere che la concentrazione di enormi quantità di ricchezza in mani mai troppo grandi per contenerle non fu che in piccola parte il risultato di un lavoro onesto e di "un'astinenza capace di differire continuamente il piacere", come scriverà più tardi l'economista Senior. Questo ragionamento poteva valere per il piccolo manifacturer, l'artigiano che si allargava gradualmente e faticosamente, ma non aveva alcun senso quando si ragionava di grandi numeri. Già chi aveva dieci dipendenti cui pagare un salario di 10 scellini la settimana si sarebbe trovato in grande difficoltà in mancanza di vendite con pagamento in contanti od a breve termine. Senza contare il costo delle materie prime e le tasse, maledette tasse, che dal 1643 gravavano sui consumi, cioè sulle merci prodotte anziché sulla cosiddetta capitazione, cioè sul reddito presunto. Era tassata la terra, ma il capitale non fu mai tassato.
La corsa all'investimento nella manifattura fu quindi determinata dalla promessa di grandi guadagni che a poco a poco si fece strada. All'inizio non fu generalizzata, procedette a scatti ed a spasmi di crisi, conobbe momenti negativi insieme a boom improvvisi. Fu possibile perché la ricchezza accorreva a fiumi da ogni angolo del mondo e quindi l'Inghilterra disponeva di risorse senza pari, anche se inegualmente distribuite.
Tutto ciò era stato possibile in quanto si erano felicemente congiunte due strategie: quella economica mercantilista e quella politica della prepotenza e della sopraffazione. Ma ora, propria la crisi della prima costringeva ad una revisione, mentre la prosecuzione della seconda imponeva aumenti delle spese militari in chiaro contrasto con la dottrina mercantilista di spendere il meno possibile e non indebitarsi mai.

La crisi della dottrina mercantilista
Differentemente da molti economisti allevati con omogeneizzati e mangime, io nutro un sano rispetto per il mercantilismo. Senza una simile dottrina nessuno, né nazioni, né singoli, è mai arrivato a liberarsi dal bisogno e dall'indigenza. Il mercantilismo è una dottrina meschina, persino bieca, a volte ottusa, ma sta alla base di una qualsiasi accumulazione di ricchezza. Se gli inglesi non l'avessero pragmaticamente applicata, non avrebbero mai raggiunto i traguardi di cui si parla qui.
Questa dottrina aveva avuto i suoi mentori in economisti quali Joshua Child, Gerald Malynes e Thomas Mun, mercantidel Seicento. Essa aveva sostenuto per lungo tempo che era meglio vendere che comperare, e che bisognava vendere all'estero per accumulare un tesoro in patria. Lo scopo del mercantilista è l'accumalazione di oro, o del suo equivalente, il denaro.
Di mettersi in casa opere d'arte e anticaglie se ne frega, a meno che non pensi di venderle ad un prezzo migliore. Gli basta quel poco, ben mangiare e bere moderatamente roba buona. Al più una pipata di tabacco. L'importante è che il forziere sia pingue.
Secondo le denunce di Umberto Eco nel suo romanzo Nel Nome della rosa, i primi mercantilisti furono gli italiani, veri specialisti nel dare scarso valore ed utilità alle merci vendute dagli altri e molto abili nel dare grande valore alle proprie.
Ma ad approfitare di questo comportamento pragmatico degli italiani furono gli economisti inglesi e quindi gli inglesi stessi, i quali impararono ad accumulare capitale come nessun altro al mondo.

Adam Smith dedica moltissime pagine ai "premi", cioè agli incentivi elargiti dal governo a particolari settori produttivi destinati all'esportazione, come il grano. E tra le altre cose, racconta della pesca delle aringhe, il loro finire in barili sottosale e la vendita del prodotto conservato all'estero, evidenziando l'inutilità e persino il danno dell'incentivo statale. I produttori di barili di aringhe infatti, come peraltro gli esportatori di grano, incassavano gli incentivi, ma non abbassavano i prezzi delle merci dirette all'estero, tanto si vendevano ugualmente. grazie al surplus di guadagni ebbero la malaugurata idea di costituire una società ed imbarcarsi in speculazioni. Finirono K.O. , ma ci finirono a spese del contribuente inglese medio e Smith ironizzò su questa incapacità speculativa degli armatori dei pescherecci che suscitò pubblico scandalo.
Ora non è che l'aringa sotto sale sia stato di per sé un elemento decisivo della crescita economica inglese, ma certo fu un protagonista della crisi e della fine della dottrina mercantilista.
Tale dottrina aveva fatto strada ed aveva avuto una sua funzione storica, accompagnando e guidando l'accumulazione di tesori pubblici e privati. Era riuscita persino ad imporsi come strategia di politica economica, teorizzando gli incentivi governativi agli esportatori. Ma ora, esaurito il suo compito, non solo cominciava a scricchiolare, tanto da precipitare nell'ignominia con lo scandalo delle aringhe, ma diventava addirittura un serio ostacolo allo sviluppo manifatturiero. Infatti, la mentalità mercantilista imponeva dazi pesanti sulle importazioni di prodotti grezzi quali la seta ed il cotone da lavorare. E c'era ancora chi non capiva che era indispensabile togliere di mezzo queste tasse tanto quanto abolire gli incentivi.
Bisognava, in sostanza, cambiare politica economica. Furono le pressioni dei possessori di capitale a spingere in questa direzione. Ma fu un processo lento. Anche perché il fronte dei mercanti e degli imprenditori era spaccato: il partito degli allevatori di pecore e dei manifacturers della lana, si opponeva alla detassazione del cotone; quello dei cotonieri la voleva. E che senso aveva tassare il ferro importato dal Baltico e dalla Russia quando questo stesso ferro era indispensabile all'esercito ed all'industria?
Alla fine prevalsero i libero-scambisti, com'era nella logica delle cose, ma tra alti e bassi e diverse contraddizioni. Da un punto di vista governativo rimaneva decisivo il considerare che se si aboliva una tassa, occorreva inventarsene un'altra per non perdere del tutto un'entrata. Solo nel 1824-25, con Huskisson primo ministro, si trovò la possibilità di ridurre significativamente i dazi. Erano state le guerre contro Napoleone il principale ostacolo alla riforma.

Un altro elemento della dottrina Smith: la terra è l'investimento più conveniente per la società
Prima della grande rincorsa alla miniera d'oro rappresentata dalla fabbrica meccanizzata, comunque si giri attorno alla questione, esistevano capitalisti che investivano le loro risorse in vario modo, ma non nell'industria, tantomeno in quella di piccole dimensioni, ovviamente salvo eccezioni. Probabilmente ci fu qualche collezionista di piccole imprese decotte, e qualche mercante su vasta scala prese a scommettere, oltre che sulla lavorazione domestica, anche sulle manifatture meccanizzate. Ma il grosso dei patrimoni era ancora costituito dal possesso della terra anche nella fase cruciale della trasformazione..
Da Phyllis Deane veniamo a sapere che il reverendo Henry Beeke fece un calcolo approssimativo, intorno al 1798, degli impieghi di capitale a livello nazionale, stimando che il 55% di esso era impiegato nella terra; «una valutazione di Patrick Colquhun nel 1812 o pressappoco, indica una percentuale molto vicina, il 54%; e negli anni '30 Pebrer calcolò che nel 1832-33 ancora una volta circa il 54% del capitale nazionale consisteva nel valore della terra.» (Deane, cit.)
Questi dati confermano che il pensiero di Adam Smith aveva fatto scuola; non erano ancora percentuali da paese industriale, anche se poi bisogna guardare agli altri impieghi, e si scoprirebbero particolari interessanti. Buona parte del denaro era investito nel possesso di edifici e fabbricati. Un'altra parte cospicua andava nell'agricoltura vera e propria, utilizzando terra presa in affitto. Un'altra parte ancora era investita nelle grandi compagnie del commercio internazionale come quella delle Indie orientali.

Ritardi nel diritto societario
Un certo ritardo negli investimenti industriali era determinato dal fatto che la responsabilità limitata (al capitale versato) era vista con sospetto, anche se una legge del 1662 limitava le responsabilità giuridiche per debiti degli azionisti di alcune grandi compagnie commerciali. E forse, proprio per questo era vista con sospetto. Secondo un buon senso comune, il capitale era ancora una responsabilità totale e chi si impegnava in qualche affare doveva sempre rispondere in solido, con tutti i suoi averi.
«In qualche misura - scrive la Deane - l'imperfezione del mercato del capitale era un problema istituzionale. Finchè il Joint Stock Company Act del 1856 non legalizzò la responsabilità limitata, la società per azioni era una forma di organizzazione poco diffusa. La costituzione di una società per azioni richiedeva un'autorizzazione del Parlamento e, salvo in settori in cui il fabbisogno di capitali era particolarmente elevato e la natura dell'iniziativa di tipo non speculativo, - canali, bacini, acquedotti, porti, strade, assicurazioni e più tardi gas e ferrovie - era raro che gli imprenditori sostenessero fatiche e spese per assicurarsi una legge del Parlamento.» (Deane,cit)
Di fatto si potevano fare affari manovrando solo denaro in unico campo: quello dei prestiti. Il credito privato, "tra amici" e persone fidate ebbe un certo peso per lungo tempo in assenza di un vero e proprio credito bancario diffuso su tutto il territorio. I primi capitani d'industria (non più che caporali o sergenti, per la verità) non andavano dal direttore d'una banca a chiedere aiuto. Firmavano cambiali al droghiere ed al mastro birraio. Soprattuto si rivolgevano a chi aveva il controllo di grandi somme, cioè i capitalisti commerciali.
Solo con l'avvento delle ferrovie emergerà un quadro completamente diverso. Saranno gli investimenti ferroviari a trainare per un lungo tratto tutta l'economia inglese, insieme alla cantieristica navale centrata sulla costruzione non più di velieri, ma di navi a vapore, anche se nella marina militare ci furono grandi resistenze da parte degli ammiragli. Il vascello a vapore imponeva infatti una riduzione del numero dei cannoni posti sulla fiancata e questa appariva una debolezza.
Ma prima di arrivare a parlare del boom, è interessante parlare di banche, di come nacquero e di quale ruolo svolsero.

Banca d'Inghilterra e banche di paese
La storia del sistema bancario inglese è singolare per diversi motivi. La Banca d'Inghilterra nacque nel 1694 non perchè c'era bisogno di un luogo in cui depositare i risparmi, bensì per fornire credito allo stato, il quale pagava interessi troppo alti, dal 12 al 20% ai ricchi mercanti della Compagnia delle Indie Orientali. Il governo aveva bisogno di denaro che non aveva per attuare una politica che di fatto era indirizzata a favorire gli interessi dei mercanti stessi che gli prestavano soldi. Un bel circolo vizioso che sarebbe da indagare più a fondo, perchè non si capisce la ragione di un tasso così alto. Ma una nota di C. Hill può bastare: «Le banche erano state viste con sospetto dai governi di Carlo II e Giacomo II. "Dove c'è una banca, - Harrington aveva detto -, dieci a uno che c'è la repubblica.» (Hill, cit.)
Non aveva tutti i torti, il nostro, ad associare così strettamente banca e regime politico in quanto i paesi più commerciali e quindi finanziariamente consistenti erano state le libere repubbliche marinare italiane, Firenze, i Paesi Bassi. Ma che la banca in quanto istituto fosse più che adatta a sostenere anche una monarchia pareva ai pù un principio ultra sensato.
E banca fu: nacque con un capitale versato dai soci fondatori, mercanti ed aristocratici (pochi), di un milione e duecentomila sterline, ovvero oltre la metà della spesa annua dello stato inglese in tempo di pace. Una cifra esorbitante, se ci pensate, e tutta di origine privata. In quale altra nazione al mondo sarebbe stata possibile un'operazione del genere? «La Banca d'Inghilterra prestava denaro al governo all'8%; fu autorizzata a stampare banconote che circolavano come denaro. Il pagamento sull'interesse sul debito pubblico, garantito dal Parlamento, richiese una tassazione pesante, che vide il trasferimento della ricchezza dei più poveri e dei proprietari terrieri nelle mani della classe finanziaria. Il debito nazionale costituisce l'unico possesso collettivo della maggior parte dei popoli moderni: più ricchi sono, più sono indebitati.» (Hill, cit.)
A parte la finezza dell'aforisma che tanto s'attaglia alla situazione attuale degli Stati Uniti, ed anche dell'Italia, c'è da aggiungere che l'interesse dell'Inghilterra in quel periodo era quello di impedire l'espansionismo francese in Europa, soprattutto in direzione dei Paesi Bassi, ed in generale nel mondo. La spesa ordinaria dello stato in tempo di pace era di circa due milioni di sterline l'anno; la guerra permanente o quasi con corpi di spedizione disseminati qua è la (ad esempio le campagne di Malborough in Europa) sarebbe venuta a costare centocinquanta milioni di sterline. Secondo stime di Paul Langford (in Kenneth O. Morgan, cit) «... parte non lieve delle somme, circa un terzo, furono frutto di prestiti, e importi di quell'entità potevano essere reperiti solo su un mercato del denaro fiorente e duttile com'era appunto quello creato dalle condizioni economiche del tardo Seicento. [...] I finanzieri, alla cui iniziativa si dovette la fondazione della Banca d'Inghilterra, a rigor di termine non avevano fatto nulla di nuovo; da quando si intraprendevano guerre, i governi erano stati costretti a dipendere da prestiti della comunità economica; nuova era l'infrastruttura politica resa indispensabile dal ricorso particolarmente ampio nel periodo, ai prestiti. Il credito di cui godeva il nuovo regime, basato com'era su una garanzia parlamentare, sarebbe stato assai scarso senza il sottinteso che le garanti ultime erano le classi abbienti. E d'altra parte, senza la disponibilità del regime a collaborare strettamente con le classi in questione e i loro rappresentanti, l'intesa non avrebbe potuto sussistere. Il debito pubblico, e tutto ciò che esso comportava, si basò su codesta essenziale convergenza di interessi tra una dinastia illegittima, il mondo finanziario ed i contribuenti.»
Tutto sta a vedere se i contribuenti fossero davvero d'accordo. Difficile stabilirlo. Possiamo solo supporre che allora come ora, ci fosse un partito della guerra assolutamente convinto della necessità di difendere "interessi vitali" in Europa e nel mondo..
Comunque sia, la Banca d'Inghilterra nacque come banca di Londra e come riserva governativa. Solo secondariamente svolse un ruolo di servizio all'economia reale.
Restia ad aprire filiali nel resto del paese, essa si limitava a raccogliere i depositi più consistenti ed avallare "lettere di cambio", ovvero tratte trasferibili spiccate da creditore su debitore con scadenze che andavano dai tre ai sei mesi, o persino un anno. Essendoci, come s'è visto carenza di moneta circolante, questo era il sistema di pagamento più diffuso. Nasceva l'economia di carta, ma non era carta qualsiasi.

«Per quel che risulta - scrive Ashton - la prima casa bancaria di provincia fu quella fondata nel 1716 da James Wood, un commerciante in seterie e drapperie di Bristol; ma fu solo dopo il 1760 che la banche private di questo tipo si diffusero dappertutto. Le loro origini furono diverse. Vaughan di Gloucester aveva cominciato facendo l'orefice, Gurney di Norwich fabbricava pettinato e Smith di Nottingham era un ex-negoziante di seterie. Nelle zone agricole dell'Inghilterra era spesso il locale commerciante di cereali che si trasformava gradualmente in banchiere; e nel Galles vari commercianti di bestiame crearono a Llandovery un istituto chiamato Banca del Bue Nero e un altro ad Aberysrwyth chiamato Banca della Pecora nera (nomi, che, beninteso non avevano alcun senso dispregiativo nei confronti dei proprietari, ma derivavano dal fatto che i loro biglietti da una sterlina recavano l'immagine di una pecora nera e quelle da dieci sterline il disegno di un agnello nero). Con lo sviluppo della manifattura, molti industriali - tra cui Arkwright, Wilkinson, Walker e la ditta di Boulton e Watt - fondarono banche proprie, in parte, senza dubbio, per poter disporre di contanti per i salari e di cambiali per le rimesse, ma anche per creare uno sbocco al loro capitale in aumento. Fu da fonti industriali che nacquero i Lloyd, i Barclay e altri famosi istituti bancari.» (Ashton, cit.)

Ci fu dunque uno sviluppo del sistema bancario, ma esso avvenne secondo meccanismi spietatamente selettivi. Attorno al 1790 esistevano circa 400 banche private, quelle che erano sopravvissute all'ondata di fallimenti. Molti istituti nacquero e morirono nel giro di pochissimo tempo perché soffocati dalla mancanza di moneta (un fatto cronico) e riserve auree a garanzia dei biglietti e delle tratte emesse. Tutto filava liscio quando la Banca d'Inghilterra era disposta ad anticipare, ma tutto andava storto quando il governo svuotava le casse della banca centrale per pagare le spese di guerra. Le banche locali dipendevano quindi in modo esagerato da due fattori: l'andamento dell'economia locale e il sostegno della Banca d'Inghilterra.
«Alcuni banchieri - documenta Ashton - usavano i depositi dei clienti per i propri scopi commerciali e speculativi; altri tardavano a capire quella che è stata definita la prima lezione di tecnica bancaria - come distinguere una tratta da un'ipoteca - e quando, come spesso accadeva, c'era un'improvvisa richiesta di contante si trovavano con le attività bloccate in prestiti a lungo termine. » (Ashton, cit.)

Quando un banchiere falliva, trascinava con sé nel gorgo industriali e commercianti insieme a tutti i possessori dei suoi biglietti di banca.
Sarebbe stato necessario fin dall'inizio spingere le banche private a strutturarsi in società per azioni, ma questo non avvenne nel corso del Settecento; è difficile dire se per miopia ed irresponsabilià dei governi o per cause interne agli stessi improvvisati finanzieri., i quali non vedevano di buon occhio il controllo di altri azionisti e soci sulle loro attività speculative. C'è solo da rilevare che una legge specifica impediva comunque la costituzione di società bancarie per azioni con più di sei soci. Che era come proibirle.
Eppure, nonostante queste disavventure che procurarano brividi e scossoni, veri e propri salassi, il sistema riuscì a crescere, come testimonia la Deane: «Gli effetti secondari delle transazioni finanziarie della Banca d'Inghilterra a vantaggio del governo si sostanziavano nei nuovo strumenti finanziari che erano venuti così creandosi. A fronte dei suoi prestiti al governo il settore privato riceveva dei titoli di carta che andavano dai buoni a breve termine quali gli "Exchequer" e i "Navy Bills" sino ai "Consols" (debito irredimibile a lungo termine): e poichè i titoli cartacei rilasciati da un debitore degno di fiducia sono facilmente collocabili e commerciabili, si ebbe l'ulteriore effetto di lubrificare maggiormente i canali che legavano i prestiti agli investimenti, creando un cospicuo stock di titoli negoziabili che i risparmiatori potevano comprare ogni qualvolta i detentori dei titoli desideravano realizzare. Allo stesso tempo la Banca d'Inghilterra ( e le altre banche cresciute intorno) attraeva regolari depositi che potevano essere usati come base per un'ulteriore estensione del credito al settore privato.» (Deane, cit)
E' da notare che sui cosiddetti "Consols" affluirono consistenti investimenti anche dall'estero, in particolare dalla borghesia commerciale olandese. Solo durante il periodo della guerra d'indipendenza americana vi fu una flessione dovuta al fatto che olandesi e non solo parteggiavano per gli americani.

Ashton sostiene che la funzione principale del credito fino agli inizi dell'Ottocento fu quella di raccogliere depositi nelle zone agricole trasferirli nelle aree industriali per sostenere lo sviluppo manifatturiero con i prestiti. E' la storia più plausibile. In qualche modo funzionò, visto che abbiamo notizia di prestiti storicamente rilevanti: il duca di Bridgewater ottenne 25.000 sterline dalla Child & Co. per finanziare la costruzione del celebrato canale navigabile; Arkwright ricevette senz'altro un'aiuto dalla Wright Bank di Nottingham e Boulton (in società con James Watt) ottenne un prestito di 14.000 sterline dalla Lowe, Vere & Co. di Londra mentre era impegnato nella costruzione di macchine in Cornovaglia. «Probabilmente - scrive Ashton - i banchieri parteciparono più allo sviluppo che alla costituzione delle imprese, e i titoli in loro possesso dovevano essere ipoteche e obbligazioni più che azioni implicanti una partecipazione ai rischi industriali. » (Ashton, cit.)

Capitalisti buoni e cattivi, imprenditori all'avanguardia e mezze calzette
Venticinque anni dopo aver biasimato tempora atque mores in nome del sangue e della casta, Daniel Defoe scriveva: «In Inghilterra il commercio non è, né deve essere abbassato al livello del commercio delle altre nazioni; e i commercianti non devono essere disprezzati come sono all'estero... [...] Dire gentiluomo un commerciante non è un'assurdità.»
No, non lo era, ma non perché il mercante inglese fosse naturalmente galantuomo, giudizio assai discutibile, ma perché il nobiluomo inglese era tendenzialmente bucaniere ed avventuriero, mercante istintivo anche quando formalmente disprezzava la moneta e la rincorsa alla ricchezza sfrenata in nome d'Aristotele e dell'anticrematistica.
Lo era da molto tempo, almeno da quando il bistrattato (letterariamente) principe Giovanni senza terra aveva concesso la prima costituzione, mercanteggiando con spirito pragmatico il ruolo della monarchia e la struttura dello stato con i baroni. Né idealista, né eroe romantico. Quando primogenito, continuava la tradizione di famiglia, imbrattandola a volte con qualche speculazione affaristica non del tutto consona al rango ed al blasone; quando figlio minore o bastardo d'una cameriera, diventava ufficiale di marina, avvocato e medico, o persino mercante, preferendo il rischio e la libertà alla carriera ecclesiastica.
Con sé recava una consolazione che era anche una certezza etica: d'accordo, si nasce nobili, ma poi bisogna dimostrare di esserlo davvero. Ed è nobile solo chi sa trattare la plebaglia non usando la sferza, ma usando ragione e carota, quando occorre, ungendo le ruote della dinamica produttiva con pagamenti fuori cassa..
Nel sangue blu inglese scorreva una vena di umanità e conoscenza psicologica dell'umana venialità che altre aristocrazie, da quella tedesca a quella francese, per non dire di russi ed italiani, ignoravano del tutto o quasi. Sicché si può anche capire come nel sangue marcio dei parvenu potesse trovarsi qualche traccia di nobiltà più facilmente che altrove. Era come esistesse un dosaggio automatico delle virtù e dei vizi. Ci sono tempi e luoghi nei quali le qualità ed i difetti sembrano concentrati in una sola classe sociale. Ed altri in cui si distribuiscono più fluidamente. L'Inghilterra fu uno di questi posti ed il Settecento fu uno di questi tempi.
Aristocratici dal volto umano divennero mercanti, e mercanti senza scrupoli divennero facilmente aristocratici. Regime plutocratico fu l'Inghilterra preindustriale, ancor di più durante la trasformazione; basta la parola per capire che il potere logora solo chi non ha soldi e chi non li fa rendere.
La mistura diede luogo ad una nuova generazione "bastarda", e fu questa la generazione dei capitani d'industria.
Tra questi, secondo il linguaggio attualmente in voga tra i nostri managers, vi erano autentici figli di puttana, probabilmente la maggioranza. Ma la storia non va avanti, semmai produce ribelli e rivoluzioni se si esagera nello sfruttamento, e il senso del termine qui impiegato ha una valenza positiva: figlio di puttana è individuo particolarmente astuto, rotto a tutte le perfidie utilitaristiche, capace di ottenere sangue e denaro anche dalle rape, uomo che sa trattare gli uomini sfruttando al meglio le loro capacità, sapendo poi riconoscere loro qualche briciola. Probabilmente Richard Arkwright fu uno di questi. Come generale (talento organizzativo e spregiudicatezza nell'usare gli uomini) ricorda più Patton che il Duca di Wellington. Personalmente lo trovo ripugnante, ma chiunque abbia più a cuore il successo a tutti i costi che la tranquillità di coscienza, potrebbe scovarvi elementi educativi.
Leggendo le brevi biografie dei grandi capitalisti che coronano l'opera di Paul Mantoux non si sfugge ad un'impressione, persino aulica, di uomini buoni e positivi, concreti ed umani, educati ad un grande senso estetico (vedi le ceramiche di Wedgwood od i bronzi di Boulton) ed ad una nuova, plastica, classicità industriale.
Non v'è dubbio che con Wedgwood si sia di fronte ad un carattere raffinato, più nobile e snob di quello d'un pari d'Inghilterra. Aveva scritto: «Un oggetto di uso comune, se di qualità inferiore è sempre più caro del migliore del suo genere; ma un oggetto puramente ornamentale, se volgare e di cattivo gusto, non è soltanto caro a qualsiasi prezzo lo si venda, ma raggiunge il colmo dell'inutile e del ridicolo.» (Mantoux, cit.)

Matthew Boulton risultò sotto diversi aspetti un uomo notevole, molto interessato ai problemi tecnici del progresso industriale ed è in questa chiave che se ne potrebbero tessere gli elogi. Fu stimato dai sovrani di mezza Europa, venne visitato da Caterina di Russia e riconosciuto insuperabile maestro di vita ed attività economica dal re Giorgio III e dalla sua cortese consorte. Da incoronare come cavaliere del lavoro, specie quello degli altri. Nel suo salotto convenivano intellettuali e scienziati, la crema dell'intellighentsia britannica.
Era molto stimato anche dai suoi operai. Un giorno li convinse a costituire un fondo d'assistenza trattenendo sulle paghe da ½ penny a 4 pence alla settimana. E fu buona cosa.
Rimane che anche nelle sue fabbriche si lavorava 12 ore al giorno, come del resto in quelle di Arkwright, contro le 14 - 15 della concorrenza. Due benedette ore da dedicare al riposo ed al ristoro che quasi pareggiano le otto ore attuali, visto che quattro ore al giorno un pendolare se le mangia come ridere.
Boulton fu anche molto attivo per promuovere l'associazionismo tra gli imprenditori e diffondere una coscienza delle responsabilità sociali e politiche del capitalista. Di fatto seminò per fare della borghesia una classe di governo.

Nel prossimo capitolo vedremo come lo stato intervenne nei processi economici e come, soprattutto i capitalisti intervennero nelle faccende dello stato.

(continua)

bibliografia utilizzata:
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Ferdinand Braudel - La dinamica del capitalismo - Il Mulino 1981
Eric Roll - Storia del pensiero economico - Boringhieri 1954
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Lionel Robbins - La misura del mondo - Ponte alle Grazie 2001
Carlo M. Cipolla - Uomini, tecniche, economie - Feltrinelli 1966
William Ashworth - Breve storia dell'economia mondiale/ Dal 1850 ad oggi - Laterza 1976
Cristopher Hill - La formazione della potenza inglese Dal 1530 al 1780 - Einaudi - Torino 1977
Pierre Mantoux - La rivoluzione industriale - Editori Riuniti
David Landes - Prometeo liberato - Einaudi -Torino, 1973 (or. The unbound Prometeus, 1969)
T.S. Ashton - La rivoluzione industriale 1760-1830 - Laterza - Bari, 1953
Rodolfo Morandi - Storia della grande industria in Italia - Einaudi, 1959
Stefano Jacini - I risultati dell'inchiesta agraria (1884) - Einaudi, 1976
Valerio Castronovo - La rivoluzione industriale - Sansoni - Firenze, 1988
Valerio Castronovo - L'industria italiana dall'Ottocento ad oggi - Mondadori, 1980
Phyllis Deane - La prima rivoluzione industriale - Il Mulino - Bologna, 1977
Sydney Pollard - La conquista pacifica / L'industrializzazione in Europa dal 1760 al 1970 - Il Mulino - Bologna, 1984
Karl Polanyi - La grande trasformazione - Einaudi - Torino, 1974 (ed or. New York, 1944)
Eric R. Wolf - L'Europa e i popoli senza storia - Il Mulino -Bologna, 1990
George Rudé - L'Europa del Settecento / Storia e cultura - Laterza, 1974
Alexander Koirè - Dal mondo del pressapoco all'universo della precisione - Einaudi, Torino 1967
Adriano Prosperi e Paolo Viola - Storia moderna e contemporanea - vol. II - Dalla Rivoluzione inglese alla Rivoluzione francese - Einaudi - Torino, 2000
Paolo Rossi/AA VV - Storia della scienza moderna e contemporanea - UTET 1988
Anonimo - Considerations upon East-India Trade, 1701- ristampato nel 1856 nell'antologia A select Collection of Early English Tracts on Commerce, pubblicata a cura di J.R. Mac Culloch)

Guido Marenco - su questi files esiste il copyright - possono essere riprodotti solo su permesso dell'autore