il Rimino - Riministoria

Sebastiano Vanzi,
studioso di Diritto

Se Rimini è travolta dalle lotte intestine nobiliari, Roma è a lungo vittima del sacco del 1527 che provoca la chiusura dello «Studium Urbis», riaperto soltanto nel 1550 da Giulio III. Per cui circa Sebastiano Vanzi non resta che ipotizzare una sua frequentazione dell’«Alma Mater» bolognese, pure grazie al fatto che nel suo trattato troviamo temi affrontati in quell’università da un maestro del Diritto che vi insegna tra 1537 e 1541, il milanese Andrea Alciato (1492-1550), il caposcuola del più maturo Umanesimo giuridico, in cattedra pure ad Avignone e Bruges.
Vari volumi di Alciato escono a Lione, dove egli frequenta il «principe» di quei librai, Sébastien Gryphe, un esperto uomo d’affari ed agente della compagnia dei suoi colleghi veneziani.
Vanzi affronta la questione del rispetto della legge, intesa quale base di una società in cui esista uguaglianza giuridica fra tutti i cittadini, come sostenuto da Tommaso Moro (1478-1535). In lui c’è l’atteggiamento razionalistico che si ritrova in Grozio. A cui si deve l’idea di un diritto naturale al quale ispirare la costituzione politica degli Stati, seguendo l’ammaestramento di Erasmo che nel 1516 con l’«Institutio principis christiani» esorta a considerare i sudditi quali uomini liberi, legati da una specie di patto al loro principe.

Nella prospettiva giuridica presente in Vanzi, si riflette la disputa del suo tempo tra il principio di autorità e l’atteggiamento critico che s’interroga sul senso delle strutture giuridiche, come attesta proprio Alciato. La politica è un sistema di leggi, non la narrazione del passato di Machiavelli. È il ritorno al principio di Tommaso d’Aquino, della legge «humana» come ordine che si realizza in vista del bene comune, mediante il «diritto delle genti». Dal quale sono dettate le regole, la cui violazione è punita dallo «jus civile».
Vanzi, spiegando nella premessa che sovente le dispute nel tribunali sboccano in un labirinto che spaventa quanti chiedono giustizia, richiama il tema della crisi del Diritto comune, un processo storico dal carattere europeo, centrato sull’analisi dei rapporti di potere, che si concluderà alla fine del Settecento.

L’opera di Vanzi comincia richiamando il passo ciceroniano del «De Officis» (I, 2) sulla necessità di definire ciò di cui si parla: «Omnis enim, quae a ratione suscipitur de aliqua re, institutio, debet a definitione proficisi; ut intelligatur, quid sit id, de quo disputetur».
Il richiamo ad un classico latino è uno slancio umanistico presente in tutta la nuova cultura giuridica del suo tempo, come dimostra Alciato, grande rinnovatore degli studi giuridici, per cui è definito «immortale» da Tiraboschi.
Alciato sostiene la necessità di una preparazione filosofica per i giuristi, ed è autore del «De verborum significatione», l’opera sua forse più famosa, pubblicata proprio a Lione nel 1530.
La «ratio» di cui parla Cicerone nei testi filosofici come il «De Officis», è la guida che nella vita sociale ci porta verso l’onestà in cui consiste il nostro vero unico utile. I richiami umanistici alla ragione in età rinascimentale (come nel caso di Vanzi), esprimono l’ansia di «scoprire e additare un mondo nuovo […]: un mondo libero, aperto a una vita nuova dello spirito», scriveva nel 1920 il filosofo Giovanni Gentile (come si legge in N. Gardini).

La fama scientifica di Vanzi arriva ai nostri giorni. Nel 1991 in un trattato di Diritto penale, Franco Cordero lo chiama «specialista dell’argomento». Tra 1997 e 2010 un docente statunitense, Richard H. Helmhoz, ne esamina il pensiero in tre saggi e cinque volumi di Storia del Diritto.
Nel 2006 un saggio di Andrea Landi (sulla codificazione ottocentesca nei Ducati di Massa e Carrara), definisce Vanzi «autorità indiscussa del processo romano-canonico», osservando che i suoi dati biografici sono «pressoché totalmente sconosciuti».
Landi ricorda che «fin troppo pedissequo seguace» di Vanzi è Biagio Aldimari (o Altomari) che dà alla stampe un trattato analogo a Napoli (1700-1709) ed a Venezia (1701-1710). Nel 1720 c’è l'edizione di Colonia. Dopo di che, Vanzi non è più pubblicato. Ma non dimenticato.
(Sulle 29 stampe del lavoro di Vanzi, vedi Scheda 2. Le edizioni e le tipografie).

Vanzi nella dedica del suo lavoro, indirizzata al vescovo di Perugia e Spoleto Fulvio Corneo (nipote per parte di sorella di papa Giulio III), con somma modestia definisce il «Tractatus» una cosa di poco conto («ineptiae») completata (nel 1550) soltanto per proprio uso personale, «quia pro aliis dignum non putarem».
Lo stesso tono è nella prefazione «ad Lectorem» dove Vanzi dichiara di aver voluto soltanto raccogliere con un breve e facile compendio un qualche argomento delle nullità, disperso in molti volumi delle leggi. Nel titolo che introduce al sommario, il trattato è detto «utilis et frequens», ovvero utile e copioso.

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Antonio Montanari


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/1506/Riministoria-il Rimino/antonio montanari nozzoli/Date created: 24.09.2011 - Last Update: 25.09.2011, 11:02 -
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