Le psicoterapie
Per psicoterapia si intende una terapia volta
a curare il disturbo psichico.
Darley & C. la definiscono come «
un insieme di procedure che tentano di migliorare
lo stato psicologico interno di un individuo.
»
La parola chiave è cambiamento.
« Il cambiamento può essere cognitivo,
emotivo o riflettersi nel comportamento,
la terapia può cioè cambiare il modo in cui
una persona pensa, sente o si comporta, o
tutti e tre insieme. »
Anche per Brian F. Shaw, Zindel V. Segal
(Introduction to cognitive theory and therapy - in Rewiew of Psychiatry - American Psychiatry Press, Washington
1988, vol VII) scrivono:« Lo scopo
principale del terapeuta non è stabilire
i principi del comportamento ma piuttosto
stabilire principi per le modificazioni comportamentali»,
e ancora: « La terapia cognitiva presume
di rapportarsi empiricamente e produrre cambiamenti
nelle convinzioni. »
In genere, come rilevano giustamente Darley
& C., se non c'è accordo sulle cause
del malessere, diventa difficile trovare
un accordo sulle terapie, le quali hanno
un senso scientifico nella misura in cui
cercano di combattere ed eliminare le cause
delle anomalie.
Esistono due gruppi di terapie, quelle propriamente
psicoterapeutiche centrate sulla comunicazione
e lo scambio verbale tra paziente e terapeuta,
e quelle farmacologiche. Purtroppo, come
vedremo, ne sono esistite anche altre e vengono
i brividi solo a ricostruirle mentalmente.
Tra queste, quella dell'elettroshock è certamente
la meno inquietante.
Chi scrive non è aprioristicamente contro
i farmaci. Si limita ad osservare che essi
hanno controindicazioni, tutti, e che in
secondo luogo non portano a far emergere
all'attenzione del conscio i problemi dell'inconscio.
Pertanto un farmaco si limita a calmare,
ma se non si sfrutta la calma "artificiosa"
raggiunta per avviare una attenta esplorazione
dell'inconscio, i problemi rimangono, e potrebbero
riesplodere da un momento all'altro.
Scrivono ancora Darley & C. : «
Recentemente sono emerse altre tecniche.
Un terapeuta che usa i principi della teoria
dell'apprendimento può cercare di far agire
dei meccanismi che rinforzino o puniscano
selettivamente certi comportamenti del cliente.
Un altro terapeuta può far recitare al cliente
vecchie scene di conflitti accadute nella
sua vita, o fargli prendere realisticamente
un ruolo che metta in azione delle abilità
sociali nuove sul modello di altre persone.
Recentemente, poi, molti terapeuti sono diventati
molto eclettici, basandosi su molti tipi
di teorie circa le origini dei problemi di
un paziente, e usando poi un insieme eterogeneo
di tecniche terapeutiche per trattare questi
problemi.»
Lo scenario è confortante perchè l'idea che
accanto a ortodossi seguaci di qualche scuola
si affermino terapeuti "eclettici",
significa che sono caduti pregiudizi e chiusure.
Naturalmente non tutte le scuole hanno una
loro intrinseca validità. Chi scrive ha sempre
ripudiato il comportamentismo e la già richiamata
teoria dell'apprendimento per il semplice
fatto che essa, con il suo fondatore John
Broadus Watson, ha sempre negato l'esistenza
di una coscienza ed ha sempre solo parlato
di comportamenti appresi.
Ma se lo scopo di ogni vera terapia è il
conseguimento di un più ampio e profondo
stato di coscienza, diventa evidente che
si deve riconoscere che uno dei mali possibili,
se non la stessa causa del male, sia proprio
questa: ovvero che siamo tutti vittime, in
un certo senso, di comportamenti appresi
"sbagliati"; in altre parole, siamo
stati condizionati in un ambiente che ci
ha "rinforzato" nelle nostre peggiori
convinzioni.
Di fronte a ciò, allo stesso dato di fatto
che esiste una coscienza, e che questi comportamenti
ci ripugnano, ovviamente la cura non sta
nel ricondizionamento, ma nel trovare da
noi stessi i comportamenti corretti e giusti,
quelli che ci mettono in pace con la nostra
coscienza.
Rispetto all'eclettismo ed al proliferare
di tante diverse teorie, si dovrebbe osservare
che in genere ci si trova di fronte ad una
ricchezza e che proprio il conflitto tra
teorie (se moderato e contenuto) costituisce
l'essenza di questa ricchezza.
Ogni teoria consente un approccio diverso
al problema ed in terapeuti di buon senso
porta a scegliere quale sia il metodo più
adatto ad ogni singolo caso.
Poichè questo è un sito dedicato ai cento
anni della psicoanalisi e che esiste già
un file intitolato Cos'è la psiconalisi, che ha il difetto di essere un po' lungo,
saltiamo a piè pari la teoria psicoanalitica
della terapia e affrontiamo subito l'odiato
nemico:-)))
La terapia secondo il modello dell'apprendimento
Scrivono Darley & C. : «Il modello
dell'apprendimento considera il comportamento
anormale come un complesso di azioni apprese
dall'individuo, o delle brutte abitudini,
se preferite. Perciò secondo questo modello
la psicoterapia si deve prefiggere l'estinzione
dei comportamenti che portano al disadattamento
e l'apprendimento di altri più appropriati.
L'estinzione e l'apprendimento seguono i
principi del condizionamento classico, del
condizionamento operante e del modeling,...
La terapia - scrivono ancora - Darley &
C. - è centrata sugli stessi problemi di
comportamento, non c'è alcun tentativo di
tracciarne le origini durante l'infanzia
dell'individuo. »
Questo atteggiamento che nega sostanzialmente
valore alla necessità di conoscere la storia
del paziente fa subito incazzare. Ma il problema
è che sotto un profilo pratico i teorici
dell'apprendimento hanno persino un po' di
ragione (Dio solo sa quanto mi costi questa
affermazione!).
Infatti se il problema del paziente è quello
di superare la sensazione di sentirsi indifeso,
il terapeuta chiederà: "in cosa ti senti
incapace? Ad essere puntuale? A portare a
termine gli incarichi? A interagire con altre
persone? E quali sono i problemi? Se li hai
con la giustizia, cercati un buon avvocato.
Se li hai con l'ingiustizia, è perchè hai
sbagliato comportamento. Non sei vincente,
ma perdente. Non c'è alcun imperativo categorico
di tipo morale; se vuoi, devi..., quindi
ci sono solo imperativi ipotetici, i quali
ti dicono come ti devi comportare, se vuoi.
La terapia mette dunque a fuoco il "cosa
vuoi" su un piano immediato e il paziente,
di fronte a tanta praticità, si sente davvero
un po' coglione. Già, ma perchè mi faccio
tanti problemi? In fondo si tratta solo di
stabilire cosa voglio.
E voglio quello che vogliono tutti, cioè
successo, carriera, gloria, onore, denaro,
efficienza, immagine.
Questo tipo di approccio riporta subito al
fatto cruciale. Per adesso voglio solo liberarmi
dall'angoscia.
Che fare? Il comportamentista ha subito la
risposta pronta: ti devi rilassare.
Questo metodo viene definito come desensibilizzazione sistematica.
Di che si tratta? Sostituire alla risposta
indesiderata una risposta competitiva con
essa. Le risposte di tipo ansioso si possono
estinguere associando gradualmente tutte
le situazioni o stimoli che producono ansietà
con una risposta di rilassamento.
Ma per prima cosa bisogna apprendere il rilassamento.
Quindi ecco che le prime sedute saranno dedicate
ad apprendere tecniche di rilassamento. In
un secondo tempo apprenderemo a come rilassarci
anche di fronte a situazioni ansiogene.
In questo punto entra un minimo di contributo
da parte nostra, come pazienti. Infatti dovremo
contribuire a costruire una gerarchia che
delinei con chiarezza cosa ci rende ansiosi
da un massimo ad un minimo.
Fatto questo, ecco che subentra l'esercizio
ricondizionante, ovvero: prima ci si rilassa,
poi si affrontano le situazioni ansiogene,
le quali possono essere o vissute, o immaginate.
The best sarebbe che l'individuo si sottoponesse
davvero alle "prove". Dunque se
ci mette in ansia trovarci a guardare l'acqua
grigiastra e vorticosa di un fiume dall'alto
di un ponte, dovremmo andare su quel ponte
a guardare quel fiume completamente rilassati
e vedere che succede.
La teoria dell'apprendimento consiglia di
partire dal minimo ed affrontare tutte le
prove in ordine di difficoltà. Se la cosa
che ci mette più in ansia è parlare con una
donna che ci piace ed invitarla ad uscire,
è evidente che prima di essere pronti a questa
prova, dovremo superare tutte le altre.
Ovviamente perchè la desensibilizzazione
sistematica funzioni, sarà necessario che
gli individui mettano a fuoco ciò di cui
hanno veramente timore.
Questo implica un ricorso alla memoria, se
non alla vera e propria coscienza, ma tant'è.
Inutile dire che questo metodo ha avuto successo,
forse molto più successo, della psicoanalisi,
nella lotta alle fobie. Il merito sta nel
fatto che si affrontano le situazioni direttamente,
senza alcuna indulgenza con scavi negli abissi
psichici che non portano spesso da nessuna
parte.
I terapeuti che usano questo approccio tengono
a sottolineare che, senza rilassamento, affrontare
le prove sia dannoso, per l'ovvio motivo
che le probabilità di un rinforzo positivo
saranno molto più scarse.
Il bello della faccenda è che un altro gruppo
di comportamentisti, quelli della teoria implosiva, sostengono il contrario.
La teoria implosiva
Scrivono Darley & C. : «In questo
tipo di terapia comportamentista le persone
sono istruite ad affrontare direttamente
un comportamento non desiderato cercando
di immaginare sè stessi per lunghi periodi
di tempo nelle situazioni che producono le
ansie peggiori. Per esempio si può dire ad
una persona con la paura dell'altezza di
immaginare di stare su una stretta sporgenza
sulla cima di un grattacielo o di attraversare
le cascate del Niagara su una corda tesa
in mezzo ad un forte vento. Invece che diminuire
l'ansia, il terapeuta cerca di aumentarla
aggiungendo dettagli spaventosi alla scena
immaginata.»
A prescindere dal fatto che alcuni pazienti
potrebbero essere stesi da un infarto, occorre
osservare che, secondo i teorici dell'implosione,
la desensibilizzazione sistematica ha qualche
efficacia solo perchè incoraggia l'esposizione
alle situazioni temute, e non perchè insegna
il rilassamento o l'abitudine ad affrontare
direttamente le nostre paure.
Il controcondizionamento aversivo
Questa tecnica terapeutica è indirizzata
a combattere in particolare il tabagismo,
l'alcoolismo e perfino la tossico-dipendenza
vera e propria. L'attrazione per il fumo,
il vino (ahinoi!!!) o persino il cibo, le
stesse droghe, potrebbe venire estinta associando
agli stimoli reazioni negative come la nausea
o l'ansietà. L'essere messi in ridicolo verbalmente,
la nausea prodotta da farmaci o persino gli
shock elettrici potrebbero indurci a rinunciare
per evitare le conseguenze indesiderate.
Scrivono Darley & c: « Per esempio,
ad una persona che ha una cronica tendenza
a mangiar troppo si offre ripetutamente un
cibo preferito, e poi gli si da un leggero
shock elettrico a ciascun morso. In termini
di condizionamento, lo stimolo desiderato,
il cibo, è lo stimolo condizionato; esso
viene associato ad uno stimolo non desiderato,
lo shock, che è lo stimolo non condizionato.
Come è noto, dopo una serie di esperienze
di questo genere il cibo da solo scatena
quelle reazioni di paura e repulsione che
nascono in risposta allo shock ed alla nausea.
Quando il cibo sollecita paura ( o nausea
o qualsiasi risposta negativa) perde la sua
desiderabilità, non tenta più. E' però importante
sostituire il mangiar troppo con una risposta
più desiderabile che soddisfi o sfoghi la
tensione, altrimenti le probabilità di ricadute
di questo tipo di trattamento sono molto
alte. »
Inutile osservare che questo tipo di terapia
provoca in molti casi rimedi che sono peggiori
dei mali. Potrebbe infatti accadere che in
alcuni soggetti con un livello minimo di
coscienza l'avversione alla torta di cioccolata
si estenda anche a pane e formaggio, provocando
stati ansiogeni alla semplice vista di ogni
sorta di cibo.
Terapie del condizionamento operante
Secondo B.F. Skinner in particolare, si possono
incentivare comportamenti desiderabili compensandoli.
Il programma token economy prevede che ogni comportamento positivo
sia rinforzato fornendo gettoni che possano
in seguito essere scambiati con speciali
vantaggi. Ogni gettone rinforza i comportamenti.
«Questo programma - scrivono Darley
& C. - è stato usato in casi come i disordini
schizofrenici e i ritardi e i disaddatamenti
scolastici.»
Ovviamente il terapeuta controlla la scelta
degli specifici comportamenti da rinforzare
e in cambio di una buona condotta, misurabile
con il numero di gettoni accumulati, concede
di andare al cinema oppure di partecipare
ad un pranzo luculliano.
Il buon gusto ci evita di pensare ad altri
"specialissimi" vantaggi.
Indubbiamente questo genere di approccio
ha incontrato qualche successo, ma il problema
che si pone immediatamente è che il paziente
o il ragazzo "ritardato", una volta
usciti dalla clinica o dall'istituto, si
trovano in un mondo che non da gettoni, ma
ceffoni e calci in culo.
Non è da quindi da escludere che l'individuo
cada in confusione, vedendo che non solo
i buoni comportamenti non sono gettonati,
ma che semmai siano rinforzati quelli cattivi.
Lovaas ha lavorato con un programma simile
sui bambini autistici, ottendo netti miglioramenti.
Ma appena questi tornavano a casa, i problemi
riesplodevano, rendendo necessario un nuovo
ricovero.
A nessuno può sfuggire, pertanto, che il
condizionamento operante, peraltro già usato
spontaneamente da moltissimi genitori su
ragazzi normali (ti regalo una moto se fai
il bravo a scuola) rincitrullistica, invece
di portare ad incrementare i livelli di consapevolezza.
Questo non significa che non si devono regalare
moto, ma semmai significa che tra le tante
cose che i ragazzi devono imparare, il valore
dei soldi (quello che costa mettere insieme
un gruzzolo) è tra le più importanti. Un
motorino non può essere considerato un premio,
ma un obiettivo da raggiungere mediante lavoro
e risparmio.
Il modeling
In questo approccio ha molta importanza l'osservazione.
Il paziente che ha paura ad avvicinare animali,
ad esempio i famosi cavalli del piccolo Hans,
viene messo in condizione di osservare un
tizio, il modello, che invece ha un'estrema
confidenza con questi animali.
Questa esperienza potrebbe cambiare le convinzioni
del paziente.
Il tipo di approccio viene definito come
apprendimento sociale in quanto l'esperienza
non è diretta, ma mediata dall'osservazione
tranquilla e distaccata.
Secondo molti studiosi il modelling è efficace
nel superare le paure nevrotiche perchè da
all'individuo la possibilità di vedere qualcunaltro
sottostare ed affrontare la situazione ansiosa.
Modelli biologici di terapia
Per ricorrere ad una terapia centrata sull'approccio
biologico occorre che vi sia una diagnosi
in grado di stabilire che il disurbo psichico
è dovuto ad una lesione d'organo, oppure
a problemi di tipo neurologico, o ancora
a malformazione di origine genetica ed ereditaria.
Ad esempio: il caso della fenilchetonuria,
malattia trasmessa geneticamente che consiste
nella mancanza di un enzima (la fenilalanina
idrossilasi) atto a trasformare la fenilalanina
in paratirosina.
Questa grave mancanza genetica è stata considerato
come responsabile di molti disturbi come
l'iperattività, impulsività, difficoltà nel
comunicare e conseguente interruzione dell'apprendimento.
In questo caso, come in altri, la terapia
deve intervenire sui processi fisiologici.
Tra i modelli "biologici" di terapia
Darley & C. ne riportano tre: chemioterapia,
elettroshock e neurochirurgia.
Chemioterapia
I farmaci usati in terapia si possono classificare
in tre grandi gruppi: ansiolitici, antidepressivi
e antipsicotici.
Gli ansiolitici sono tranquillanti che calmano gli individui
tesi ed ansiosi.
Gli antidepressivi servono al alzare il tono e migliorare l'umore
di una persona depressa.
Gli antipsicotici modificano le manifestazioni psicotiche.
Gli ansiolitici vengono spesso prescritti
anche dai medici generici e vengono spesso
consumati con voracità da persone che devono
prendere un tranquillante ogni qualvolta
si sentano turbati emotivamente.
Occorre evidenziare che questa cura può essere
solo poco più che un sollievo temporaneo
dei sintomi e che comunque può rivelarsi
assai pericolosa nei soggetti che assumono
anche piccole quantità di alcool. Tra i più
celebrati di questi farmaci sono (od erano,
non siamo farmacisti, purtroppo, $ !) il
Librium, il Miltown ed il Valium.
Gli antidepressivi sono la terapia più comune
per la depressione. Tra questi i triciclici
hanno una strana storia. Furono provati come
cura alla schizofrenia, e sebbene non fossero
risultati efficaci, gli sperimentatori notarono
che portavano allegria. Pertanto furono smistati
sul fronte della lotta alla depressione.
Un altro gruppo di farmaci antidepressivi
è quello degli inibitori della monoamina
ossidasi (MAO), originariamente destinati
alla cura della TBC. Ma gli inibitori MAO
procurano effetti collaterali che possono
persino portare a danni al cervello ed al
fegato, specie se mescolati a particolari
cibi.
La sindrome maniaco-depressiva è sempre stato
piuttosto refrattaria alla cura farmacologica.
Tuttavia negli ultimi anni si è trovato che
il litio può essere efficace, anche se al
di sopra di una certa quantità provoca effetti
tossici devastanti.
Rispetto alla schizofrenia vera e propria
la farmacologia può invece vantare successi
importanti grazie alle fenotiazine, un gruppo
di farmaci elaborati negli anni '50.
Grazie a questi farmaci si è registrato un
significativo calo del numero degli individui
affetti da schizofrenia cronica e sono persino
stati chiusi numerosi ospedali psichiatrici
negli Stati Uniti.
Ma gli studiosi più seri hanno ovviamente
affermato che "la vera funzione del
farmaco sta nel portare il paziente al punto
in cui le forme più tradizionali di terapia
sono possibili."
Altri hanno evidenziato gli effetti collaterali
molto seri che comportano: innanzi tutto
tremori e problemi nel controllo motorio.
Il problema sta allora nel decidere se sia
meglio lasciar languire il paziente nel suo
stato psicotico, oppure procedere decisamente
nella cura farmacologica, ben sapendo a quali
devastanti effetti si potrebbe andare incontro.
Poichè lo psicotico non è in grado, molto
spesso, di comprendere il problema, e di
decidere, la responsabilità della scelta
grava sul terapeuta, od anche sui familiari.
Questo tipo di scelte non può, per ora essere
teorizzato a tavolino, ma solo affrontato
caso per caso, guardando anche a fattori
come la robustezza, l'età, le condizioni
generali, e le possibilità di una vita migliore
per il paziente stesso.
Questo non fa che aumentare le già gravi
responsabilità del terapeuta.
Il ricorso alla genetica
Un approccio genetico porta a considerare
interventi che non possono considerarsi psicoterapeutici nel senso che abbiamo dato alla parola.
Infatti, con la genetica si ritorna a considerare
la possibilità di tare ereditarie. Questo
percorso inizia con l'individuazione delle
caratteristiche dei membri della famiglia
e della loro eventuale storia clinica.
Molte malattie identificate in questo modo
possono vantare una ben precisa etiologia
genetica; ad esempio il morbo di Tay-Sachs,
che in passato veniva chiamata idiozia amaurotica familiare.
Questo morbo è provocato da una carenza dell'enzima
esosaminidasi, carenza che causa l'accumulo
di una sostanza pericolosa nel cervello.
Il dato interessante di questo morbo è che
esso è particolarmente diffuso tra gli ebrei
ashkenazi: l'incidenza è di 1 su 2500, cioè
cento volte maggiore che in altri gruppi
etnici, compresi gli stessi ebrei sefarditi.
Questo fatto può avere due spiegazioni. Una
è dovuta alla mancanza di un vero e proprio
rinnovamento biologico del gruppo. Il dato
che da millenni si verifichino prevalentemente
matrimoni interni al gruppo stesso, perseguendo
una sorta di purezza della specie, porta
in realtà ad un indebolimento. Il fatto può
essere aggravato dalla particolare dieta
alimentare degli ebrei osservanti, che non
possono toccare carni di porco e molluschi.
I sintomi della malattia si sviluppano precocemente,
nei primi sei mesi e comportano cecità, paralisi,
sordità, convulsioni.
I sintomi si aggravano rapidamente e in genere
la morte interviene nei primi tre anni.
Per ora pare non esista altra cura che la
prevenzione. In alcuni paesi sono stati introdotti
programmi per individuare i portatori del
gene responsabile del morbo di Tay -Sachs.
Ma per la verità esiste un orientamento scientifico
che indica nell'esposizione prolungata ad
alcuni prodotti chimici ed alle produzioni
industriali la causa del danneggiamento cromosomico.
Ciò non spiega il morbo di Tay-Sachs ma,
spiega moltissimi altri mutamenti indesiderati
nella genetica dei singoli individui.
Oggidì è persino possibile compensare una
malformazione genetica con farmaci o con
una dieta appropriata che eviti l'accumulo
delle sostanze tossiche in quel particolare
organismo.
In genere si vede negativamente la sperimentazione
genetica a partire dal timore che alcuni
possano desiderare la clonazione o la costruzione
in provetta del futuro superuomo.
Questo è effettivamente un rischio, ma occorre
considerare che senza ricerca e sperimentazione
genetica non si sarebbero fatti significativi
progressi nella prevenzione delle malattie
di tipo ereditario.
I problemi relativi alla bioetica saranno
trattati nella sezione filosofia.
L'elettroshock (terapia elettroconvulsivante)
« L'elettroshock - scrivono Darley
& C. - è uno dei trattamenti biologici
più discussi; normalmente è usato solo con
persone con le quali altre forme di terapia
non hanno avuto alcun effetto (quel "normalmente"
significa che è stato usato "anormalmente"
in moltissimi casi -ndr). I terapeuti l'hanno
usato meno spesso da quando sono disponibili
i farmaci antidepressivi.»
Questa terapia consiste nel provocare una
convulsione mediante la trasmissione di scosse
elettriche al capo. Per ridurre al minimo
i movimenti del corpo vengono somministrati
miorilassanti e anestetici.
Ovviamente non si usa l'elettroshock con
individui affetti da gravi disturbi fisici
o che abbiano recentemente sofferto un infarto
miocardico.
Ma la vera storia dell'elettroshock comincia
ben prima dell'elettroshock stesso: comincia
con lo shock indotto in soggetti affetti
da schizofrenia.
« Quando un giocattolo non funziona
- scrive Vittorino Andreoli ( Un secolo di follia - cit.)- un bambino lo scuote o lo sbatte
per terra e spesso si riprende. Questo modo
di agire infantile si è mostrato particolarmente
utile con i giocattoli meccanici. E' lo stesso
principio delle terapie da shock. Un folle
è un uomo rotto e "sbattendolo"
potrebbe nuovamente funzionare.
Il primo scuotimento fu quello indotto dalla
malaria. Si inocula nel folle il plasmodio
della malaria, si induce dunque artificiosamente
questa malattia e si aspettano le crisi febbrili
che si esprimono con evidenti tremori. Dopo
l'accesso acuto segue un periodo afebbrile
e poi, d'improvviso, un nuovo accesso.
Per questa scoperta viene assegnato nel 1927
il premio Nobel per la medicina a Julius
Wagner von Juaregg. La prima prova l'aveva
fatta nel 1917: aveva iniettato sangue d'un
malato di malaria in uno affetto da demenza
paralitica.»
Ad onor del vero tra i membri della commissione
per l'assegnazione del Nobel ci fu un certo
Gadelius che affermò "che un uomo che
infligge a chi soffre di paralisi progressiva
la malaria merita l'incarcerazione e non
un premio."
Ma il Nobel andò ugualmente al von Juaregg
e ci andò perchè l'esperimento aveva avuto
successo: chiodo scaccia chiodo.
Ma Andreoli va oltre nell'interpretazione
di questo fatto e richiama la suggestione
di un rituale magico, cioè di pschiatria
extracomunitaria.
In pratica sarebbe un ritorno alla pratica
esorcistica fondata sulla persuasione che
la malattia psichica è un'invasione di un
agente esterno e la cura sarebbe un tentativo
riuscito di espellerlo dall'organismo. In
pratica: la malaria rende inospitali il corpo e la mente ed il cattivo spirito
se ne va.
Questa l'interpretazione. Ma se giriamo la
frittata in un altro modo abbiamo un'altra
possibile interpretazione, assai meno extracomunitaria
ed assai più scientifica. Ovvero che la prostrazione
che porta ad un punto di morte provoca una
rinascita dell'io, una sua rienergizzazione,
elemento sufficiente a ricondurre il funzionamento
della mente dapprima a livelli infantili
"puliti" e poi a dimensioni sempre
più mature.
Il trauma sarebbe, in altre parole, benefico
in quanto espellerebbe dalla mente tutta
la falsa "cultura" e tutto ciò
che determina oppressione, depressione, complicazione.
Il fatto che questa pratica richiami in qualche
modo il detto evengelico "devi perdere
la tua vita se vuoi guadagnarne una nuova",
non dovrebbe suggestionare, ma indurre alla
riflessione. I detti evangelici riguardano
sempre singoli che sono in grado di decidere
per sè. Non c'è scritto "taglia l'organo
dello scandalo ad un altro, ma taglia il
tuo." Nè tantomeno c'è scritto "fai
quasi morire un altro per ridargli una nuova
vita, ma se vuoi una nuova vita, perdi quella
attuale."
Pertanto, lasciando perdere magie e guarigioni
miracolose, attenendoci ai fatti, abbiamo
semplicemente una teoria dell'incontro con
la morte che provoca, o dovrebbe provocare,
una rinascita.
Chi scrive non è affatto entusiasta di questa
vicenda, ma da semplice cronista esterno
si limita a riportare non solo i fatti, ma
anche possibili interpretazioni degli stessi
che vadano oltre una visione unilaterale.
Andreoli prosegue: « La più vistosa
innovazione terapeutica di questo secolo
è, in realtà lo shock. Ad introdurlo è stato
Manfred Joshua Sakel, un medico austriaco
il quale, nel 1928, inventa la tecnica del
coma insulinico per la terapia della schizofrenia.
Aveva iniziato a usare l'insulina nei soggetti
tossicodipendenti in fase di astinenza. Lo
stato di eccitazione che la caratterizza
veniva ridotto fino a una totale sedazione
inducendo una ipoglicemia insulinica.
Sakel dirigeva a Berlino l'Ospedale Lichterfelde,
una istituzione privata che si occupava soprattutto
di tossicodipendenti da morfina, e aveva
osservato che i casi in cui l'ipoglicemia
provocava convulsioni o coma, mostravano
un netto comportamento comportamentale...[...]
Nel 1937, a Berna, al Congresso della Società
svizzera di Psichiatria viene riconosciuto
il valore di questa tecnica che ha trovato
ampia applicazione fino agli anni Settanta.
Anche in questo caso - prosegue Andreoli
- ha dominato l'empirismo, anzi, secondo
la logica razionale, questa terapia della
follia è follia anch'essa. Si basa sull'idea
che sia possibile curare una malattia inducendo
uno stato premortale, come appunto il coma.
Il folle viene condotto ad un passo dalla
morte per poterlo far rinascere nuovo, liberato
dal male. Il coma insulinico deve essere
profondo (il più possibile vicino alla morte)
e la rinascita caratterizzata da precisi
eventi...[...] il coma è certamente morte
psichica, poichè rimangono attive solo le
funzioni vitali: respiratorie e cardiocircolatorie.»
Inutile fare una statistica e contare quanti
sono guariti e quanti sono morti: o guarisci
o muori, tale era la scelta filosofica di
questo tipo di approccio estremo. Un rischio,
un gioco d'azzardo.
Nel 1933-35 Laszlo von Meduna, neuropsichiatra
ungherese introduce la terapia convulsiva
più impressionante e radicale.
Partendo dall'ipotesi che vi fosse un antagonismo
biologico tra schizofrenia ed epilessia,
e che la presenza di una impedisse l'altra,
pensò di provocare l'epilessia farmacologica
col cardiazolo negli schizofrenici.
Ma il cardiozol provoca stati di ansia acuta
e pericolosissima. Il prezzo della lucidità
mentale è dunque uno stato nevrotico acutissimo.
Poteva vantare anche un antenato: nel 1785
William Oliver aveva curato un paziente affetto
da mania somministrando canfora, che è in
grado di provocare effetti convulsivi.
Questa teoria non era campata per aria in
quanto è provato che epilessia e condizione
schizofrenica sono alternativi. Ma non è
provato che non siano legate da alternanza,
ovvero che ad un periodo epilettico non segua
un periodo schizofrenico.
L'elettroshock vero e proprio è una invenzione
italiana. Fu Ugo Cerletti a sperimentarlo
per primo , nel 1937, alla Clinica di Neuropatolgia
e Psichiatria dell'Università di Roma. Dopo
undici "sedute" il primo paziente
fu dimesso in buona salute.
La psicochirurgia
La psicochirurgia non è da confondere con
la neurochirurgia. Con psicochirurgia si
definisce infatti una modalità di approccio
alla malattia mentale che suppone la causa
dei disturbi localizzata nei lobi prefrontali.
Fu Antonio Caetano de Abreu Freire Egas Moniz,
un medico portoghese, ad attuare i primi
interventi e ricevette un premio Nobel nel
1949 proprio per "l'audacia" di
questi interventi.
L'idea era che i lobi frontali rinforzassero
o aumentassero le risposte emotive che hanno
origine nel talamo o nell'ipotalamo.
Si pensava che tagliando le connessioni tra
lobi frontali e talamo sarebbe diminuita
l'influenza di una esagerata emotività.
Negli anni '40 e '50 furono eseguiti un numero
impressionante di interventi di lobotomia,
o meglio, di leucotomia. Essi furono anche
dichiarati molto riusciti.
Purtroppo ricerche successive dimostrarono
che i pazienti sottoposti all'intervento
mostravano dei gravi effetti collaterali:
torpore, svolgiatezza estrema, e un grave
danno al funzionamento mentale.
Darley & C. denunciano: « E il
fatto ancora più grave è che (elettroshock
e leucotomia -ndr ) furono usati su pazienti
per i quali l'uso non era indicato, e che
non avevano dato il loro consenso, ma anzi
avevano fatto di tutto per resistere. »
(cit.)
continua
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