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Max Horkheimer
L'eclisse della ragione

New York 1947 - traduzione italiana - Einaudi 1969
L'impianto del libro rispecchia abbastanza fedelmente una serie di conferenze tenute da Max Horkheimer negli Stati Uniti in un periodo precedente alla pubblicazione di Dialettica dell'illuminismo. Le problematiche sono vicine, se non identiche; i due testi risultano complementari.
Nelle conferenze americane, Horkheimer aveva distinto tra una ragione oggettiva ed una soggettiva, dichiarando la prima come elemento comune ai grandi sistemi filosofici (da Platone ad Aristotele, attraverso la Scolastica e l'Idealismo tedesco), ed individuando nella seconda il prodromo di quell'atteggiamento aggressivo nei confronti della natura e degli altri esseri umani, tipico dell'illuminismo, ma già presente, in nuce, nelle filosofie (e nelle magie) del Rinascimento, in Cartesio e Bacone.
Se la filosofia oggettiva è servita quale orientamento attorno a questioni di fondo quali l'idea del massimo bene, il problema del destino umano, il modo di realizzare i fini ultimi, la filosofia soggettiva ha calcato la mano sul rifiuto di riconoscere i fini, di valutarli, limitandosi a considerare l'efficienza dei mezzi. Tale atteggiamento è tipico di un razionalismo solo formale e strumentale, insensibile, privo di anima. L'atteggiamento soggettivo dichiara impossibile un esame scientifico degli scopi. E così chiarisce Horkheimer: «Soggettivazzandosi, la ragione si è anche formalizzata. Il formalismo della ragione ha implicazioni teoriche e pratiche di vasta portata. Per le concezioni soggettivistiche, il pensiero non può essere di nessuna utilità per stabilire se un fine è desiderabile in sé. La validità degli ideali, i cirteri delle nostre azioni e convinzioni, i principi basilari dell'etica e della politica, tutte le nostre decisioni fondamentali sono fatti dipendere da fattori diversi dalla ragione.» (1)
Ancora: «La ragione è ormai completamente soggiogata al processo sociale; unico criterio è diventato il suo valore strumentale, la sua funzione di mezzo per dominare gli uomini e la natura.» (2)

Ciò nonostante, Horkheimer non propone un ritorno alla ragione oggettiva e motiva:«Il compito della filosofia non sta nel difendere ostinatamente una di queste due concezioni a spese dell'altra, ma nell'incoraggiare la critica reciproca ... [...] ... Il falso non è l'uno o l'altro di questi concetti, bensì l'ipostatizzazione di uno di essi a spese dell'altro.» (1)

Ma il tono generale non è ottimistico, tutt'altro, una nuova dialettica tra uomo e uomo, tra insieme dell'umanità e natura è di difficilissima realizzazione e altissima improbabilità. «Se - scrive Horkheimer - volessimo parlare di una malattia della ragione, questa malattia dovrebbe essere intesa come non come un male che ha colpito la ragione in un dato momento storico, ma come qualcosa di inseparabile dalla natura della ragione nella civiltà, così come l'abbiamo conosciuta fin qui. La malattia della ragione sta nel fatto che essa è nata dal bisogno umano di dominare la natura.» (1)

Horkheimer esprime a questo punto una sfiducia nella prassi politica, la quale è per sua intrinseca costituzione uno scontro tra soggettività,un agire quasi inconsapevole e meccanico che non fa che riprodurre l'atteggiamento aggressivo, di tipo cartesiano, e rivaluta a dismisura il compito critico della filosofia, la quale diviene il modo e l'unica via per acquisire coscienza della follia in cui è caduto l'uomo borghese (e proletario) credendosi padrone della natura. «La ragione può diventare ragionevole solo riflettendo sul male del mondo così com'è prodotto e riprodotto dall'uomo; in questa autocritica, la ragione rimarrà nell stesso tempo fedele a sé stessa, riaffermando e applicando senza nessun secondo fine questo principio di verità che dobbiamo alla ragione soltanto. La schiavitù della natura si tradurrà in schiavitù dell'uomo e viceversa fino a quando l'uomo non saprà capire la sua stessa ragione e il processo con cui ha creato e mantiene tuttora in vita l'antagonismo che minaccia di distruggerlo. La ragione può essere più che natura solo rendendosi conto della sua "naturalità" - che consiste nella sua tendenza al dominio - quella tendenza che paradossalmente aliena dalla natura.» (1)
I critici della filosofia critica di Horkheimer, di Adorno (ed in parte di Marcuse) si sono domandati se tale visione costituisca un superamento del marxismo, un suo semplice aggiornamento di fronte alle grandi tragedie del Novecento (nazismo e gulag, due facce della stessa medaglia), oppure il tutto non costituisca che un semplice ritorno ad un modo pre-marxista di pensare, un superamento a ritroso delle Tesi su Feuerbach in particolare.
La sfiducia nella prassi, il fatto che l'unico barlume di speranza sia affidato alla filosofia critica, proprio come unica prassi possibile, in realtà, evidenzia qualcosa di diverso: le categorie marxiane sono state, con linguaggio tipico della scuola di Francoforte, para-freudiano, introiettate, digerite e rielaborate nella teoria critica. Lo scontro tra dominatori e dominati non ha portato alla vittoria dei migliori (probabilmente perché tutti caduti lungo la la via) ma dei peggiori, del pessimo sostrato latente all'umanità, ogni umanità, costituito dalla volontà di potenza, cioè dalla logica di dominio. Come si vedrà, esaminando l'esito dell'ultimo Horkheimer, ciò lo porterà ad abbandonare anche una prospettiva radicalmente di sinistra, semplicemente anticapitalistica, essendo l'anticapitalismo stesso una categoria insufficiente a lottare contro il vero male del mondo.

note:
1) Max Horkheimer - Eclisse della ragione
moses - 28 ottobre 2004