http://digilander.libero.it/monari/spec/diamante.685.html

il Rimino - Riministoria

«Contro il volere del padre»
Diamante Garampi, il suo matrimonio,
ed altre vicende riguardanti la condizione femminile nel secolo XVIII

Premessa

Tra le vicende di grande importanza e di ampio respiro se ne nascondono sempre altre, all’apparenza meno rilevanti ma non di secondario significato se le rendiamo degne della nostra attenzione. La Grande Storia è anche la somma di piccole cronache nelle quali si cela una verità difficile da recuperare però assai utile, una volta svelata, per comprendere il clima di un’epoca, lo spirito di una società, il senso di esperienze che non sono esclusivamente personali bensì pure collettive. Tra il caso particolare ed il sistema generale in cui esso è collocato, si realizza un rapporto dialettico di reciproca influenza che determina alla fine il cammino stesso della Storia.
Nel presente lavoro ho raccolto alcune testimonianze minori incontrate casualmente leggendo biografie, cronache ed epistolari: esse sono accomunate dal fatto di essere relative a quell’universo femminile che, esplorato con qualche cura, permette di ricostruire alcuni fondamentali aspetti della società settecentesca, che hanno un ampio spettro di significati e di riferimenti ai temi più generali di quel secolo. Nel quale, la nuova cultura, i fermenti politici e sociali che si manifestano con originalità di propositi legati alle urgenze collettive, i travagli umani che aspirano alla liberazione dalle catene che costringono corpi e menti, costituiscono le premesse da cui hanno origine quei processi che, spesso lentamente e talora rabbiosamente, modificano i contesti nei quali essi si manifestano: non per nulla D’Alembert scriveva nel Discorso preliminare all’Encyclopédie che il suo secolo si sentiva destinato «a mutare ogni legge e a far giustizia» 1.
Anche le vicende minori raccontano come si realizzi individualmente ed a livello più globale il processo di mutamento dello status quo, con il desiderio di essere padroni della propria vita, e non soltanto soggetti passivi delle altrui volontà: e questo avviene nei diversi ambiti in cui si vive, dalla famiglia ai rapporti affettivi, sino a quelli più propriamente (e forse genericamente) detti sociali, per intendere il complesso delle relazioni che ci legano alla politica, al lavoro, alla cultura.
In ogni momento delle esistenze singole e collettive c’è sempre un «padre», un capo al quale le tradizionali forme di convivenza e di esercizio del potere affidano il governo delle condotte altrui, con il diritto e l’obbligo di imporre volontà, regole, divieti, e con l’autorizzazione a punire disobbedienze e ribellioni.
Simbolicamente Diderot fa dire alla sua giovane «religeuse»: «E vidi chiaramente che erano decisi a disporre di me senza di me», per rappresentare un dramma che compendia in sé gli effetti di leggi, costumi, libertà ‘concesse’ dispoticamente dai vertici sociali ai gradi più bassi, nell’esercizio di poteri che procedono dall’alto della piramide (famigliare, sociale...), senza alcun dialogo con chi ne sta alla base.
Con la stessa intenzione di Diderot (fatti salvi i differenti contesti spirituali e culturali degli autori), nel secolo successivo Manzoni racconta la figura della Monaca di Monza, ponendole sulle labbra queste parole: «già lo so che i parenti hanno sempre una risposta da dare in nome de’ loro figliuoli». Parole che fanno il paio con quelle pronunciate da don Rodrigo a proposito di Renzo e Lucia: «Son come gente perduta sulla terra; non hanno né anche un padrone: gente di nessuno».
Un’altra figura emblematica del mondo sociale e letterario del ‘700 è quella di Mirandolina: «Vincitrice del Cavaliere», ha scritto Franca Angelini, «Mirandolina è vinta dalla legge che incombe sulla condizione femminile, l’ubbidienza al padre», che nel caso specifico significa dover sottostare «all’interdizione del passaggio da una classe sociale a un’altra» 2.
Contemporaneamente si stava discutendo se la debolezza e quindi anche la conseguente sottomissione femminile non fossero semplice effetto di una causa fisiologica e pertanto naturale, alla quale qualche spirito più intelligente come l’«abatino Galiani» contrappone l’educazione ed il «sistema dei nostri costumi» 3.
Il padre del titolo di questo mio scritto, non è dunque soltanto quello biologico, il capo assoluto della famiglia aristocratica (o borghese, non fa molta differenza) sul modello di quello politico dello Stato monarchico classico, ma è l’immagine allegorica di una società chiusa e repressiva, con cui le donne debbono continuamente scontrarsi, isolate in un ruolo subalterno, però con il desiderio di riscattare la loro capacità di agire, vivere e realizzare precisi progetti esistenziali.
Una delle figure sulle quali ci soffermeremo, Antonia Cavallucci, scrive: «Mi dispiace, che nessuno è padrone di se stesso». Lei è un’artista dalla poca cultura e dalla condizione sociale misera, ma pronuncia con saggezza da fine letterata aristocratica una battuta capace di riassumere in modo fulminante una situazione (diffusa, non solamente sua) di donna sconfitta da troppe avversità ed umiliazioni. Di fronte alle quali è spinta dalla società del suo tempo a ricercare di continuo una protezione che è il surrogato ipocrita della paternità, ed è intesa non come una guida responsabile all’educazione ed al governo di sé, ma strumento di autodifesa usato per sopravvivere ad invidie e rivalità, anche a costo di subire quell’ambiguo senso di possesso che i costumi di allora garantivano al protettore, sino a farlo apparire non come un sostituto del padre ma un amante (accade alla stessa Cavallucci, a Rimini, con Iano Planco).
Alcune donne, come vedremo, cercano di rifiutare il padre (inteso anche quale capo gerarchico che s’incarna nelle regole della tradizione), non per amara e gratuita vendetta ma perché la dignità individuale è sempre più forte della violenza che egli, figura reale oppure simbolo sociale, esercita impunemente. Sono tentativi spesso disperati, anche se non inutili.
Il secolo XVIII si conclude in Italia proprio con il cadavere di una donna che pende, vilipeso, da una forca di Napoli, quello di Eleonora Fonseca Pimentel, le cui ultime parole ammoniscono ancora oggi: «E forse un giorno gioverà ricordare tutto questo» 4.


1. «Dama di grande spirito»: Diamante Garampi

La condizione d’inferiorità giuridica della donna è uno dei cardini della società dell’antico regime. All’interno delle classi superiori, tale condizione si precisa e consolida con un’articolazione di atteggiamenti che, nelle varie stagioni della vita, coinvolgono tutta la sfera dei comportamenti pubblici e privati della figura femminile.
Sin dalla nascita le preferiscono il maschio perché questi permette di mantenere inalterato l’asse ereditario e di conservare integro (all’apparenza) il nucleo famigliare, consentendo altresì ai suoi componenti di poter continuare ad esercitare il ruolo che compete loro nel contesto sociale, politico ed economico in cui agiscono.
Quando la bambina diventa ragazza, la sua sorte prevede, come inevitabile alternativa al matrimonio, la strada del monastero. In entrambi i casi, la si fornisce di una dote che, mentre può essere testimonianza del prestigio della famiglia alla quale appartiene (mai verbo poteva essere più appropriato), costituisce però anche un problema non indifferente per i suoi congiunti, a causa delle critiche condizioni patrimoniali che frequentemente si registrano durante il secolo XVIII nella massima parte delle famiglie nobili.
Avere una figlia femmina, nel comune sentire, significava trovarsi in una condizione più avversa che di inferiorità genealogica. Ricordo al proposito una lettera 5 del medico riminese Giovanni Bianchi (Iano Planco), in cui sono espresse le condoglianze ad un amico per la morte della figlia, con tale aggiunta: «ma per questa bisogna piuttosto rallegrarsi che dolersi perché hà senza fatica acquistato il cielo, e a voi tolto l’impaccio di maritarla». Il corrispondente di Planco appartiene non ad gruppo sociale dominante, ma ad un ceto più basso, il che non significa che le stesse parole dell’epistola non possano aver valore anche per gli aristocratici che, con più pretese ma in generale con altrettanti pochi mezzi, sperimentano la crisi d’identità della loro classe, subendone le conseguenze all’interno di ogni loro azione.
Il matrimonio è inteso come un contratto patrimoniale sul quale sono fatti convergere non soltanto gli interessi famigliari bensì pure quelli del ceto a cui si appartiene, in una difesa del gruppo chiuso che vuole perpetuare se stesso riproponendo i legami di parentela tra i contraenti, quale garanzia di difesa della propria (presunta) superiorità.
Al proposito ricordo che è prassi costante dell’antico regime di provvedere a mantenere integro il sangue delle famiglie nobili, proibendo «i matrimonj disuguali» 6 con donne «d’inferiore ributtante condizione».
Ovviamente, come il matrimonio, anche il monastero è un ambito nel quale devono tessersi reti di complesse protezioni: la famiglia di origine esercita una precisa influenza sull’ambiente religioso, il quale ricambia ad essa accogliendone una sua componente con quel particolare riguardo che deriva dalla condizione della fanciulla, e che conferma pure la distinzione (e quindi la superiorità) del gruppo in cui va a vivere.
Nel testamento del nobile riminese Giulio Martinelli 7 (anch’egli, come vedremo, indirettamente coinvolto nella storia di Diamante Garampi), troviamo alcune notizie fondamentali per ricostruire la struttura sociale dell’antico regime relativamente al ceto aristocratico.
Alle due figlie femmine viventi Maria e Geltrude ed a quelle che «potessero nascere», il 28 novembre 1760 Giulio Martinelli (che muore quattro anni dopo) concede una dote di millecinquecento scudi, «da darlesi allorche si mariteranno o decideranno di monacarsi», rinunciando in entrambi i casi (sposalizio o convento) a «qualsivoglia sorte di Beni» della famiglia, riservati in esclusiva agli eredi maschi. Costoro, pur raggiungendo la maggiore età a ventun anni, secondo quel testamento, avrebbero potuto disporne liberamente soltanto a venticique.
Per le ragazze, inoltre Giulio Martinelli stabilisce: «per fintanto che accaderà il caso di maritarsi, o monacarsi voglio che a spese della mia Eredità siano mantenute nel monastero di S. Eufemia di questa città, e non in altro luogo». Una delle due ragazze del testamento, Geltrude Martinelli, nel 1769 diventerà la matrigna proprio di Diamante Garampi, prendendo in sposo il di lei padre Francesco, rimasto vedovo della prima moglie Maria Angela Valentini dalla Penna (genitrice di Diamante), che aveva sposata nel ’41.
A diciotto anni, il 25 aprile 1764, Diamante Garampi sposa Nicola Martinelli (non ancora ventiduenne) che è un parente della stessa Geltrude Martinelli: il nonno di Nicola era un fratello del nonno di Geltrude.
Ma il nostro interesse per le nozze fra Diamante Garampi e Nicola Martinelli non deriva da questo particolare (qui secondario) della parentela tra le loro due famiglie, e dell’intrecciarsi di essa con la vicenda personale non dei novelli sposi, ma del padre della giovane, Francesco Garampi, che si unisce poi ad una parente del proprio genero. La storia di queste nozze ha un significato particolare che deriva dal retroscena che ai loro tempi fece davvero scandalo in una città chiusa e bigotta come era la Rimini di quell’età (e come è forse anche di oggi).
Sappiamo dal cronista loro contemporaneo Ernesto Capobelli 8 che quel matrimonio fu concertato per mezzo di «lettere segrete», resesi necessarie allo scopo di sventare le nozze che il padre di lei aveva progettato scegliendo come consorte per la figlia il marchese Pietro Belmonti.
Anche Pietro Belmonti è un parente dei Garampi. Il padre di Diamante, Francesco, è infatti figlio di una Belmonti, zia del prescelto Pietro. Quindi Francesco Garampi era cugino in primo grado con Pietro Belmonti. Il che, agli occhi dei Garampi, non complicava per nulla le cose: un fratello di Francesco è monsignor Giuseppe Garampi che aveva nella Chiesa, a Roma, un ruolo di prestigio: «Canonico della Basilica di S. Pietro», scrive Capobelli. Ma a questa notizia del cronista ne va aggiunta un’altra forse più significativa: Giuseppe Garampi apparteneva già nel 1763 allo sceltissimo corpo diplomatico della Santa Sede, avendola due anni prima rappresentata nella Dieta di Augusta, dopo esser stato prefetto nell’Archivio Segreto Apostolico Vaticano 9.
La «speciale dispensa» che «si doveva procurare da Roma» per le nozze fra Diamante Garampi e Pietro Belmonti, non era dunque un ostacolo insormontabile. Come spiega Capobelli, la «si sarebbe al certo ottenuta per impegno, ed opera» appunto dello zio della futura sposa, monsignor Giuseppe. L’unico, vero impedimento stava nel consenso che Diamante avrebbe dovuto esprimere sottomettendosi alla volontà paterna, alla quale decise invece di ribellarsi con un clamoroso colpo di testa il 16 ottobre 1763.
Quelle «lettere segrete», i due giovani se le erano scambiate mentre erano in corso le trattative fra le due famiglie Garampi e Belmonti, e quando il promesso sposo marchese Pietro Belmonti faceva da cavalier servente in casa Cima alla contessa Marianna moglie del conte Galeazzo. Ovviamente le nozze si sarebbero celebrate «ogni qual volta [Pietro] si fosse allontanato, come essa [Diamante] voleva», da quella casa: «Un tale sentimento [Diamante] glie lo fece intendere con più replicate lettere, unito anche alla promessa, che un dì l’avrebbe ella sposato».
Il divieto opposto da Diamante «diede molto a pensare» al marchese Pietro. Il quale non mancò «poco a poco di manifestare» alla contessa Marianna Cima «un tale affare, mostrando anche non lieve il suo dolore. Per tale confessione si trovò più confuso di prima da quanto gli diede la medesima in risposta, e per fine conchiuse forzatamente di piuttosto rinunciare l’impegno della Garampi, di quello abbandonare la Dama». Così avvenne, «e in tal guisa si manifestò con lettera, facendo vedere non essere convenevole separarsi da quella dama per non dar motivo alla Città di ciarlare nel modo, che ognuno avrebbe potuto fare anche con pregiudizio dell’uno, e dell’altra» 10.
Con «questo ripiego», scrive Capobelli,

la Contessa Cima obbligò il Marchese ad abbandonarla, come fu, e questo strettamente avvinto dalle espressioni di quella, scrisse ne’ termini sopra citati con non poco dolore. Quando la Contessa Garampi intese li sentimenti del Marchese, si diede ad un tratto a voler bene davvero al Conte Martinelli, promettendogli, che sarebbe stata la sua sposa anche contro la volontà del Genitore, quale aderiva piuttosto di dar la propria Figlia al Marchese Belmonti, che a verun altro, quantunque passasse fra loro

quella «stretta parentela» di cui si è già detto.
Le «lettere segrete» producono il loro effetto: «S’avanzò dunque l’amore fra l’uno e l’altra». Diamante, «per isfuggir anche la soggezione del padre, che se gli era resa stucchevole a maggior segno, per consiglio del Conte Nicola Martinelli suo amante, s’appigliò» alla «risoluzione» di nascondersi in convento. Siamo appunto al 16 ottobre 1763: dopo il pranzo, Diamante «si portò in compagnia del Padre a far una visita a più Monache nel Monastero di S. Eufemia. Colà giunti, e discesi dal Carrozzino, si trattennero in discorsi di passatempo sulla porta del Monastero con quelle Monache ivi radunate».
Alla sera («poco dopo le 23 ore», cioè alle 19 attuali), quando suo padre «si congedò» per ritornare a casa, Diamante «si slanciò d’improvviso» dentro il monastero

per ben quattro in sei passi, rispondendo con arditezza al padre, che per allora non gradiva, né voleva ritornare alla propria abitazione, bensì era rissoluta di trattenersi in quel luogo, stante la licenza ottenuta da Roma per un tale effetto, che tosto la esibì all’Abbadessa, per far costare la verità, esponendo anche diversi motivi, che l’avevano indotta a una tale rissoluzione.

Il cronista Capobelli osserva che il padre di Diamante provò grande «passione» per l’«improvviso atto» di rivolta della figlia la quale gli procurò «per alcuni giorni» (soltanto) «non poco dolore». Più a lungo durò invece il soggiorno della giovane Garampi nel monastero di Sant’Eufemia, dove si trattenne sino all’8 gennaio 1764, quando fece ritorno alla casa paterna. Qui restò per sei giorni, prima di isolarsi in un altro convento, quello delle monache di San Matteo, il 13 dello stesso mese, allo scopo di prepararsi alle nozze con Nicola Martinelli.
A San Matteo, la famiglia Garampi poteva vantare garanzie di tutto rispetto, essendovi entrata nel 1745 la contessa Mariantonia 11, zia della promessa sposa Diamante, il cui matrimonio fu celebrato dal vescovo di Rimini monsignor Francesco Maria Capellini, come inevitabilmente richiedeva lo status degli sposi, il 25 aprile «da sera in Casa Valloni».
Tutta la vicenda di Diamante Garampi e Nicola Martinelli è ignorata dal principale autore locale di genealogie settecentesche, Michel Angelo Zanotti, anch’egli cronista della storia riminese 12: a lui tuttavia spetta il merito di aver lasciato un’illuminante, duplice annotazione su Diamante, allorché la definisce «dama di grande spirito, e di particolare avvenenza» 13. Diamante Garampi scompare a 45 anni circa il 17 aprile 1790. Nicola Giangi ne cita la morte nella sua cronaca riminese, ricordandola anch’egli come «la più bella Donna mai veduta» 14.
In una pubblicazione a stampa sulla causa tra le famiglie Garampi-Martinelli-Soardi 15, si legge che la ragazza «vivendo a capriccio volle anche a capriccio e contro il volere del Padre unirsi in matrimonio» 16.
Il più famoso storico ottocentesco di Rimini, Carlo Tonini, definisce le pagine di Capobelli «più un aneddoto da romanzo che un racconto di storia» 17, mostrandoci una mentalità che ci è utile anche per interpretare tutto il suo lavoro. Il tono perentorio usato in quel giudizio, può forse spiegare il silenzio caduto sulla vicenda di Diamante Garampi, come sopra altri temi ben più importanti: gli studiosi successivi si sono arresi all’autorevolezza di Carlo Tonini, in un atto di sottomissione che ha pesato (e pesa tuttora) in molte ricerche (specialmente universitarie), come se la sua Storia settecentesca fosse non un veloce ed unilaterale riassunto delle vicende di un intero secolo, ma il prodotto più esauriente di tutte le indagini possibili.
Anche Nicola Martinelli non è stato trattato bene dagli storici riminesi. Sia Zanotti sia Carlo Tonini non hanno esplorato gli aspetti più segreti e significativi della sua personalità che non è per nulla estremistica, come essi scrivono, il secondo sulla scia del primo, ma che s’affaccia con originalità di spunti e vigoria di comportamenti sulla scena politica italiana della fine del XVIII secolo 18.
Se Diamante aveva il «grande spirito» di cui parla Zanotti, non da meno dovette essere quel suo consorte (così tenacemente voluto con una rivolta verso le regole sociali, le istituzioni famigliari ed i costumi del suo tempo), stando almeno a quanto possiamo leggere in coda a questo inedito, gustoso sonetto satirico anonimo sui nobili riminesi, che ho ritrovato proprio tra le carte gambalunghiane del cardinal Giuseppe Garampi 19:

Il Vescovo va a caccia, mangia, e ciarla.
Imprudente Sarton s’impegna, e vanta.
Rigazzi fa i suoi fatti, e se la canta.
Ricciardelli è per ultimo che parla.

Bianchelli pensa, e nella rabbia tarla.
Paci il livor col finto zelo ammanta.
Buonadrata sproposita all’Ottanta.
Urla, mangia, Carlon mormora e sparla.

Garampi vuol il Ben, e appien nol vede.
Nanni racconta, e stroppia tutti i fatti.
Soardi incoccia, e a Pasolin sol cede.

Di forte ha Zollio e valoroso i tratti.
Battaglini spaternostra in buona fide
e Martinelli ha in c... e savi, e matti.


2. «Vaghezza, o follia» d’amore: Caterina Vizzani

Una vicenda d’amore dai contorni opposti a quelli finora considerati, e dagli esiti drammatici, è narrata nella Breve storia della vita di Catterina Vizzani Romana che per ott’anni vestì abito da uomo in qualità di Servidore la quale dopo varj Casi essendo in fine stata uccisa fu trovata Pulcella nella sezzione del suo Cadavero. Lo scritto è ricordato comunemente tra le opere scientifiche composte dal medico e poligrafo riminese Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775) 20. La classificazione non è arbitraria, perché in quelle pagine Bianchi racconta un suo interessamento alla vicenda in qualità d’esperto di Anatomia, materia che sta insegnando all’Università di Siena proprio mentre avviene il caso narrato (nel 1743: lo scritto appare l’anno successivo).
Se ricerchiamo però il significato più nascosto dell’intervento di Bianchi, e lo colleghiamo all’impianto strutturale della Breve storia, ci accorgiamo che il testo rappresenta soltanto un’occasione narrativa utilizzata non per compilare una pagina di storia della Medicina, ma qualcosa di diverso che, nella sua essenza, riguarda molto poco le argomentazioni anatomiche; e che ci permette utilmente, invece, di ricostruire alcune costumanze sociali legate al tema della condizione femminile nel secolo diciottesimo.
Bianchi spiega che Pietro Isacchi di Arezzo è l’autore di una prima ricognizione del cadavere della giovane, in base alla quale comunica a Planco di aver rilevato la verginità della fanciulla, dotata di «un imene bellissimo». Bianchi a questo punto chiede che siano asportate alla ragazza «le Parti della Generazione», per inserire l’imene stesso della Vizzani in una sua raccolta la quale ne comprende «diversi altri che in Siena di diverse Vergini di diversa età ho ritrovati». Il suo atto anatomico si riduce a questa semplice richiesta, mentre sul cadavere di Catterina si esercitano «alcuni giovani dello Spedale», che «furtivamente per soverchia curiosità» le aprono il ventre «col pretesto, dissero, che potesse esser gravida».
Tutte le altre spiegazioni presentate nella Breve storia, come contorno a questi dati essenziali, sono più una preziosa fonte di informazioni per i posteri, che materia di analisi autoptica. Di rilevanza documentaria ai fini storici, è l’osservazione che il ritrovamento dell’imene garantisce sulla verginità della defunta, «siccome tutti i valenti Notomisti sanno»; e che la normalità della sua clitoride smentiva quanti ritenevano la cosa impossibile per le seguaci di Saffo.
Sotto il profilo medico, quindi, non c’è nulla di più di questo accertamento obiettivo ed inoppugnabile che la ragazza non aveva mai avuto commercio carnale alcuno con un uomo. La conclusione non è un gran risultato sotto l’aspetto dell’indagine scientifica, non essendo lo scritto di Bianchi una perizia, ad esempio, per una causa di beatificazione. (L’esempio non appaia ardito, come vedremo in appresso.)
Se confrontiamo la Breve storia con altri scritti anatomici di Bianchi, notiamo la grande differenze che intercorre tra questa narrazione e le opere in cui egli esamina problemi ed offre risposte sul piano dello studio delle patologie. Per la Vizzani, i particolari sottolineati da Planco non sono altro che una constatazione di due elementi, la verginità da una parte e l’omosessualità dall’altra, che ineriscono solamente alla psicologia ed all’analisi dei comportamenti sessuali. L’insistito accenno alla verginità della ragazza serve a sottolineare la sua appartenenza alla schiera delle «Donzelle di Lesbo», con un’adesione totale all’amor saffico, e senza alcun tentennamento o pentimento, al punto che l’operetta planchiana potrebbe far la felicità di scrittori dediti alla letteratura erotica.
Se l’Anatomia è la ricerca delle cause delle malattie (e delle loro fatali conseguenze), non credo che fra i dati patologici possa rientrare la verginità come causa di morte, se non in un senso puramente ideale (e direi ‘romantico’). La ragazza passa a miglior vita per un colpo d’arma da fuoco, sparatole a tradimento, a causa del suo tenace schierarsi fra le «Donzelle di Lesbo». La meccanica del fatto nel rapporto tra la causa (amor saffico) e l’effetto (morte della giovane), e la dinamica degli eventi (omicidio per nulla preterintenzionale, stando al racconto di Bianchi), ci portano lontano da uno studio di tipo medico, per cui escluderei del tutto la Breve storia dal catalogo delle opere scientifiche di Bianchi, nonostante le osservazioni che fanno da contorno alla narrazione principale. (Ciò che è secondario, nell’impianto di un’opera, non può ovviamente prevalere su ciò che è fondamentale, nella valutazione critico-storica che se ne dà.)
A confermarmi in questa mia opinione, è il confronto con un altro scritto celebre di Bianchi, la Storia medica d’una postema nel lobo destro del cerebello, anticipata nella dissertazione svolta il 28 maggio 1751 nell’Accademia dei Lincei riminesi 21 rifondati dallo stesso Planco sei anni prima: si tratta dell’esame anatomico riguardante un bambino di nove anni, il contino cesenate Giambattista Pilastri, morto «ex Apostemate in lobo destro Cerebelli». I modi espressivi dei due scritti sono completamente diversi, perché del tutto differenti sono le loro esclusive finalità. La Storia medica relativa al contino Pilastri ha un suo sostanziale interesse scientifico (rilevabile anche attraverso le polemiche che essa suscita). La Breve storia della Vizzani ha uno scopo letterario, dimostrabile chiaramente dalla lettura dell’incipit che riporto per intero:

Strani veramente e incredibili oltremodo sono talora gli appetiti umani massimamente ne’ fatti d’Amore; per la qual cosa niuno meravigliar si debbe, se altri per sola udita d’amoroso foco talvolta cotanto siasi acceso, che per varie e rimote contrade sia andato vagando per vedere di giugnere in fine al possedimento della disiata cosa. Così non è meraviglia, se talora di questo medesimo foco per tante vie altri resti così gagliardamente che ne a condizione, ne a parentado, ne a sesso perdoni, sì veramente che a quello appetito che più in grado gli è possa soddisfare.

Il racconto impostato da Bianchi con queste parole, sembra introdurre ad una novella degna della giornata quarta del Decameron, ove «si ragiona di coloro li cui amori ebbero infelice fine». Ma il tono usato da Bianchi non ha nulla di doloroso, come incontriamo invece nei versi cantati alla fine della stessa giornata da Filostrato («Lagrimando dimostro...»). Il registro è differente, anche se lo scopo è lo stesso rispetto a quello dichiarato nell’introduzione della medesima giornata quarta, dove con la citazione della vicenda di Filippo Balducci e del figliuolo, si fa consistere l’Amore in una «forza di natura». Su questa stessa linea è anche il prologo alla prima novella della giornata terza, relativo agli «appetiti» sessuali che non possono esser soffocati ponendo sul capo di una giovane la benda bianca ed indosso una nera cocolla.
Bianchi non poteva non ricordare anche l’ammaestramento che, da una vicenda dell’Inferno dantesco ambientata proprio in Romagna 22, gli arrivava direttamente attraverso le parole di Francesca, «Amor, ch’a nullo amato amar perdona», dove si mostra quel legame con la morte che troviamo pure nel racconto della Vizzani. Catterina è vittima essa stessa, e quasi eroina di una vicenda simile a quella che Dante, pur con gli accorgimenti compassionevoli del caso (il suo svenimento nella parte finale del canto quinto), ambienta nel luogo della dannazione eterna. Nello stesso luogo, il Decameron colloca la vicenda di Nastagio degli Onesti dalla quale, con l’apparizione nella pineta di Classe, la «ravignagne donne» traggono l’ammaestramento ad essere «più arrendevoli a piaceri degli uomini», come in realtà «furono, che prima state non erano».
Il ritratto della ragazza che Bianchi delinea, sembra proprio ispirato dalla lezione di Boccaccio, che invita a considerare il «piacere» come componente irrinunciabile dell’esistenza. Planco fa del suo personaggio una creatura che «grandi disastri ha sofferti, e in fine la morte medesima crudelmente ha incontrata», a dimostrazione «di quanto mai strani siano gli appetiti umani».
Accantonerei per un attimo la questione dell’omosessualità che Planco compendia in quell’aggettivo «strani» con cui definisce «gli appetiti umani», e prenderei in considerazione soltanto la fedeltà ad Amore di Catterina, così come Bianchi la espone, per vedere nella ragazza morta a Siena qualcosa di più di un semplice oggetto da sezione anatomica, come solitamente si fa.
Per completare il ritratto della Vizzani, Bianchi dice di voler fare «vedere non piccioli segni di costanza, i quali con moltissima follia in questa Fanciulla andavano congiunti». Viene da osservare che la «moltissima follia» di cui egli parla, non si presenta a noi come un concetto di carattere medico, ma semplicemente quale espressione indubbiamente popolare e nello stesso tempo dotata di letteraria dignità usata come dotto richiamo alla tradizione narrativa o poetica, per compendiare tutta la vicenda della ragazza, dalla prima scoperta della sua tendenza alla decisione di travestirsi da uomo, perseverando sino alla fine che le giunge per colpa di un prete, con la cui nipote Catterina era fuggita. Il prete aveva posto sulle loro tracce dei messi che, ritrovata la coppia, ingaggiano un duello: Catterina depone la propria arma da fuoco, ma viene egualmente colpita.
Durante il ricovero allo Spedale, la Vizzani confida il suo stato di «femmina, e pulcella» alla Castalda delle Monache della Concezione di Siena, suor Maria Colomba, alla quale era stata affidata. Catterina chiede che il segreto sia rivelato soltanto dopo la propria morte, «acciocché in abito femminile» la vestissero, ponendole sul capo una ghirlanda come era costume per le «Pulcelle». Quando la ragazza spira, a venticinque anni circa di età, e dopo otto «impiegati in abito da uomo sempre vestendo», il suo corpo è esposto in Chiesa: il popolo, scrive Bianchi, «da tutta la Città accorreva per vederla, massimamente ancora perché alcuni d’ordine religioso pretendevano che per aver serbata con tanta costanza castità con gli uomini fosse Santa».
E’ inevitabile pensare al ser Ciappelletto del Boccaccio: «Il santo frate che confessato l’avea [...] fatto suonare a capitolo, alli frati ragunati in quello mostrò ser Ciappelletto essere stato santo uomo». Così come il trasvestimento di Catterina, può richiamare una scena delle giornata seconda, novella terza: «Alessandro, posta la mano sopra il petto dell’abate, trovò due poppelline tonde e sode e dilicate, non altramenti che se d’avorio fossono state, le quali egli trovate e conosciuto tantosto, costei esser femina, senza altro invito aspettare, prestamente abbraciatala, la voleva basciare».
Il travestimento di Catterina coinvolge due piani. Quello psicologico, con «un maschile portamento, e un libero parlare». E quello fisico: «Anzi per parere uomo da vero un bel Piuolo di Cuojo ripieno di cenci s’era fatto, che sotto la camiscia teneva, e talora, ma sempre coperto a suoi Compagni per baldanza di soppiatto mostrava». L’aspetto parossistico della vicenda di Catterina, è che con un Cirusico per due volte si dichiara affetta da un mal venereo, e finge ovviamente di assumere i rimedi consigliati. In sintonia con questo atteggiamento, alle lavandaie che invece le interrogavano perché vedevano le sue camicie imbrattate «come quelle delle Giovani Donne a certa stagione», Catterina rispondeva che ciò procedeva «da piccolo male, che per amor di donne gli si era appiccato».
Nel riassumere la confessione della giovane alla Castalda delle Monache di Siena, Bianchi adopera un tono di leggerezza e tolleranza (quasi di complicità narrativa), proprio per completare il divertimento letterario di una novella, e non per comporre un trattato scientifico.
Catterina aveva voluto sempre amare donne, e non aveva mai ceduto a nessun uomo, «come pare, che la natura delle Giovani Donne inclini». La natura: essa, in questo caso, come nella vita comune, sembra consistere nel gioco dialettico fra l’intelligenza (che qui porta al mascheramento di Catterina), e quelli che Bianchi definisce gli «appetiti umani» in fatto d’Amore, sulla scia di Boccaccio il quale nel Decameron parla di «naturali», «carnali» e «concupiscibili appetiti», oltre che ricorrere talora al nudo sostantivo senza l’accompagnamento di alcun aggettivo per indicare lo stesso concetto.
Commentando che non doveva «destar meraviglia» il comportamento tenuto da Catterina a causa del suo «amoroso foco», Bianchi dimostra di considerare lecito ogni atto erotico, compreso quello di chi come Catterina si dichiara seguace di Saffo, e delle altre «Donzelle di Lesbo», in contrasto con i dettami della Religione. Non «giudica e manda», non condanna al fuoco eterno, come l’ossequio alla legge morale della Chiesa avrebbe richiesto.
Tale comportamento guida Catterina alla morte, a cui arriva senza alcun eroismo, ma soltanto per la viltà d’un sicario che la colpisce mentre lei si era già volontariamente disarmata. Forse questo è il particolare più commovente, da cronaca popolare, tra quelli assemblati da Planco nella Breve storia che, per acquistare dignità di testo scientifico, presenta alla fine un’aurea massima di Bianchi stesso: «nella Notomia, nella sperimentale Filosofia, siccome in ogni altra scienza di fatto non con l’autorità, ma col far vedere le cose in realtà si dee procedere».
Forse è questo breve passaggio, oltre alla prognosi azzeccata sulla morte di un altro innocente ragazzo ferito nella sparatoria, che ha convinto gli studiosi a considerare lo scritto sulla Vizzani un testo scientifico. Che il suo autore considerava un’«operetta [...] ripiena di osservazioni particolari, e non così ovvie» 23.
Di recente, il dottor Stefano De Carolis dopo aver attribuito alla Breve storia il significato di «importante esempio del modus operandi planchiano», ha osservato infine (con perfetta intelligenza del testo) che «l’insistita curiosità con cui Planco ricostruisce la storia di Catterina Vizzani ricorda la sua poco nota attività giovanile di scrittore di novelle boccaccesche» 24.
Sembra possibile considerare prorogata nel tempo questa attività giovanile, davanti agli esiti letterari della Breve storia che non è beninteso una novella, ma ne ha soltanto la struttura, nella quale Bianchi poi inserisce i dati oggettivi finora considerati, sul piano medico ed anatomico: ciò dà all’opera il carattere di exemplum anomalo rispetto a tutta l’altra produzione sia letteraria sia scientifica di Planco. (Al suo tempo, l’attività giovanile di Bianchi come autore di novelle, non fu sottovalutata: un suo tenace avversario che si nascondeva sotto lo pseudonimo di Tiburzio Sanguisuga Smirneo scriveva infatti nell’Utile Monitorio, Lugano 1748, che il Boccaccio stesso non le avrebbe «conosciute dalle sue diverse», anche se poi Planco «le ha giudicate degne di fuoco», cfr. pp. 28-29 e 54.)
A De Carolis va poi il merito di aver studiato per primo gli interventi censori esercitati sullo scritto planchiano. A Firenze, l’autorità ecclesiastica si oppone alla sua pubblicazione (p. 55), «a cagione della parola piuolo che si mentova, e della descrizione che si fa del mal francese che quella donna diceva d’avere». Bianchi si difende sostenendo che non poteva togliere «una cosa di fatto, ed essenziale alla storia, e che non era né contro la religione, né contro i buoni costumi». A Venezia, il Revisore per l’Inquisizione contesta ancora quel «piuolo». Bianchi decide di stampare a Firenze, ma stavolta sorgono altri ostacoli (è sfavorevole anche il Nunzio apostolico). A questo punto Planco rinuncia alle autorizzazioni, e affida al tipografo Andrea Bonucci un’edizione alla macchia, su consiglio di Giovanni Lami, l’editore delle Novelle letterarie.
Il fatto strano che è la Breve storia esce sì con una «falsa data» (cioè il falso luogo) come tutte le opere clandestine che si rispettino, ma reca pure il nome di un tipografo realmente esistente a Venezia, Simone Occhi. Dalla documentazione restataci degli archivi personali di Bianchi, non è possibile ricavare altre notizie: le uniche lettere di Simone Occhi conservate da Planco sono di un periodo successivo (1759-63). Ma, a confermare l’ipotesi che il nome di questo tipografo veneziano sia stato apposto a sua insaputa, ci sono il Catalogo delle opere planchiane (dove la Breve storia è l’unico testo di cui siano precisati soltanto luogo e data, senza il nome dello stampatore), ed un’epistola di Antonio Cocchi 25.
Il Catalogo è costituito da vari articoli apparsi nel 1758 sulle Novelle letterarie di Firenze. Lo stesso Catalogo ha una piccola differenza rispetto a quegli articoli. Infatti, se nelle Novelle (col. 379) leggiamo che la Breve storia «fu però per verità stampata in Firenze», nel successivo Catalogo questa frase è stata cancellata. Sia l’articolo sia il Catalogo rimandano al numero 44 delle Novelle letterarie del 30 ottobre 1744 dove appare una notizia dell’operetta, in cui se ne sottolinea la «vaghezza dello stile», e si scrive: «Questa Relazione è scritta dal Signor Bianchi in istile Toscano assai Boccaccevole». La notizia sottolinea il «caso raro» di questa «Fanciulla Romana, la quale per sola vaghezza, o follia» aveva amato «altre fanciulle sue pari».
Divagando dall’Anatomia alla letteratura erotica, Planco tratta sì del tema della libertà sessuale, ma non riesce tuttavia a fare di Catterina Vizzani una figura capace di reggere da sola tutto il peso della sua vicenda senza la esclusiva, quasi ossessionante, annotazione relativa alla sua verginità ed alla sua «costanza» e «follia» d’amore. Planco, nelle sue pagine, racconta e riassume i vari aspetti della vicenda della giovane romana con una visione morbosa, sia riferendo i primi approcci anatomici di Pietro Isacchi (con le sue osservazioni sull’«imene bellissimo» della poveretta), sia citando quella «soverchia curiosità» dei «giovani dello Spedale» che «furtivamente» le aprono il ventre «col pretesto [...] che potesse esser gravida».
C’è tutto un universo narrativo, in questo scritto, che dipende da qualcosa d’altro che dalla vicenda personale (e storica), dalla dignità umana e sociale della ragazza. Ci sono i presupposti anatomici, c’è la diversione letteraria. Si va dal cadavere nella sua freddezza ed immobilità, al personaggio da commedia teatrale, l’Innamorata stravagante che corre verso la morte, e la raggiunge per errore. Il che non ne fa un’eroina da romanzo, così come l’eccessiva Scienza medica che si accanisce contro di lei, le toglie oltre alle pudenda anche il pudore, cioè il rispetto del suo decoro femminile, facendone quasi una fonte non direi di riso, ma di sorriso ironico, soprattutto con quel particolare del «piuolo», innocente in sé rispetto alla malizia dei censori, ma capace di rovesciare nell’economia del racconto tutto il senso del dramma che avvolge i sogni di Catterina, le sue avventure giovanili e la morte precoce.
L’imitazione letteraria fa dimenticare a Bianchi il senso del tragico insito nella narrazione stessa. La persona diventa personaggio, perdendo quei requisiti di verità che appartengono al suo essere reale. Tuttavia, lo scritto ha un suo segreto significato eversore, rispetto alla morale religiosa corrente, che forse fa guardare con sospetto all’attività di Iano Planco, il quale qualche anno dopo, nel 1749, pubblica un altro trattato che nega le armonie del sistema aristotelico-tomista, parlando dei mostri esistenti in natura 26.
Sia la storia della Vizzani sia questo trattato attirano su Bianchi le ostilità del clero riminese, che culminano in un episodio del 1752, legato ad un’altra dissertazione accademica dei Lincei planchiani, dedicata all’Arte comica. E’ l’ultimo venerdì di Carnovale. Prima di leggere questo suo discorso, Bianchi fa esibire una giovane e bella cantante romana, Antonia Cavallucci. Anche la sua piccola storia può insegnarci qualcosa sulla condizione femminile del tempo.


3. «A prezzo di rimproveri e di lagrime»: Antonia Cavallucci

Antonia Cavallucci, peregrinando per l’Italia da Torino alla Sicilia, dalla Calabria a Padova, approda a Rimini attorno al 1750. Suo padre Bartolomeo, un celebre Pulcinella, è morto nel ’46. Arcigna custode delle misere sostanze che ricava dall’esercizio dell’arte, è la madre che nel ’49 l’ha spinta a sposare un tal Celestini. Costui la trascura e maltratta, facendola vivere nei più gravi stenti. L’unica cosa preziosa che Antonia Cavallucci possiede è la bellezza. Uomini di ogni età, assistendo ai suoi spettacoli, ne sono talmente affascinati da trasformarsi in una folta schiera di corteggiatori sognanti. Chi non cerca o spera di trovare ascolto nel cuore della giovane, si sfoga componendo versi che ne esaltano grazia e gentilezza 27. Al comportamento brillante che assume sulla scena, si contrappone la tristezza da cui è caratterizzata la sua vita privata.
Nelle lettere indirizzate a Giovanni Bianchi 28, Antonia Cavallucci manifesta toni ingenui da fanciulla incredula davanti ai comportamenti malvagi del prossimo, ma nello stesso tempo consapevole della propria dignità offesa. Non è una sprovveduta. Mai appare ostentatamente maliziosa. Se avesse avuto un carattere più scaltro, avrebbe facilmente vinto le sue battaglie nella vita e sul palcoscenico. (Alla fine del secolo XVIII uno storico del teatro 29 lascia di Antonia Cavallucci queste notizie: «Benché lodata» nell’Arte comica, «distrusse in breve ogni speranza fondata sul suo avvenire, passando meschinamente la vita in compagnie d’infimo ordine, e finendo poi, vecchia e abbandonata da’ compagni di ogni specie, infermiera nell’ospedale di Udine».)
La sfortunata situazione coniugale è aggravata dalle difficoltà di trovar scritture, nonostante il successo che riscuote ogni volta che si esibisce. Forse, a renderla invisa ai benpensanti ed ai custodi della pubblica moralità 30, è la sua stessa avvenenza, facilmente scambiabile, da quelle menti, per un veicolo di seduzione diabolica, sulla scia di opinioni allora comuni. Un pio teologo domenicano, il padre Daniele Concina 31, sostiene ad esempio che attrici, cantanti e saltatrici rovinano le famiglie nobili, irretendo i loro giovani rampolli i quali sperperano per tali leziose puttanelle («putidulae meretriculae») il loro patrimonio economico, la salute del corpo e quella dell’anima.
Non potendo fare affidamento alcuno sul marito, Antonia Cavallucci decide di separarsene, invocando l’annullamento delle nozze. Ed è proprio a Bianchi che si rivolge il 25 marzo 1751 chiamandolo «mio padre» (altra volta lo considera «nonno»), per chiedere «una difesa» da «imparare a memoria» e recitare in un tribunale ecclesiastico allo scopo di far valere le proprie ragioni. Vuole dimostrare che le è stato estorto il consenso: «in pubblica chiesa mi sono dichiarata con il confessore che non lo volevo, e che lo mettevo in carico della sua coscienza, e di quella di [mia] madre». Accusa il marito: «mi à ferita tre volte se non baston due»; «in tre anni non mi aveva mai portato un tocco di pane». Poi c’era un debito del coniuge, di ottanta o cento scudi. Lei ha dovuto mantener casa, mamma e serva, sborsare soldi per vestirsi, calzarsi, e rimediare l’occorrente alla vita d’ogni giorno.
La lettera del 25 marzo 1751, scritta da Bologna, apre l’epistolario della Cavallucci con Bianchi, ma non è la prima da lei indirizzata al medico riminese, bensì la terza come lei stessa dichiara in un passaggio del testo. La mancanza delle due missive iniziali lascia irrisolto il problema di quando, e soprattutto come, sia avvenuta la loro conoscenza che sembra risalire ad un soggiorno riminese dell’anno precedente, stando almeno ai toni confidenziali che Antonia dimostra verso molte persone d’ambo i sessi dell’élite cittadina, delle quali elenca i nomi nel suo scritto. Non tutti i riminesi hanno però gradito la sua presenza, se lei parla con Bianchi di «Signori che erano tanto nostri nemici».
A Rimini Antonia Cavallucci ritorna nell’autunno dello stesso 1751 e vi resta sino al Carnovale del ‘52, durante il quale Bianchi le fa ufficialmente da protettore. Racconta Bianchi: un marchese forestiero di nome Giambattista aveva affidato la giovane alla protezione di un cavaliere riminese che però mancò alla parola data. Abbandonata dal cavaliere, e senza poter più ricorrere al marchese morto nel frattempo, Antonia è confortata da Bianchi: «presi a farle qualche assistenza, per la quale molto è stata onorata dai principali Signori di questa Città, non senza però una molta invidia de’ malevoli», confida Planco al padre di Giambattista. 31 bis
Lei ha presumibilmente sui venticinque anni (i figli d’arte debuttano presto, e lei lavora da dodici). Lui ne ha cinquantanove. Non si è sposato. Di amore ha parlato soltanto in quelle «boccaccevoli» novelle già ricordate. Si è dedicato con forse eccessiva ambizione soltanto alla carriera scientifica. La famiglia lo impegna con la malattia mentale di un fratello. Altri tormenti gli procurano colleghi e rivali, con continue critiche alle opinioni ed ai risultati scientifici che espone nei suoi scritti.
Al teatro di Rimini i nuovi spettacoli di Antonia Cavallucci (commedie in cui recita prevalentemente la parte della Serva), creano disordini ai quali si cerca di porre riparo con un bando del 25 gennaio 1752 che fa divieto al pubblico di salire sul palcoscenico per festeggiare l’attrice. Dell’esistenza di questo documento inedito c’informa la stessa artista con un generico accenno in una lettera a Bianchi 32. Ovviamente, nel bando è taciuto ogni riferimento ad Antonia Cavallucci, e si parla soltanto dello «sconcerto, che derivar suole dal trasferirsi le Persone in tempo delle Recite delle Comedie [...] sul palco».
(La data della pubblicazione del bando è una traccia che in modo inequivocabile porta ad Antonia Cavallucci, regina di quella stagione teatrale, come lo stesso Bianchi racconta in un passo dell’Arte Comica dove, a p. 24 dell’edizione a stampa immediatamente apparsa a Venezia, leggiamo che Rimini doveva avere «molto obbligo» verso di lei, perché con la sua «gentilezza, e grazia» aveva «quasi per un mezz’anno sulle Scene rallegrati onestamente gli animi de’ nostri Concittadini» 33. In un fascicolo miscellaneo conservato nell’Archivio Storico Comunale di Rimini 34 ho rintracciato l’inedito bando del 25 gennaio 1752 che mi pare possa pienamente corrispondere a quelli che la giovane chiama «editti sopra i Cantori», verso i cui effetti lei protesta la propria indipendenza, definendo i «Signori del festino» come «baroni fottuti» e «razze porche» 35. Le affermazioni di Antonia Cavallucci sono espresse con un impeto che, se nella forma epistolare ben rappresenta il suo stato d’animo, non chiarisce però quei particolari che, da un punto di vista cronachistico, tornerebbero utili al lettore odierno.)
Quando si arriva all’11 febbraio 1752, ultimo venerdì di Carnovale, con la serata ai Lincei e la dissertazione di Bianchi preceduta dall’esibizione dell’artista romana come cantatrice con accompagnamento di musica, c’è già dunque in città un clima avverso nei confronti di Antonia Cavallucci. Quel concerto, depurato dai trionfi banali dell’ordinaria presenza nei teatri, avrebbe dovuto recarle un onore artistico più solenne e duraturo della fama consueta sino ad allora conquistata. Nelle intenzioni del suo generoso ospite, doveva essere una specie di pubblica incoronazione fatta in nome dell’Arte e della Scienza, con un cerimoniale vagamente tardo-arcadico e certamente degno degli eruditi riunitisi non per cercare un divertimento qualsiasi, ma per testimoniare la perfezione della loro cultura, nel sussiego di quell’incontro accademico. Invece per Antonia Cavallucci è semplicemente l’inizio di altre giornate molto amare. Giovanni Bianchi l’allontana da sé, al fine di arginare quello che appariva un vero e proprio pubblico scandalo. Antonia Cavallucci è costretta a riparare a Bologna dal suo protettore che la munisce di presentazioni per amici, i quali avrebbero dovuto provvedere ad accoglierla e ad aiutarla.
Dopo il potere laico che aveva agito con l’editto «sopra i Cantori», contro di lei adesso si attiva pure quello religioso il quale indirizza alla Sede Apostolica lettere riservate. Le firma addirittura il vescovo di Rimini, Alessandro Guiccioli, inoltrando «illustrissime e reverendissime insolenze». Ne riferisce a Bianchi un suo corrispondente, Giuseppe Giovanardi Bufferli:

Se il Vescovo di Rimini non si fosse mai fatto ridere appresso dai Romani, ed avesse ad ogni modo desiderato di farlo, ora non potrà lagnarsi, che ciò non siagli riuscito, poiché delle sue stravaganze in proposito della Signora Antonia Cavallucci si è qui parlato quanto forse non sarassi parlato in Rimino 36.

Lei non riesce a capacitarsi del significato dello scandalo, avverte soltanto di essere stata ancora una volta sconfitta, come possiamo constatare dalla lettera scritta a Bianchi da Bologna il 24 febbraio ‘52, subito dopo la precipitosa partenza da Rimini:

Potrò ben dire di aver incontrato in questa Città di Rimino poca buona sorte, dove avendomi affaticata per acquistarmi qualche poco di benevolenza e gratitudine. In premio delle mie fatiche mi sono acquistata de’ malevoli, e delle perseguzioni, e trà li Amici che mostravano esser nostri sviscerati ed a mé favorevoli, non posso dire d’aver ricevuta nessuna cosa. Come volessi dire una cena o un pranzo. Ben, sia mercé la vostra bontà e carità non avea bisogno de’ loro pranzi. Solo mi rincresce d’esser partita di Rimino per voi.

L’attacco degli ecclesiastici contro Antonia Cavallucci è strumentale: in realtà essi vogliono colpire lo scienziato che l’ha accolta in città e che, con la propria scuola privata e con i rinnovati Lincei, è in stretta concorrenza rispetto al monopolio pedagogico dei religiosi. Bianchi, come ho già osservato nel capitolo precedente a proposito della questione sui mostri, è un intellettuale giudicato pericoloso per la sua dottrina scientifica che nega la perfezione della natura predicata nella filosofia aristotelico-tomista. Si è sempre dimostrato un dotto insofferente di qualsiasi disciplina imposta dall’autorità. Un carattere ironico ed irriverente fino all’insolenza più graffiante. Merita una lezione che lo metta in riga. O lo faccia tacere, almeno per qualche tempo. Alla fine, la manovra ecclesiastica approda ad un risultato di non scarso rilievo: la condanna all’Indice 37 dell’Arte comica, pronunciata il 4 luglio 1752.
La vicenda personale dell’artista romana, e quella del discorso dell’Arte comica s’intrecciano, agli occhi degli osservatori d’ogni parte d’Italia che, nelle loro lettere a Bianchi, gettano fango addosso alla povera Antonia Cavallucci con uno spregio che deriva soltanto dal fatto di trovarsi davanti ad una donna, la quale oltretutto vive calcando le scene, cioè in una condizione comunemente considerata di degrado morale e sociale 38. Lodovico Coltellini, un erudito cortonese, elogia lo scritto planchiano dell’Arte comica, ma ritiene inopportuno «lodare una bagasciuola, una puttanella dichiarata, che tali sono generalmente queste contrabbandiere, che millantano il nome di virtuose» del bel canto 39. (Come un personaggio goldoniano, Coltellini sentenzia: «le Donne ancor io le conosco abbastanza, e mi picco nell’istesso tempo aver avuto la fortuna, che niuna di esse Donne sia giunta a conoscer me», ed accusa Bianchi d’essersi fatto «coglionare addirittura» per una donna che meritava soltanto d’«essere mandata a far dei Bambini».) Il teatino padre Paolo Paciaudi, in un impeto caritatevole, chiama Antonia Cavallucci «infame sgualdrina» e «cortigiana svergognata» 40, d’accordo con il mentovato padre Concina, quello che definisce «putidulæ meretriculæ» le artiste teatrali. Per Giovanni Lami, editore delle celebri Novelle letterarie fiorentine, lei era, alla francese, null’altro che una «figlia di gioia» 41.
Qualche corrispondente planchiano equivoca sul ruolo di protettore svolto da Bianchi per Antonia Cavallucci, e lo crede coinvolto in una sorta di ridicola avventura amorosa che l’interessato nega con vigore. Nelle sue parole non c’è ipocrisia. In esse pare rispecchiarsi un dato di fatto obiettivo, forte più di ogni smentita: non aveva, il nostro Planco, né lo spirito né soprattutto l’età del vagheggino. Egli era preso soltanto dal suo ruolo di dotto che voleva sentenziare in ogni campo dello scibile umano.
Da Bologna, il collega Giuseppe Pozzi gli scrive di ritenere che «l’Amore nella vostra, e nella mia età non possa far che un nido assai disaggiato, pure merita compatimento, quando ne escono pulcini sì ben covati» 42, come quel discorso sull’Arte comica. Bianchi smentisce la teoria dell’innamoramento, e Pozzi gli risponde:

Che voi foste innamorato, o nò della Cavallucci non avete à rendermene raggione, e qual sia stato l’impegno vostro non cerco, non intendo che vi confessiate ora de’ peccati vostri. Unicamente, io alla buona vi dico che avete gittato il tempo, e che è meglio assai né impegnarsi né per maschij né per femmine 43.

Molti anni prima, forse Bianchi non avrebbe condiviso l’opinione di Giuseppe Pozzi, stando ad un’annotazione contenuta nei suoi Viaggi, relativa ad un soggiorno fiorentino del 1741, e che interpreto con una certa malizia: «con una Viniziana andai da certe fanciulle che stanno vicino alla Dogana una delle quali impara a cantare, e l’altra a dissegnare» 44. Queste «certe fanciulle», come ho già osservato in altra comunicazione degli «Studi Romagnoli» 45, richiamano alla mente i «certi posti del castello» dove l’Innominato manzoniano faceva «una consueta visita» (I promessi sposi, cap. XXI).
Quando Planco la conosce, Antonia Cavallucci è già esperta come cantatrice. Forse egli si illude di farle apprendere anche l’arte del vivere, ma in questo campo Bianchi non può insegnare alcun comportamento diplomatico, lui che affronta le questioni non curandosi delle conseguenze che nascono dalle sue posizioni rigide od accesamente polemiche. Se aveva pensato di farsi educatore di una fanciulla che non sapeva scrivere come le rimproverava (ma lei, a suo vantaggio, aveva una non indifferente, istintiva capacità d’interpretare la realtà umana), Bianchi dovette rimanere insoddisfatto: dopo la fuga da Rimini, Antonia Cavallucci si ribella 46, per poi subito pentirsi, con la franchezza e la spontaneità di una figlia che contesta il padre, al quale vuole opporsi per sentirsene lontana non soltanto sul piano fisico, ma pure su quello psicologico. Sembra che lei voglia affermare la propria indipendenza, orgogliosamente, proprio nel momento in cui ha maggiormente bisogno degli aiuti di Bianchi e dei suoi amici a cui lei inutilmente si rivolge con le lettere di presentazione che il medico le ha consegnato al momento di allontanarla da Rimini.
Giovanardi Bufferli chiama «lodevole» il contegno assunto da Bianchi «nel rimettere a Bologna con tanta sollecitudine la medesima Signora Antonia». Invece una nobile ex allieva di Planco, la bolognese Laura Bentivoglio Davìa, censura l’antico maestro: «Da tutt’altri, che da un Grande Filosofo, qual è il Sig. Bianchi mi sarei aspettata una Raccomandazione per una Comica, o sia Cantatrice, quale per due volte si portò da me domenica prossima passata senza trovarmi» 47. Laura Bentivoglio era stata relegata dal marito, Francesco Davìa, uomo dalla vita sregolata e stravagante, presso il proprio fratello vescovo di Rimini, il cardinale Giovanni Antonio Davìa, dal ‘22 al ‘26. Con sé aveva portato il figlio Giuseppe che, nato nel 1710, fece il suo tirocinio scolastico con Planco 48. Questa sua infelice condizione famigliare avrebbe potuto consigliare a Laura Bentivoglio un atteggiamento di benevolenza verso un’altra donna che bussava alla sua porta per chiedere aiuto: ma il sangue aristocratico reclama i suoi diritti nel trattare il prossimo di condizione doppiamente inferiore (una plebea, e per giunta «Comica»), con una condotta di solenne disdegno che fa parte di certi rituali sociali consueti a quel tempo.
Della sua permanenza a Rimini, Laura Bentivoglio non aveva conservato un buon ricordo: «Il mal animo de Riminesi contro di me o per meglio dire contro al loro prossimo in generale, che per verità è tale; non mi giunge nuovo avendolo riconosciuto dal primo giorno, che la mala sorte qui mi portò», aveva confidato a Bianchi il 29 settembre 1722. Anche se Laura Bentivoglio godeva di privilegi sociali inaccessibili alla povera Antonia Cavallucci, le due donne sono accomunate da un analogo sentimento che sfocia nello stesso giudizio negativo verso la città in cui sono vissute. Il che dà un significato meno soggettivo (o capriccioso) allo sfogo dell’attrice, che abbiamo letto in una sua missiva a Bianchi («Potrò ben dire di aver incontrato in questa Città di Rimino poca buona sorte...» 49).
A Bologna Antonia Cavallucci ha recapitato le raccomandazioni che Planco aveva compilato per lei:

tutti cortesemente sono venuti a favorirmi in nome di V. S. esibendosi ogni uno per favorirmi, ma fin ora nessuno mi à dato niente. [...] Sono a dirli che non sarò mai per scordarmi mai per li tanti obblighi, che ne tengo, che non solo mi avete onorata in Rimino, ma non tralasciate tuttavia di beneficiarmi anco da lontano, benché non abiate nessun obligo meco: ma fu tutto eccesso del suo bel core, e di vostra gentilezza.

Antonia Cavallucci accusa Bianchi di averla allontanata da lui e dalla città. Al rimprovero unisce l’implorazione: «Solo mi rincresce d’esser partita di Rimino per voi, che spero di vedervi ben presto in Bologna per mia consolazione, e per dispetto de’ miei malevoli». L’incertezza del futuro è la nota dominante di queste lettere, insieme alla difficoltà di decifrare i comportamenti dei suoi interlocutori che appaiono indifferenti, avvolti nei loro galatei di casta ed avvinti ai loro pregiudizi nei confronti delle donne. «Averò per me prima Idio e poi il mio Giovanni Bianchi», gli scrive il 18 marzo, quando chiede scusa delle proprie sciocchezze e «male grazie» espresse nel messaggio precedente. Vive nella miseria più umiliante: «mi raccomando a lei per pietà fate da quello che siete e da quello che siete stato». Implora Bianchi: «aiutatemi per l’amor di Dio: lo domando per carità e baciandole di nuovo le mani unita alla Signora Madre» (22 marzo); «e pure mi prometeste in Rimino, che qualche volta mi avereste soccorso di qualche carità, e questo lo potreste ancor fare», scrive il 12 aprile bussando a soldi: «in virtù della mia fedeltà, e dell’amore che mi avete portato ve li domando, fate conto di dar tante messe alle anime del Purgatorio, ed io pregharò Idio per la di lei salute».
Gli amici bolognesi di Bianchi sembrano divertirsi con questa ragazza, inesperta dei più riposti aspetti delle convenienze sociali, e paiono prenderla in giro con le loro formalità da salotti aristocratici: «questo signore vi lasciò detto, che io volevo far l’amore con lui, se pure questo sia vero: perché avendo io domandato, a persona, che lo conosceva perché lui non sia venuto più, mi rispose, che non voleva più venire perché io voleva fare l’innamorata seco» 50. La verità è che quel «signore» ha già «in casa» propria una donna, «per la qual cosa io non mi attento d’andarci», spiega Antonia Cavallucci con un’ansia di liberarsi da accuse e sospetti, che affastella i concetti, e produce un testo sconnesso. Tutto il suo discorso si riduce ad allontanare da sé quell’accusa di voler «far l’amore», che non sembra nemmeno indignarla, tanto è pratica comune per lei, sola e povera, esser considerata semplicemente come infimo strumento per appagare un desiderio.
All’inizio di maggio, Antonia Cavallucci si trasferisce a Ravenna, dove riesce ad ottenere una scrittura come cantante d’intermezzi: «spero in Dio di non far più la comica perché sono poco stimata. La musica, è più decorata, e virtuosa». Per sette anni continui il suo mestiere è stato quello di cantatrice: soltanto «per non fare la puttana mi è convenuto fare la comica».
Da Ravenna qualcuno informa Bianchi che la casa della ragazza è frequentata da troppi giovani. «Non mi mortifichi più con questi abatini e zerbinotti», sbotta Antonia Cavallucci, dopo aver smentito i presunti incontri amorosi: sono tutte storie inventate da un «contrario» di Planco, che lui ben conosce. I pochi amici che la frequentano, sono gente perbene e si comportano «con tutta proprietà e cortesia». Le insinuazioni di Bianchi sono nate dalle notizie bolognesi ricevute da Giuseppe Pozzi il quale gli ha scritto che la donna «avea sempre la casa piena di gente di poco credito, e s’era scelta per protettore» un conte «di pochi denari, e atto più a far l’amore che a proteggere».
Antonia Cavallucci si lascia andare ad una confessione amara:

godeva la mia quiete, e doppo che vi conobbi non ebbi un’ora di pace, che è vero, che mi avete regalata... ma so io li spasemi, e rancori che provava solo nel vedervi: perdonate: io questo non voleva scriverlo, ma voi mi mortificate senza motivo. Egli è di bene che ancor io vi dica la verità 51.

Nella stessa lettera la giovane scrive:

Se le vostre finezze le vendete a prezzo di rimproveri e di lagrime, vi dico che potete fare a meno di favorirmele: io per me non so capire la vostra intenzione e il vostro umore, o vero, che io sono volubile, ma voi scusatemi, non mi conosciete né alla digiuna, né alla satolla; mi meraviglio di voi, che trattate così con me dopo avermi mostrato tanto parziale e favorevole, starei per dire che mostrate tutte finzioni.

«Mostrate tutte finzioni». Detta da un’attrice comica, è una bella battuta. La giovane ha del temperamento. Il dottore lo sa, ma ora non può perdersi in ciance. D’improvviso torna al suo ruolo di severo pedagogo, dimentica di esser stato un cavalier servente forse ingenuamente adorabile, e financo troppo arrendevole, ma in sostanza placido e pertanto innocuo. Deve seguire le vicende romane dell’Artecomica. Non c’è tempo per le stravaganze di una donna. Di una ragazza. Di un’attricetta, infine. Che male c’è nell’ipotizzare che anche Planco partecipasse dei pregiudizi più comuni dei contemporanei?
L’ultima lettera di Antonia Cavallucci a Bianchi è del 2 dicembre 1753: «stimai che lei non agradisse più la mia Amicizia, o per dir meglio la mia servitù». Dichiara di non aver obliato «la memoria per i tanti favori, e grazie ricevute, ma da me non meritate»; e prega il «riveritissimo signor Dottore» di farla degna di sue nuove corrispondenze.
Bianchi la rincontra soltanto dieci anni dopo, a Sinigaglia, il 23 luglio 1763, durante la tradizionale fiera alla quale partecipavano i migliori librai italiani 52. Antonia Cavallucci non ha più «quello spirito» dimostrato «in Rimino», annota Planco: «Vidi che era miserabile non avendo nemmeno un fazzoletto per asciugarsi il sudore del viso» 53.
Il senso di una condizione umana emerge dall’annotazione sopra un oggetto che, nella sua assenza, assurge a simbolo di un decoro che, anch’esso, non c’è più. E che sembra sopravvivere unicamente nello sguardo inutilmente compassionevole con cui il vecchio dottore osserva quella donna, la quale altro argomento di conversazione non sa trovare se non quello che riguarda lo scarso compenso percepito per quelle recite: «l’opera era una cosa ladra in tutto e per tutto».


4. «Nessuno si accorga che sei donna»: Teresa, anzi Bellino

«L’impresario del teatro è uno scellerato che non ha voluto darmi più di cinquanta scudi romani per tutto il carnevale. Li abbiamo spesi per vivere, e se vorremo tornare a Bologna saremo costretti a viaggiare a piedi o a chiedere l’elemosina». Non sono altre parole di Antonia Cavallucci, ma di un personaggio che appare nelle Memorie 54 di Giovanni Giacomo Casanova: una madre che soggiorna ad Ancona, nel febbraio 1744, accompagnando quattro giovanissimi figli artisti, due femmine, un maschio ed «il preteso Bellino», cioè un finto castrato la cui storia emerge lentamente nelle pagine che descrivono il viaggio dell’autore in sua compagnia verso Rimini.
Teresa, dodici anni, è figlia di un «povero impiegato all’Istituto delle Scienze di Bologna» che teneva a pigione il celebre castrato Salimberi. Costui «manteneva a Rimini, presso un maestro di musica» un coetaneo di Teresa di nome Bellino che il padre aveva fatto evirare sacrificando all’altare della propria miseria la sua virilità, «in modo che con la voce potesse mantenere i fratelli». Teresa, rimasta orfana del padre, è accompagnata da Salimberi a Rimini nella stessa pensione in cui egli «faceva educare» Bellino. Al loro arrivo in città, essi apprendono però che «Bellino era morto il giorno prima». Salimberi decide così di condurre Teresa a Bologna sotto il nome di Bellino, e di sostenerla economicamente «a pensione presso la madre del defunto la quale, essendo povera, avrebbe avuto interesse a mantenere il segreto».
Il patto segreto di Salimberi con Teresa era che, dopo quattro anni di studi, lei sarebbe stata chiamata a Dresda («Salimberi era al servizio dell’elettore di Sassonia e re di Polonia»), «non come una fanciulla, ma come un castrato»: «L’unica tua cura», le impone Salimberi, «dovrà essere quella di fare in modo che nessuno si accorga che sei donna [...], prima di lasciarti, ti darò un piccolo arnese 55 e t’insegnerò ad applicartelo in maniera che, se mai dovessi sottoporti a una visita, ti si possa facilmente scambiare per un uomo».
Teresa racconta a Casanova anche il seguito della sua avventura artistica e del suo dramma umano:

Ho fatto solo due teatri, e ogni volta mi sono dovuta sottomettere a esami vergognosi e umilianti; infatti, tutti dicono che ho un aspetto troppo femminile, e sono disposti a scritturarmi solo dopo aver avuto la prova infamante. Finora per fortuna, ho avuto a che fare solo con vecchi preti, che in buona fede si sono contentati di un esame superficiale in base al quale hanno fatto il loro rapporto al vescovo; ma potrebbe capitarmi di essere visitata da dei giovani, e allora l’esame sarebbe molto più approfondito. Inoltre sono continuamente esposta alle persecuzioni di due specie di invidiosi,

quelli che non la credono un maschio, «e quelli che, per soddisfare dei gusti abominevoli, si rallegrano che lo sia o trovano il loro tornaconto nel credermi tale». Questi ultimi sono la sua ossessione: «Le loro passioni sono tanto ignobili, i loro vizi così turpi, che a volte temo di pugnalarne qualcuno nell’impeto incontenibile provocato dalle loro infami proposte».
Il racconto tramandatoci da Casanova c’introduce ad un aspetto della vita sociale del 1700, sul quale presento un documento inedito in cui si narra una vicenda opposta a quella di Teresa. Se il vero Bellino aveva dovuto subire l’operazione per volere paterno, il ragazzino di cui leggeremo subiva il fascino dell’evirazione per soddisfare l’ambizione della carriera musicale prospettatagli da un Maestro di Cappella cesenate, contro i desideri dello stesso genitore, Francescantonio Forani, che conosceva bene l’argomento essendo chirurgo (all’epoca esercitava a Cervia).
Il ragazzino ha una bella voce che vorrebbe mantenere nella crescita, facendo ricorso a quella pratica per la quale il padre, il 25 settembre 1756, chiede lumi all’onnipresente Giovanni Bianchi:

Le persuasioni di V. S. Ill.ma indicatemi sopra la castrazione di mio Figlio, procuraj d’imprimerle nella mente del medesimo, ma dove mi lusingavo, che avessero fatto il loro effetto, ora vedo, che a nulla hanno giovato, ma più tosto con più calore stà fisso, e fermo di farsi castrare, a segno talecche si è protestato col Mastro di cappella di Cesena, che lo fù a trovare, in occasione, che il medesimo era qui in Cervia, che se io non lo facevo castrare, egli stesso si voleva fare la funzione quantunque conoscesse il pericolo d’incorrere alla morte. Sentita tale risoluzione, ricercaj il suddetto Mastro di cappella, se poi il ragazzo sarebbe riuscito di buona voce, egli soggiunse, che non aveva mai trovato un figliolino di nove anni, come il medesimo hà, di sì esquisito orecchio, con voce sì perfetta al contralto, al quale con artificiosa arte vi unisce il falsetto senza alcun scomodo, e che infallantemente riuscirà un buon musico, tantopiù che hà la vivacità d’un onesto spirito, e però mi consigliava a farlo castrare nel venturo Maggio, affinché il ragazzo non avesse da venire ad una risoluzione dannosa. Sentendo tutto ciò, mi piegaj a prometterli, che per il venturo maggio avrei fatto ogni sforzo per consolarlo, e tanto mi conviene eseguire per consolare ancora la madre, la quale teme, che il ragazzo venga alla sunominata risoluzione 56.

Il miglior «Norsino» sta in Bologna, spiega Forani a Bianchi:

ma alla gravosa spesa non posso arivarci, non solo per la operazione, quanto per tenerlo in Bologna, finche sia sanato. Penso di far venire qui quel Norsino, che stà in Faenza ma temo, che non sia del tutto esperto. Non sò, se in cotesta Città [Rimini] vi sia Norsino capace, Ella lo saprà.

Forani interpella anche il medico primario di Sinigaglia, Battaglioni, il quale lo informa che il Norsino Salimbeni «è soggetto molto esperto in fare le operazioni della Castrazione», ma non si sa dove ora abiti 57. Due anni dopo, nel ‘58, quel fanciullo vorrebbe entrare nella Cappella dei Francescani di Assisi, ma non c’è posto fino al 1760, per cui Forani tenta di instradarlo a Ravenna 58. Non sappiamo nulla sull’operazione: il piano di avviarlo in Cappella può forse autorizzarci a propendere che essa sia lietamente avvenuta.
In margine alla vicenda del giovane figlio del chirurgo Forani, vien da fare una considerazione che esula dall’argomento centrale di questa ricerca. Norcino è detto comunemente il castratore di maiali, anche se la Storia della Medicina (come mi precisa cortesemente il cit. dottor De Carolis), ne conserva il ricordo quale chirurgo-barbiere (così chiamato in omaggio della città di Norcia), noto per l’abilità in operazioni più modeste di quelle riservate al vero e proprio chirurgo: e dato che l’Italia ha le sue piccole patrie, oltre a Norcia la Storia medica celebra Borgo alle Preci (vicino a Visso), da cui arrivavano i preciani, colleghi in tutto e per tutto dei norcini. A proposito dei quali, comunque, si osservi, nell’uso del termine e soprattutto nella pratica medica, l’equiparazione del fanciullo alla bestia, assieme alla ferocia di una mentalità che ricorre alla stessa operazione chirurgica sia per l’animale sia per l’uomo, manifestando il più profondo disprezzo per l’integrità fisica del secondo, proprio in un ambito come quello religioso dove sempre il corpo è stato considerato sacro perché custode dell’anima. Ma il libero arbitrio ha permesso in quei tempi di non considerare inviolabili le appendici corporee che la stessa Bibbia ci spiega destinate ad essere utili alla procreazione oltre che al piacere, e non a doverne subire il taglio per rallegrare gli amanti della musica e soddisfare certe perversioni, non soltanto culturali, di quanti deliravano per gli «evirati cantori».
Nella vicenda del giovane Forani, troviamo però anche un aggancio al discorso più generale di queste pagine. Esso consiste nel fatto che vi si palesa un’autorità terza che si sostituisce a quella paterna, la prevarica in nome di qualche cosa (la Religione? la Musica?) che è ritenuta più importante del ruolo stesso del genitore, a cui è tolta la potestà giuridica sul figlio, che avrebbe potuto difenderlo da quell’«esecrabile e fiero misfatto» di cui parla Giuseppe Parini nell’ode La Musica.
Parini fa alcune osservazioni di carattere morale, che è opportuno considerare ancor oggi, per comprendere lo spirito del tempo in cui il «misfatto» avveniva: esso cambiava «gli uomini in mostri», prostrando la loro dignità, in nome non dell’errore ma del vizio con un’infamia che agguagliava i genitori responsabili «ai barbari». (Ed ai genitori, dovremmo aggiungere altri personaggi, come nel nostro caso il «Mastro di cappella» cesenate.) Lo stesso tono di condanna presente in Parini, ritroviamo nei più noti versi foscoliani dei Sepolcri, là ove si ricorda proprio l’autore del Giorno, e si chiama Milano «lasciva d’evirati cantori allettatrice».
Il giovane Forani e la piccola Teresa dimostrano, nelle loro realtà personali, i segni dolorosi di una condizione di degrado morale che la grande poesia tra ultimo Settecento e primo Ottocento denuncia, fedele interprete di una coscienza civile con cui si rinnegano le costumanze dell’antico regime, consacrate da un apparato ecclesiastico che si mostrava ignaro del vero, profondo senso del Cristianesimo. E che, con quelle burocratiche visite corporali dei «vecchi preti», richiama ancora una volta alla mente un passo manzoniano che ha per protagonista Gertrude: «L’esaminatore fu prima stanco d’interrogare che la sventurata di mentire».


5. «Povera, ma onesta e buona»: Serafina Mularoni

Un’altra giovane «educanda» come la Teresa di Casanova, è protagonista discreta e segreta di numerosi documenti epistolari, dai quali la sua figura emerge soltanto come un’ombra dai contorni evanescenti, quasi indecifrabili. Si chiama Serafina Mularoni. Non appare mai in prima persona. Da alcune fonti che la riguardano, sappiamo che pure lei scrisse delle lettere per parlare della propria vita, ma nessuna di esse è giunta sino a noi, attraverso il vaglio di quella schiera composita fatta di eredi, collezionisti o bibliotecari domestici che talvolta privilegiano soltanto le figure importanti, condannando quelle minori all’oblio dell’indifferenza.
Serafina Mularoni inizialmente è avviata in uno di quei collegi (detti «conservatorj») dove si cercava di dare alle ragazze orfane od illegittime una formazione artistico-musicale per una carriera dignitosa che le riscattasse dalla condizione d’origine, ma che tale sovente restava soltanto nelle speranze e nelle illusioni, come s’è visto con Antonia Cavallucci e come accade per la stessa Serafina Mularoni. A Venezia, di questi «conservatorj» allora ne esistevano quattro: presso l’Ospedale della Pietà, l’Ospedaletto, gli Incurabili ed i Mendicanti 59. I nomi di questi ultimi due ricorrono nella vicenda di Serafina Mularoni la quale, però, non essendo né orfana né illegittima, deve pagare una regolare retta, a cui sembra provvedere, come vedremo, anche il poeta riminese Aurelio De’ Giorgi Bertòla: questi però naviga in brutte acque (impietosamente agli amici dichiara apertis verbis la propria miseria 60), ed ha una grave malattia, mentre lo inquieta l’evolversi della situazione politica e militare che esporta anche in Italia, con le armate napoleoniche, gli effetti della rivoluzione francese.
Alla ricerca di un impegno economico meno gravoso per lui di quello richiesto dai «conservatorj» veneziani, Bertòla colloca in un secondo momento, e per breve tempo, Serafina Mularoni in un monastero pesarese. Alla fine è però costretto a convincerla di rinunciare all’idea di prendere l’abito (forse con somma gioia della giovane), non potendo egli trovare nessun aiuto nella famiglia di lei, povera gente che abitava a Verucchio. E così Serafina Mularoni diviene la governante dello stesso poeta, durante i lunghi mesi della sua malattia, prima di trovar marito e di cambiare (almeno si spera) completamente vita.
Mi sono imbattuto nei primi, anonimi accenni a questa giovane consultando il carteggio intercorso fra Aurelio Bertòla ed Ippolito Pindemonte 61, mentre anni fa svolgevo ricerche approdate poi ad alcuni saggi sul poeta riminese 62: «Sono stretto a pigliar contezza del come si possa collocare in alcuno di codesti conservatorj una fanciulla che ha straordinaria abilità pel canto, ignorando però la musica», scrive Bertòla il 16 dicembre 1794 da Rimini (PL, 154) a Pindemonte il quale, undici giorni dopo, il 27 dicembre, gli risponde da Venezia (PL, 132-133):

Sarà ricevuta ne’ Mendicanti, benché forestiera, la fanciulla, di cui mi parlate, ma converrà che abbia di suo il letto, e qualche cosa per fornirsi la stanza, e che paghi tre lire al giorno all’incirca alla Priora del luogo: così fu ricevuta, non ha molto, una fanciulla Tedesca.

Il 10 gennaio 1795 (PL, 133) Pindemonte precisa amaramente che le condizioni per accedere ai Mendicanti sono più gravose:

Malvolentieri scrivo questa lettera, la quale non piacerà forse alla Persona, che desidera entrare in uno di questi Conservatorj. Io vi scrissi che un letto e ciò che occorre in una cameretta, e 3. lire al giorno per la dozzina bastavano, perché così mi fu fatto credere alla persona del Magistrato, alla quale io m’era rivolto. Questa, meglio informata di poi, mi fece intendere che la cosa è tutt’altro: ecco la nota, ch’io ne ebbi, la quale mi pare la più indiscreta e strana cosa del mondo.
Per le spese, 3
Lavanderia a spese proprie
Portar sua biancheria, letto, tovaglioli, ec.
Tre Regalìe, cioè a Pasqua, Natale e in Agosto a piacimento
Per la scuola di canto 44. ogni 12. lezioni
Per la scuola di suono 22. ogni 12. lezioni
Se le condizioni piacessero ancora, non v’è altra difficoltà.

Pindemonte ritorna sull’argomento il 24 gennaio (PL, 133), lasciandoci intravedere che Bertòla ha tentato di giocare al ribasso sul costo delle rette:

Intanto ebbi tutto l’agio per il noto affare, ma fu inutile ogni cura, ogni discorso, ogni raccomandazione. L’articolo spese è inalterabile: quanto alla scuola di canto, l’aggravio sarebbe assai piccolo finché si trattasse degli elementi, ma voi vedete che ciò non sarebbe che per poco tempo: terminati gli elementi, la maestra ch’è appunto persona del Conservatorio, e si chiama Bianca Sacchetti, di cui forse qui avrete inteso parlare, non vuol meno di due zecchini pel canto, e d’uno pel suono: e così fu ricevuta quella fanciulla tedesca, di cui vi parlai. Aggiungete che entrando convien pagare per una volta Ducati quaranta, i quali ho fatto con grande stento che siano ridotti a trenta: questo nuovo aggravio che mi fu comunicato solamente dopo scrittovi l’ultima mia, rende forse importabile l’intiero peso delle condizioni, del che io non posso dirmi quanto vada dolente; e vi giuro che non ho mancato di premura e d’ardore, ed Isabella 63 è testimonio così della mia sollecitudine, come della irremovibilità del Magistrato.

Facendo ancora i conti con i preventivi delle spese presso i Mendicanti, forse sollecitato dallo stesso Bertòla, Pindemonte propone di collocare Serafina Mularoni negl’Incurabili, scrivendogli il 7 febbraio (PL, 134):

Quando la nota Fanciulla si contenti d’una maestra men brava, troverà negl’Incurabili condizioni molto migliori. Nulla darà per l’ingresso: la spesa giornaliera monterà a 50. soldi, ma senza la colazione, cioè pranzo e cena. La maestra non chiede che Lire 24. così pel suono come pel canto, ed una gratificazione a Natale e a Pasqua, già supposto che non s’ignori lo scrivere e il leggere della Fanciulla. Voi vedete che questo luogo pio è assai più pietoso dell’altro: ma, come ho detto, non vi si ha una scuola ugualmente buona.

Dalla successiva lettera di Pindemonte (28 febbraio) ricaviamo che la scelta di Bertòla cade proprio sugli Incurabili: «Godo che la fanciulla siasi nicchiata costà: non perché io non fossi disposto ad impiegarmi ancora per Lei, ma perché credo esser ciò, che per Lei già si è fatto, il suo meglio» (PL, 135). Al che Bertòla gli risponde da Rimini il 23 marzo: «Quanto al Conservatorio, mi sarà gratissimo che rannodiate, e che mi scriviate l’occorrente; dove ciò non vi gravi soverchio» (PL, 155). Il 28 marzo Pindemonte (PL, 136) invia una notizia che non dovette risultare lieta per il poeta riminese: oltre le «due lire e mezzo pel mantenimento, non compresa la colazione, il letto 64 e ciò che in una camera occorre», ed «il regalo di lire ventiquattro mensuali alla Maestra di suono e di canto», occorreva pure pagare all’entrata nel conservatorio ben dodici ducati, come da recentissima risoluzione. «Che volete che vi dica?», conclude Pindemonte quasi giustificandosi: «Venuta prima, non sarebbe stata soggetta la Fanciulla a tal peso. Potrà, venendo, presentarsi a S. E. Vincenzo Albrizzi a S. Aponal: egli è uno del Magistrato». Per farla accettare, precisa Pindemonte il 18 aprile (PL, 137), occorrono «le fedi de’ buoni costumi, e di battesimo», mentre «il pagamento della dozzina sarà concertato, giunta che sia la Fanciulla, ne’ modi più convenienti, né vi sarà da dire su ciò. Facilmente si avrà il Maestro o Maestra di leggere e scrivere, e probabilmente nel Conservatorio stesso».
I contorni della figura di questa «Fanciulla» affacciatasi finora enigmaticamente nell’epistolario tra Pindemonte e Bertòla (che non ne citano mai il nome nelle loro lettere), si precisano meglio attraverso un messaggio che il poeta riminese scrive l’anno successivo, il 5 aprile 1796, a Biagio Giuccioli 65 di Verucchio, dichiarandone l’identità anagrafica:

Vi sarà forse noto che per mio mezzo fu procurato un posto al miglior conservatorio 66 di Venezia a una giovane verucchiese dotata di voce bellissima, povera, ma onesta e buona. La medesima chiamasi Annunziata Serafina Mularoni, figlia 67 di quel falegname monco e malconcio tutto, che costì vive. Fra i requisiti che l’anno scorso furono esibiti all’ingresso nel Conservatorio mancava la fede della cresima, e vi si passò sopra. Oggi all’occasione di un nuovo registro o rivista delle carte si chiede detta fede, e me ne viene fatta ricerca. Conviene pertanto che io vi prieghi di volermi compiacere di fare levare siffatta fede io non so di qual anno, certo cinque o sei anni addietro, e di mandarlami, indicandomi la spesa occorsa.

Quest’ultima lettera contiene anche un’annotazione importante per comprendere i meccanismi di promozione sociale che istruzione ed educazione rendevano allora possibile ad una ragazza del volgo come la nostra «Fanciulla». Una volta che vi fosse stata avviata, poteva anche succedere che avessero buoni esiti l’intenzione di farla uscire dalla sua miseria, ed il tentativo di inserirla in una condizione di vita migliore. Purtroppo, come ho già anticipato, non è questo il caso di Serafina Mularoni, sbattuta in giro per l’Italia, dai «conservatorj» ai monasteri, prima di approdare al ruolo di governante presso il suo protettore. Ruolo per il quale non ci sarebbe stato alcun bisogno né di un soggiorno veneziano né di raccomandazioni autorevoli, come si vedrà, allo scopo di avviarla a prendere l’abito. Scriveva dunque Bertòla a Biagio Giuccioli: «E poiché la giovane ha in gran parte cambiato stato, e vive in uno stato di persona superiore d’assai a quello della sua nascita, vogliate aver la bontà di far decorare la detta fede del titolo di Signora».
In queste parole si avverte anche l’orgoglio di chi, riuscendo a collocare negli studi una fanciulla «povera», si sente l’artefice di quella promozione sociale che, sotto un altro aspetto, dovette essere un tema autobiograficamente significativo per Bertòla, avviato in tenera età al sacrificio di una monacazione forzata proprio per la miseria che nel suo nobile focolare impregnava ogni gesto quotidiano. Bertòla preferisce godere da solo di questo sentimento di orgoglio, dato che avverte il destinatario della missiva: «Mi sarà caro se in questa commissione non vorrete nominar me, giacché trattandosi di fanciulle, i poeti non hanno così buon concetto quant’io amo di averne alla presente mia età. Voi poeta e uom di toga 68 ad un tempo siete al di sopra delle malignità».
Non va pure dimenticato che la discrezione che il poeta invoca non dipende soltanto da questa sua qualifica professionale, ma principalmente dall’esser Bertòla consapevole che il suo passato di noto seduttore libertino poteva lasciar adito ad ogni maldicenza, della quale avrebbe fatto le spese l’innocente giovane per cui egli si adoprava anche con mezzi finanziari propri, in un momento nel quale apertamente, come si è già visto, confessava ad amici e corrispondenti una condizione di miseria che ho altrove indagato e descritto 69.
Tutta la luce che si proietta sulla nostra «fanciulla povera», è soltanto quella che vi si riflette dalle pagine bertoliane che ho finora citato e da quelle che introduco ora, e che sono del tutto inedite: un Diario 70 della cui scoperta ho dato notizia nel 1994, ed una missiva del 12 novembre 1796, contenente consigli indirizzati a Serafina Mularoni, nella cui struttura letteraria e tecnica di composizione si possono cogliere molti spunti utili a comprendere la psicologia del poeta riminese.
Nel Diario la ragazza non è mai ricordata con il proprio nome o cognome, ma con un mutamento del nome in cognome, «Serafini». Che si tratti della medesima persona, e che questa «Serafini» non sia altri che Serafina Mularoni, si ha conferma dal confronto tra la copia della missiva bolognese del 12 novembre 1796 diretta alla «Gentilissima Signorina Serafina» (FPS 63.165) e la relativa annotazione che troviamo nel Diario, dove Bertòla registrava con telegrafici appunti la corrispondenza spedita. Sotto la stessa data del 12 novembre 1796 leggiamo infatti: «Serafini: con riflessi sulla solitudine». Ed il tema affrontato in questa lettera è appunto quello della «solitudine».
Circa il motivo per cui Bertòla ricorre a questa deformazione del nome in cognome, verrebbe da pensare all’intenzione del poeta di tener celata a qualche possibile, ignoto lettore (contemporaneo o postumo) la vera identità della fanciulla, sempre per non compromettere con la propria fama di voluttuoso amante l’innocente verucchiese, per la quale pensava, come ho anticipato, anche alla collocazione in un monastero. A questi fattori di galateo sociale, aggiungerei anche quelli relativi ai timori politici che affannavano in quei momenti la vita di Aurelio Bertòla. Reduce dall’insegnamento pavese sotto il governo austriaco, viveva a Rimini in territorio pontificio, e godeva di fama da filofrancese. Quando scrive quei pensieri sulla «solitudine», Bertòla è ammalato a Bologna 71, dopo essere partito da Rimini il 21 ottobre diretto non a Pavia, come aveva lasciato credere ai suoi corrispondenti, ma a Firenze che era governata da Ferdinando III di Lorena, fratello dell’imperatore d’Austria Francesco II. Nel progetto di Bertòla, Firenze doveva essere soltanto una tappa intermedia di un viaggio da concludere a Vienna (dove era ben conosciuto), per sottrarsi alla caccia ai giacobini avviata in Romagna tre giorni prima che egli se ne andasse dalla propria città. Anche Bertòla, dopo che il papa aveva chiamato a raccolta il 4 ottobre i sudditi «a difesa dei suoi Stati», correva il rischio di essere incarcerato come sostenitore dei francesi, per la nomea di «illuminato» acquisita dopo i due discorsi massonici di Milano dell’88 (che però nulla avevano di rivoluzionario sia nelle intenzioni sia nelle parole: ma ogni potere autoritario considera pericoloso dissidente chi non condivide banalmente l’ortodossia).
Attorno alla collocazione di Serafina Mularoni in un monastero, nel Diario al 5 novembre 1796 abbiano una doppia nota sull’argomento; la prima è per una lettera a Rosa Raggi 72, dove leggiamo: «Che persuada Serafini che né i parenti né io possiamo farle l’abito»; la seconda riguarda la missiva inviata alla stessa «Serafini»: «Che l’abito non può farsi, e ripieghi: viva lieta e badi alla musica: mia povertà».
I pensieri sulla «solitudine», come ho già indicato, sono di pochi giorni dopo, del 12 novembre 1796. Essi appaiono (absit iniuria verbis) come un capolavoro di ipocrisia più esistenziale che letteraria. Bertòla li compila fingendosi pedagogo distaccato dalle contingenze materiali, ma ingannando con la sottile perfidia di chi conosce la verità del vivere e cerca di mascherarla o soffocarla inventando dei precetti che avrebbero dovuto guidare l’«educanda», proprio nel momento in cui costei scopre attraverso le sue inquietudini che è impossibile condensare in due paginette d’un vademecum i rimedi a tensioni e pulsioni che turbano ogni apprendistato giovanile. Ad unica difesa del poeta, si può ipotizzare che egli sognasse veramente, in quei giorni, il distacco e la «solitudine» che predica, come rimedio al travaglio tra individuale e collettivo che lo agitava per effetto delle turbolenze francesi.
Nei pensieri sulla «solitudine», Bertòla si offre quale sostituto del padre, indossa machiavellicamente abiti solenni, e recita un personaggio tutto inventato, impostando la voce sull’intonazione musicale adatta ad una predica dal pergamo. Ma alla fine, il lettore che ne conosce le vicende generali della vita improntata ad una sensualità sfrenata 73, deve notare come la solennità del tono usato dal poeta risulti solamente un fatto spettacolare, insignificante come un baldacchino da processione abbandonato alla conclusione del rito, senza più fedeli, canti o preghiere. Serafina Mularoni (per quanto potesse essere sprovveduta ed illetterata), non poteva non avvertire l’artificiosità dei discorsi del suo educatore che voleva convincerla là dove non esistevano argomenti adatti allo scopo, cioè voleva costringerla affinché si rassegnasse a subire il destino, non soffrisse per la sconfitta e si armasse del più placido e rassegnato spirito religioso atto a neutralizzare ansie e speranze. Questo è il documento bertoliano del 12 novembre 1796:

Gentilissima Signorina Serafina.
Io doveva partir oggi, come le scrissi: ma diverse combinazioni mi hanno fatto differire la mia partenza qualche altro giorno.
Intanto avendo io ozio, voglio oggi donarne una parte alla sua istruzione, notandole qualche massima e pensiero morale, di cui Ella possa far suo profitto col meditarvi sopra posatamente. Ella è in una età capacissima di mature riflessioni sul suo stato presente, sul suo avvenire, su quella felicità che tocca a noi stessi a fabbricarci in gran parte, purgando le nostre passioni, nobilitando le nostre abitudini, e fortificando la nostra ragione.
Chi si trova al basso non corre pericolo di cadere. Così chi vive nella solitudine nulla ha da temere: gode la quiete ch’è il primo di tutti i beni. La dolcezza, la delizia delle ore beate che Ella passa nella sua solitudine lungi dallo strepito e dagl’intrighi del mondo sono una specie di paradiso anticipato. Ella è a sedere sopra la riva tranquilla di un mar tempestoso: vede le procelle senza averne paura: vede le barche che fanno naufragio; ed Ella è in sicurezza.
Lo splendore degli onori e delle ricchezze altro non è che una nuvola dipinta dal sole: il sole tramonta; la nuvola o non ci è più, o è un amasso scuro e deforme.
Una coscienza pura, dà pensieri netti, delle azioni virtuose in un ritiro pacifico, ecco la vera, la sola felicità, che possiamo gustare nel mondo!
Non ci è che la pace che ci renda contenti: e questa pace dove cercarla, se non fuori dai tumulti, dall’ambizione, dalle vanità, e lungi dai sospetti, dall’invidia, dalla calunnia?
Noi nasciamo tutti buoni: ma appoco appoco le nostre passioni che cercano e trovano de’ pascoli velenosi rendono la più parte di noi quasi tanti serpenti nocivi a noi stessi, nocivi agli altri. Non ci è cosa che contenti i nostri desiderj: questi salgono sempre; e si fanno essi stessi una scala precipitosa. Oh se si voltassero verso il Cielo! ci renderebbero pienamente felici. La solitudine guida questi desiderj sul vero sentiero: la solitudine li purifica e li rende amici della nostra felicità, perché amici di Dio.
Per quanto la solitudine sia il regno della pace, e il miglior asilo della virtù, non bisogna però che chi vive nella medesima si abbandoni ad una cieca fiducia. Deve vegliare sopra la propria anima, perché i nostri nemici interni non le muovano guerra: è vero che questa guerra non è mai così pericolosa, come quella che si soffre da chi vive nel mondo: è però sempre guerra.
La nostra immaginazione è forse il maggior nemico che abbiamo da temere nella solitudine; giacché purtroppo da questa prende forza e alimento. L’immaginazione ci fa credere talvolta che il mondo non sia quello che è realmente, e lo va dipingendo con vaghi colori. L’immaginazione ci fa parer grandi i piccolissimi mali, o dispiaceri a cui possiamo andar soggetti. L’immaginazione diminuisce e sfigura i semplici e puri piaceri che dispensa la solitudine. Se poi questa immaginazione è congiunta a un carattere molto sensibile, crescono a dismisura i danni ch’essa reca di continuo al nostro ben essere.
Contro questi due nemici che congiurano contro di noi, bisogna trovar armi a proposito; e bisogna adoperarle con coraggio, e adoperarle senza punto indugiare.
La prima e la più forte di tutte le arme è questo pensiero, che non ci è vero bene che in Dio, che chi più a Dio si avvicina, più è presso al vero bene. Dunque il mondo non può esser quello che l’immaginazione talvolta ci dipinge; perché è più lontano da Dio, per dir così, che non è la solitudine. Dunque i mali e i dispiaceri della solitudine debbono essere leggerissimi in paragone di quelli del mondo. Dunque i piaceri della solitudine debbono essere i più grandi che un vivente possa ritrovare su questa terra.
E’ necessario poi mortificare la troppa sensibilità; e si può fare in più maniere. Molte volte la troppa sensibilità non è altro che orgoglio. Talora è debolezza di spirito.
E’ orgoglio, quasi che con quel profondo e continuo rammaricarsi ne’ casi dispiacevoli abbiamo una secreta pretensione che somiglianti casi rispettino, per dir così, noi più che gli altri. E’ debolezza di spirito, onde a guisa di canna che piegasi ad ogni piccolo vento, ci lasciamo abbattere, senza voler cercare di far forza a noi stessi.
Vero è però che la troppa sensibilità nasce talvolta in gran parte dalla natura del nostro fisico, da una straordinaria mobilità e delicatezza 74 de’ nostri nervi: e allora?
Allora conviene andar correggendo appoco appoco una somigliante natura; e si può farlo sol che si voglia. Soprattutto ci fisseremo bene nella mente che in questa valle di lagrime siamo per soffrire; quindi ci avvezzeremo a star preparati a qualsivoglia cagione di rammarico. E’ certo che i mali preveduti ci colpiscono meno. Siamo allora come bravi guerrieri, i quali non si lasciano mai trovar dal nemico alla sprovvista. Allora i mali non ci sconvolgono, perché non ci sorprendono: abbiamo campo di chiamar la ragione in nostro soccorso; e di ricevere con frutto i conforti altrui, gli altrui buoni consigli.
Avviene molte volte che chi ha più bisogno di questi conforti, di questi consigli non li cerchi abbastanza, né li riceva con quella pienezza di fiducia che si deve. Un poco di ostinazione suole accompagnare la specie di malattia, di cui ho parlato. Ci vantiamo di esser docili e compiacenti; e manchiamo di docilità e di compiacenza quando appunto ci è più bisogno di usarne, e di usarne in nostro vero vantaggio.
Ci vuol poco ad essere docili e compiacenti, quando tutte le cose vanno a modo nostro; ci vuol poco a dir sempre di sì in cose che poco c’interessano; ci vuol poco a mostrare il volto ilare, quando nulla ci molesta. La vera docilità, la vera compiacenza è quella che si accomoda e si piega anche in quelle occasioni in cui gli altri né parlano né agiscono a piacer nostro, o quando alcunché ci dà fastidio.
Ora se questa vera docilità e compiacenza deve esserci famigliare in favor degli altri, quanto più non dovremo noi praticarla a nostro proprio vantaggio.
Quando dunque siamo avvertiti di cosa che sia contraria a quel sentimento ch’è dentro di noi; quando altri ci conforta a sollevar l’animo, a non lasciarsi abbattere dalla tristezza, bisogna arrendersi, bisogna piegarsi, bisogna accomodarsi. Ciò costa un qualche sforzo alla nostra natura, è vero: ma tanto meglio: questo sforzo diventa un atto virtuoso, per cui piacciamo a Dio, piacciamo agli altri, piacciamo a noi stessi 75.

Ritorniamo alle altre informazioni su Serafina Mularoni. C’è anzitutto una missiva del poeta riminese datata soltanto «9 febbraio» mancante altresì del nome del destinatario (FPS 63.179). Senza azzardo alcuno si può affermare che è del 1796 ed è diretta a Pindemonte (in risposta alla sua, già cit., del 7 febbraio) 76:

Il tardo giungere del corriere non m’ha permesso di veder le persone interessate pel noto collocamento, innanzi di farvi risposta, che pure vo’ farvi oggi per ringraziarvi con tutto lo spirito di così cortese insistenza. Avrei rossore veramente di adoperare un uomo come voi e di rubarvi momenti preziosi per così frivola cosa, dove non sperassi che voi vogliate guardarla più col cuore che con l’intelletto.

L’accenno a «persone interessate pel noto collocamento» documenta che Bertòla funge qui da tramite, al pari di Pindemonte, e che (come vedremo) non è l’unico soggetto coinvolto direttamente nella questione economica della retta da pagare in Venezia. Quanto poi all’aggettivo usato per definire la questione («frivola cosa»), esso sembra frutto di un artificio retorico di tale semplicità e piaggeria nei confronti del corrispondente, da non richiedere nessuna attenzione oltre ad una piccola sottolineatura sullo sguardo distaccato, indifferente che Bertòla ostenta per rispetto di certe convenienze epistolari, e che nasconde una premura umana la quale, allo stesso riminese, poteva apparire disdicevole da ostentare in una persona ‘dabbene’. Prosegue la lettera: «Ritengo a buon conto le più pietose condizioni dell’altro Luogo Pio; e nel venturo ordinario vi dirò se saranno accettate; e dove le sieno, la nuova discepola verrà sù prima di quaresima; poiché il più indugiare nuoce». Bertòla analizza le caratteristiche della preparazione culturale di questa «discepola» quando di seguito scrive:

La medesima poco sa o nulla par delle picciole lettere: nel che non è poi sì gran male; e si pagherà questa scuola a parte. Parmi avervi scritto, o certo vi ho fatto intendere che la persona è povera molto; ed è forza stare dentro una grande economia. Ma dove si tratta della essenziale istruzione, il risparmio andrebbe contro al primario fine. Scusate di grazia di sì lunghi fastidi, pe’ quali vi promette (e che altro può darvi) la più somma riconoscenza il più cordiale de’ vostri amici (guai se mi sentisse la Bettina di Verona, che aspira a questo primato!).

Una delle persone interessate nel seguire a Venezia le sorti pedagogiche di Serafina Mularoni, è Teresa Edwards della quale esistono in tutto cinque lettere 77 dirette a Bertòla, scritte con uno stile di indubbia eleganza (che non disdegna talora il ricorso ad espressioni un po’ contorte, forse anche per una forma di rispetto verso l’interlocutore 78): ella vi si dichiara insegnante ammirata delle qualità intellettuali della ragazza, e pentita di non averla inizialmente accettata tra le proprie allieve. Teresa Edwards è l’unica donna a lasciarci un documento sulla vicenda di Serafina Mularoni: la descrive con la consapevolezza di dover difendere per solidarietà femminile una giovane che, nella sua innata capacità artistica, ripone la propria forza per poter raggiungere un preciso obiettivo. Ma affinché Serafina Mularoni possa avere ciò che desidera, Teresa Edwards cerca di coinvolgere completamente Bertòla, il «fervoroso padrocinatore» della ragazza verucchiese, cercando di convincerlo a ritirarla dalla scuola in cui era collocata, ed a curare direttamente la sua formazione. Lui, il teorico della «filosofia della voluttà», aveva sì avuto una figlia illegittima proprio da quella «Bettina di Verona» di cui abbiamo appena letto, ma non aveva svolto nessun tirocinio paterno: perciò non possedeva né esperienza né bagaglio psicologico necessari ad un ruolo semplicemente diverso da quello di suggeritore (più per ostentazione intellettuale che per pratica personale), dei consolanti pensieri sulla «solitudine». Il 2 gennaio 1795 (FPS 60.378) Teresa Edwards scrive a Bertòla dell’«amabile Serafina»:

L’ottimo cuore di questa giovane colorì poscia il ritratto ch’ella portò seco delle mie qualità, e V. G. cadde in errore. Era ben naturale che le simpatie della buona Ragazza divenissero vivissime in mio favore, sin all’entusiasmo, per l’accidentale contrasto di maniere, meno corrispondenti allo stato attuale della sua capacità, appunto perché di uno stile molto superiore al mediocre. Questo però, se non vogliamo ingannarci, è tutto il fondo del mio vero merito. Chi sa poi come sarebbe andata la cosa, allorché lo spirito di Serafina si fosse sviluppato e reso più atto alla riflessione.
Ad onta di questo rischio però, ebbi a pentirmi della resistenza usata quando mi fu proposta per allieva; e l’ingenuità di tal mia confessione può far comprendere a V. G. ed all’amorosa zia 79 della giovane ch’io stessa desidererei di rappezzare se fosse possibile (il) mantello: ma non so vederne modo lodevole.

Il resto della lettera si sofferma sulla situazione di Serafina Mularoni, con qualche particolare che se non la delucida del tutto almeno ci permette d’intuirla con minore incertezza:

L’arte, ed i mezzi di certe sottili direzioni sono fuori affatto della mia speculazione, e della mia pratica. Comprendo solo che non vi sarebbe pace né per la Serafina, né per me, se non nel caso ch’essa venisse nuovamente proposta alla prima direttrice, e fosse da questa rifiutata; ciocché per diversi riguardi credo difficile assai. L’autorità in quest’incontro non à luogo, perché l’atto della rinunzia dovrebbe essere spontaneo e sincero; in guisacché sarebbe duopo ch’io fossi sollecitata dalla stessa rinunziante. Se la sua penetrazione, unita alla somma destrezza di S. E. Albrizzi trovano il modo di condurre fino a questo maneggio, io declinerò dalle ferme risoluzioni che avevo prese sul metodo del mio vivere, cedendole tutte all’amore che ò concepito per la buona Serafina, ed alla esuberante bontà che mi viene dimostrata, con mia confusione. Non è in mio potere il fare di più; e sarà mia sfortuna se questo non basta per far conoscere quanto io sia grata, e sensibile alle nobili maniere onde sono da V. G. favorita. Qualunque sia per essere l’evento, io sarò in ogni tempo l’affettuosa amica della mia Figliuola di amore, ed oserò anche di supplicare il di lei fervoroso padrocinatore ad ostendere il suo zelo fin al pensiero di prestarsi da se medesimo al ripulimento di questo diamante, greggio sì ma di un’aqua la più pura che dar si possa; e la mia consolazione sarà compita poi quando saprò ch’egli l’abbia addattata pur anche in un’ottima legatura.

Anche nella successiva lettera del 16 gennaio 1796 (FPS 60.379), Teresa Edwards cerca di convincere Bertòla a cambiare propositi per Serafina Mularoni, soffermandosi sui limiti delle scuole in cui le insegnanti sono «sole Donne», con un accenno rilevante per una storia pedagogica del tempo:

ma quanto più vado aquistando di cognizione sul merito di V. G. tanto più mi sembra strano ch’ella voglia privare della incomparabile sua vicinanza quest’amabile, e così ben disposta Figliuola. L’ago, e gl’elementi delle lettere, con altre poche communi notizie sono cose da nulla, per le quali si trova ovunque dell’abilissime persone. Ma un ora sola di conversazione colta, sensata, ed insinuante come dee esser quella del Sig. Conte 80, farebbe più di bene che sei mesi di frivole, e mal applicate dicerie donnesche, congiunte assai di sovente ad una larga dose di pregiudizj che si debbono riverire, e che sono affatto inseparabili da un circolo di sole Donne, formato a caso. Per ottima che sia l’educazione parziale di una Comunità, non si può mai difenderla in tutto dal risultato del costume generale di altri cinquanta o sessanta individui diretta da principj diversi.
Deh! Signore, non si affatichi in altri progetti che in quello di non affidare a chiunque ciò che niuno può far così bene come V. G. Tutto l’avvenuto fin ora par che conduca a questa conclusione; e tutto quel ch’io preveggo par che confermi la stessa cosa. Se l’amore per Serafina mi fece deviare dai miei propositi, è l’amore medesimo che mi fa anche desiderare l’effettuazione del piano che insinuo con tutto il fervore, senza però insistere contra le ragioni che vi fossero per non approvarlo. Io esulterò soltanto per il bene di questa buona giovane, e per il soddisfacimento del suo benemerito soccorritore.

Il 30 gennaio 1796 (FPS 60.380), Teresa Edwards riassume con doloroso sentimento di partecipazione il quadro disastroso della situazione in cui si trova Serafina Mularoni:

Quanti ostacoli mai si frappongono al ben essere di questa buona figliuola! Possibile che nel piano segnato per lei dalla Provvidenza, sia fissata l’esclusione di tutti i mezzi che potrebbero facilitare la sua educazione! La di lei sorte interessa vivamente il mio cuore, e ne sono commossa. Comprendo benissimo che dopo esserle stata chiusa alle spalle la porta delli Conservatorj, ora si tenta di farle chiudere in faccia quella dei Monasterj. Ma donde mai tanta perfidia? Se però li ricercati giustissimi attestati possono rintuzzare, e vincere quest’ultimo attacco, eccole pronto il mio, unitamente a quello del nostro Rettore che ho creduto bene di aggiungere. Gl’altri li troverà nelle lettere che le siano inviate da questa Sig. Priora. Se non soddisfano bastantemente all’oggetto, V. G. li modifichi sotto la forma che giudica migliore, e dietro la sua istruzione saranno corretti, e rispediti.

Il 20 febbraio 1796 (FPS 60.381), Teresa Edwards si congratula con Bertòla «sull’esito felice delle sue premure a vantaggio della nostra Serafina. Quanto si dice negli attestati, tutto partì dalla persuasione, e dal cuore; e non è merito mio l’aver avuto un buon suggetto sui cui estendermi». L’ultima lettera di Teresa Edwards (5 marzo 1796, FPS 60.382) accenna ad un altro progetto bertoliano per Serafina Mularoni: esso,

circoscritto alle misure indicatemi o non è assolutamente eseguibile, o non può esserlo con sua soddisfazione; e appena sarebbe tentabile con raddoppiamento dell’imaginato stipendio. Nell’eccessivo incarimento presente de’ viveri non potrebbesi accomodar quel partito se non ad una famiglia d’ordine assai basso, o triviale, ovvero composta di tanti individui, che niente si sbilanciasse per l’aggiunta di un altro: cattive circostanze, in ambidue li supposti. Vi potrebb’essere ancora la famiglia civile ma caduta in ristrettezze, e questa per i bisogni del momento accorderà dei patti che in pochi giorni non saranno più mantenuti, e come attendersi una utile influenza nella educazione della buona giovane da gente abietta, o avilita, o combinata con una ciurma di figliuoli? Dio sa di che altro? Quale custodia, qual circolo, quali occupazioni si possono sperare da persone o mercenarie vilmente, o circondata da continui bisogni, o dissipate dal tumulto domestico, e dalla inconvenienze anche pericolose al costume che quasi sempre s’incontrano nelle numerose famiglie? La scarsa utilità del contratto rinoverebbe poi troppo spesso degl’umilianti rampognamenti alla povera Serafina, e la obbligherebbe ad un silenzio incomodo in mille incontri. Non parlo sulla morale impossibilità di trovare con lo stesso dispendio chi sappia o voglia istruire la giovane nel buon leggere, nello scrivere, nel far conti, nei lavori donneschi, ed in tant’altre cose di cui abbisogna la di lei cultura.

Tutto questo, aggiunge nella lettera, «riguarda l’esclusione del progetto ristretto ai termini» che Bertòla aveva accennato: «Nella supposizione però di un doppio assegnamento», Teresa Edwards non avrebbe perso «la lusinga di buona riuscita». Cionondimeno, conclude,

s’incontrerebbero delle obbiezioni per l’età dell’educanda, e per il suo essere forestiera; e certo non è da credersi che una famiglia prudente volesse accogliere una ragazza di un altro paese qualora non vi fosse in Venezia chi con formata, ed idonea malaveria assicurasse la famiglia ricevitrice per tutte le possibili eventualità. Ommetto il di più che dir potrei in giustificazione dei miei pensieri: so a chi scrivo, e so che scrivo una lettera.

Le lettere di Teresa Edwards, se non permettono di soddisfare alcune fondamentali curiosità sulla vicenda personale di Serafina Mularoni, possono tuttavia essere considerate fonti utili per ricostruire un particolare aspetto della condizione femminile del 1700, relativo all’istruzione ed alla cosiddetta educazione delle giovani. Su questo aspetto, sempre in riferimento a Serafina Mularoni, torna un altro corrispondente di Bertòla, Filippo Ronconi 81, che è necessario introdurre a questo punto del discorso. Come si potrà constatare, egli offre anche considerazioni alquanto libere a proposito dei luoghi religiosi deputati alla formazione spirituale delle aspiranti monache. Il 30 gennaio 1796, Ronconi scrive al poeta di Rimini:

Manco male, ch’ella non è da guastarsi, e ch’io non presto la mia opera, onde un cuore ingenuo, una machinetta gentile diventi stupida, e si depravi in mezzo a tanta scempiaggine: n’aveva quasi scrupolo, e mi faceva specie, che voi l’amico di natura, e a cui tanto dovete, voleste profanare la sua sant’opera, e di prolifico benefattore, vi voleste cangiare in istupido conservatore di Vergini.

Ronconi si riferisce a quel progetto di monacazione per Serafina Mularoni che abbiamo già incontrato nel Diario bertoliano (dove se ne parla in negativo: «l’abito non può farsi»), ed in una lettera di Teresa Edwards («Comprendo benissimo che dopo esserle stata chiusa alle spalle la porta delli Conservatorj, ora si tenta di farle chiudere in faccia quella dei Monasterj»). Per la ragazza, Ronconi non dispera, ed ironizza con un atteggiamento che rivela salde radici illuministiche, e ci introduce al clima politico di quei giorni, anche con accenni alle conseguenze che le idee d’Oltralpe provocano nel comportamento del clero. Ronconi c’informa che Bertòla aveva deciso di trasferire la ragazza da Venezia a Pesaro, dove Ronconi viveva:

Avendo l’età della ragione non tarderà guari a vincere il momento di dispetto e di cattivo umore, e la natura istessa sempre più eloquente quanto più coartata, la ricondurà fra non molto nelle braccia di uno sposo più solido, benché meno celeste.
Or che svanì il bisogno d’un’istitutrice, e per quanto me ne assicurate sul vostro onore quello ancora di purificarsi, furono le mie viste dirette ad altro ritiro, ove le regole fossero meno austere, il vitto meno parco, l’aria più libera. Quello del Corpus Domini avrebbe nella situazione, e nell’ampiezza del luogo di che innamorare un solitario amatore della campagna; ma la povertà vi interdice gli agi, e lauta mensa, ed è tuttora immerso nello scisma monacale, ove il partito giacobinico combatte per il Zoccolante, il moderato per il prete: non si sà qual vincerà ma i più gran voti sono per il più grosso diametro, e convien dire che il Corpo del Signore non sazj di molto. Le Vergini della Madalena nuotano nelle ricchezze ma non se ne servono che per coacervare; fiero scisma le divide parimenti: un Confessore non so se più filosofo o più goloso, vedendo che le pene eterne in sì remota prospettiva non influivano punto sul predominio dei sensi, l’avisò di vendere le assoluzioni a libre di ciocolata; non potete credere lo scandalo che v’insorse; ed io mi meraviglio che voi sì poco distante 82 non n’abbiate sentito lo scoppio; mentre ieri la Badessa m’assicurò che pareva che volesse inabbissarsi il mondo. Quindi restano le Catterine ben pasciute, di larga coscienza, e che ad onore e gloria del loro celeste Sposo se la vanno ... passando più allegramente di tutte l’altre; qui v’entrano Maestri, Domenicani, e chiunque ardisce correre una sacra avventura. Tutte le monache sono Dame, ma per pura umiltà ricevono in educazione anche quelle che non lo sono, purché siano di onesta nascita. La dozzina è per tutto la stessa. Eccovi la storia de nostri Monisteri, ellegete, decidete, ed io vi servirò come più vi parrà conveniente.

La lettera di Ronconi termina con un’annotazione doppiamente utile per comprendere la sua psicologia: egli vi si descrive a trattare di queste cose sacre per Serafina Mularoni «in mezzo all’orge notturne, ed al baccante folater di ellitrizzate macchinette di quindici anni: oh! vedete ove va la virtù ad annicchiarsi! tutte suppongono ch’io scriva dolcezze, e fiori anacreontici, ed io non vergo che mistici sensi, e non favello che di ritiri nemici del buon senso e di natura». Questa annotazione conclusiva, nel confermarci quel suo sentire rivoluzionario che traspare già dal resto della lettera, offre anche la possibilità di osservare come l’umore paganeggiante che Ronconi descrive con l’immagine di tanta sfrenata adolescenza, sia assai più consono a Bertòla quale lo conoscevano gli amici come Ronconi medesimo 83, o lo intravediamo noi da certe sue pagine in prosa o in poesia, di quanto non lo siano invece quelle considerazioni tra il religioso ed il filosofico che il poeta indirizza a Serafina Mularoni per ammaestrarla alla «solitudine».
Il 20 febbraio 1796 (FPS 62.36), dopo aver dato notizia di questioni personali «all’illustre solitario, all’amatore integerrimo», Ronconi scrive:

Sin qui di me; ore della vostra Vergine. Mi reca stupore ch’abbiate scelto il più lugubre, ed il più rigido degli Ordini monastici: se vi ricorda vi dissi che non altro aveva di buono se non che l’aria apperta, ma che la povertà v’interdiva buona mensa, ed ogni comodo della vita; non le sarebbe possibile d’ivi coltivare la musica, o qualunque altro gentile esercizio: ma sia così, poiché più d’ogn’altro v’aggrada il Corpus Domini. Il Marchese Mosca n’è sindaco, e Badessa sua Sorella. Ella viene accettata; se ne attende l’arrivo: è mio consiglio però ch’ella non giunga prima di sabbato venturo, ove potrò farla incontrare e servire dalla mia Amica, e prima di tal’epoca non sarei con ella di ritorno da una picciola gita. Se mai la scelta fosse cagionata da equivoco, siete ancora in tempo; e le Cattarine accetterebbero volentieri questa sposa di Cristo; libertà, agi, e disinvoltura, sono i pregi di quest’ultimo Monistero. Interrogate le disposizioni della educanda, e deciderete; io vi servirò a norma degli ordini 84.

Un’altra epistola (FPS 62.37) di Filippo Ronconi (senza data 85), è improntata alla più severa rampogna nei confronti di Bertòla:

Che nell’artiglio delli sparvieri vi siano state colombe non è nuovo, è questa una barbara legge della necessità, o sia di natura, che non è sempre giusta; ma ciò che mi sorprende si è, che lasciandole ancora, si tenti di conservarle colombe, e s’interpelli me d’esserne il conservatore. Voi avete un bel vantarvi di filantropia; essa è figlia dell’egoismo; e quando si tratta di fanciulle ella cede ogni diritto a suo padre. Ma celia a parte, l’ignoranza come sapete è la divisa d’ogni italico Monistero: la balordaggine è l’unica proffessione dei nostri. Per accidente abbiamo Monaca una Sassone, la quale è una fenice fra tanta imbecillità: sa un poco di francese; ed è viva alquanto: questa sarebbe al caso onde rendere meno stupido il vostro allievo. Il Monistero chiamasi La Purificazione; e ve n’è d’uopo sortendo dalla vostre mani. La dozzina ascende ai quaranta scudi ducali, o siano 26. scudi e 60. baiocchi Romani. Vi ho delle parenti, e delle amiche, onde potrei caldamente raccomandarla, e farle men odioso comparire il suo carcere. Del secreto siatene certo 86.

Nel marzo 1797 Serafina Mularoni è ancora in convento. Bertòla riassume nel Diario quanto scritto alla giovane da Siena : «che andrò a Rimini passando per Bologna [...], che da Rimini farò pagar la dozzina del trimestre» 87. Il 7 maggio Bertòla annota in altra parte del Diario 88, sempre in relazione ad una missiva diretta alla ragazza: «che uscirà a settembre. Che studj la musica [...] che mandi il conto». Passa un altro anno. Bertòla il 3 marzo 1798 (FPS 63.136) scrive da Milano a Francesco Martinelli (che si trova a Rimini): «La Serafina vi bacia la mano: si porta sempre benissimo». I Martinelli sono parenti del poeta. Francesco è il fratello di Nicola, marito di Diamante Garampi. Con Nicola, Aurelio Bertòla è andato nella capitale lombarda a metà gennaio di quell’anno: nell’ottobre precedente, la Cisalpina gli aveva accordato la giubilazione, dopo aver soppresso la sua cattedra pavese di Storia per risparmiare nelle spese pubbliche. La lettera del 3 marzo accenna anche a Nicola Martinelli, dicendo che questi era «molto contento» della giovane. «Ella vi prega», aggiunge a Francesco, «di dar le sue nuove alla zia Maddalena 89, a cui ha già scritto». Serafina Mularoni da educanda in un monastero è ora diventata «governante» di Bertòla: lui stesso la definisce così nel testamento del 22 giugno 1798, compilato dopo esser rientrato a Rimini, nel casino di San Lorenzo in Monte 90, tra fine marzo ed inizio aprile.
Il poeta è gravemente infermo, e Francesco Martinelli si offre di ospitarlo nel proprio palazzo in via Serpieri a Rimini, dove Bertòla si trasferisce tra il 17 ed il 22 giugno. Alle cinque del pomeriggio del 30 giugno, Bertòla muore. Nella stessa sera il suo corpo viene trasportato «privatim» (come scrisse il parroco nel Libro dei Defonti) nel vicino Tempio Malatestiano. Il primo luglio è sepolto nella (ora perduta) tomba degli avi, con una cerimonia frettolosa e senza pompe: Bertòla ha servito i nemici della Chiesa.
Nel testamento 91 del 22 giugno, egli ha nominato propria erede universale Serafina Mularoni, «a titolo speciale di riconoscenza per la cordiale assistenza prestatami nella lunga, e penosa mia malattia». (Quel 22 giugno, egli però aveva al fianco un’altra governante, Maria Mingoni, che era stata al suo servizio per quattordici anni sino al maggio dell’anno prima 92.) A Serafina Mularoni, Bertòla riconosce il diritto di abitare il casino di San Lorenzo fino all’apertura del testamento: l’abitazione e l’annesso podere erano riservati ad Orintia Romagnoli 93, grazie al cui aiuto finanziario aveva potuto acquistare quei beni. Per entrarne in possesso, Orintia Romagnoli avrebbe però dovuto pagare cento scudi a Serafina Mularoni ed altri cento a Maria Mingoni.
Serafina Mularoni, forte di questa dichiarazione testamentaria di Bertòla, alla morte del padrone non abbandona il casino, attendendo la somma prevista dalle sue ultime volontà. Orintia Romagnoli e Nicola Martinelli le fanno invece causa. Dopo quasi tre anni di contese giudiziarie, l’ex governante è sfrattata dal Tribunale, e la «Possessione del Casino» è venduta in asta il primo aprile 1801. Nella citazione davanti alla legge, quali creditori erano stati chiamati Serafina Mularoni ed il marito. Da questi atti giudiziari apprendiamo così delle sue nozze.


6. «Le donne furenti correano per la città», Cervia 17 agosto 1796

Alla stessa cortina di silenzio (fatta di passività e d’obbedienza imposta), da cui è stata caratterizzata la vicenda di Serafina Mularoni in ogni momento della sua vita, sono state destinate anche le donne di Cervia, protagoniste di una rivolta avvenuta il 17 agosto 1796. Le cause, le descrive il canonico Pietro Senni 94, testimone della vicenda:

Volevano li Padronali delle Saline la terziaria del sal fiore fabbricato nell’anno presente. [...] Si viddero tutti li Salinari sollevati correre per la Piazza, e strade protestando, ed esclamando di voler tutti li loro denari, e che se era il sale bianco fabbricato in grande quantità, dicevano essi, che erano stati tré anni di non fabbricarsi, e li Padronali avevan riscosso il fieno di dette saline; là dove il costume era sempre stato, che il Padrone avesse tutto il fieno annuale racolto, ed il Salinaro la solita, tassata porzione di sal fiore fabbricato in detto anno.

Nonostante l’intervento dell’«instancabile Monsignor Vescovo» per placare «lo sdegno dei Salinari, e ridurlo alla quiete e tranquillità», il popolo non cede: «Le donne stesse furenti correano per la città animando li uomini», annota Senni. E’ la scintilla dell’insurrezione. I salinari prendono ardimento: chiudono le porte della città, «standovi essi di guardia nel timore uscisse nessuno, e così durò tutta la notte nella quale dicesi che signor Giacomo Salducci gittasse una pietra adosso a’ Salinari, nessuno cogliendo, si addunarono con scale per entrar per le finestre e percuoterlo». La mattina successiva al vescovo riesce finalmente di «placare il Popolo», assicurandolo che «avrebbe avuto tutti li suoi denari del salfiore». Così a Cervia può ritornare la calma.
Le donne «furenti» di cui parla il canonico Senni, rappresentano un altro spicchio del mondo femminile del Settecento, anche se appartengono ad una realtà economica piccola (ma del tutto particolare per la sua storia e struttura) come quella di Cervia 95: ad un secolo dalla rifondazione della città, attuata per cercare migliori condizioni climatiche, il loro tumulto rappresenta la conclusione simbolica di un processo storico. E’ la rivolta agli ordini che l’autorità superiore emana, è l’acquisizione della consapevolezza dei propri diritti, con la volontà di vederli rispettati: è un piccolo gesto che suscita la derisione dei potenti, come Senni ricorda («Tanti si fecero discorsi della seguita insurrezione, che moveva ognuno a riso considerandone gli individui»), è però anche una specie di sfida che, dal basso, i tempi nuovi lanciano ai detentori del potere abituati a guardare ai popolani con l’atteggiamento paternalistico di chi concede qualche beneficio, ma ignora del tutto ogni discorso basato sul concetto di giustizia, proprio mentre per le strade d’Europa l’ammaestramento rivoluzionario s’espande facilmente con i nomi di libertà, eguaglianza e fraternità, coagulando forze eterogenee, e suscitando reazioni altrettanto diversificate. (Leggendo la cronaca di Senni, viene alla memoria, fatte ovviamente le debite proporzioni, una lettera che credo inedita, scritta da Pindemonte al filosofo Giovanni Cristofano Amaduzzi, il 13 luglio 1789 da Parigi 96: «Moltissimi han preso le armi stamani, e si dice che vogliano muoversi alla volta di Versailles: gran quantità di truppe fu fatta venire, sicché vedete la strage ch’è per accadere. Tutte le botteghe in Parigi son chiuse, e pochissimi ardiscono uscir di casa».)
Le donne di Cervia ignoravano tutto questo, badavano unicamente al loro particulare, ch’esse contrapponevano a quello dei loro padroni: ma spesso la Storia non è una corsa a chi arriva prima ad affermare i propri diritti, a scapito di quelli altrui?
L’illusione che con il sopraggiungere dei tempi nuovi potesse cambiare qualcosa per loro e per quelli che vivevano ai margini della società dell’antico regime, a Cervia è vissuta, all’indomani della discesa napoleonica in Romagna, quando si chiede di cancellare il pagamento del livello per le case, introdotto nel 1741. L’appello inviato il 4 luglio 1797 dalla Comunità di Cervia all’Amministrazione Centrale cerca inutilmente di far leva sullo spirito di libertà che abbondava nei motti del momento: «Togliete [...] questo avanzo di Tirannia, e ridonate a tutti le loro proprietà». Il nuovo potere si presenta come quello vecchio: al popolo ‘repubblicano’ di Cervia si mantiene l’ingiusto peso introdotto da un papa.
La rivolta del 17 agosto 1796, se da un canto è la conseguenza di una situazione d’inferiorità giuridica dei salinari, dall’altro rivela nell’ambito femminile il tentativo di superare un altro tipo d’inferiorità, quella che caratterizza le stesse donne rispetto al mondo maschile. Le donne di Cervia, da quel poco che sappiamo, non appaiono soggetti passivi: alcune di loro forse esercitavano ancora in quell’anno il mestiere di salinare, come era capitato all’inizio del secolo: dall’elenco delle «case, quali si trovano in Cervia nuova di ragione della Regia Camera», datato 16 maggio 1708, ricaviamo che i salinari censiti sono in tutto sessanta, e le donne nove 97. Ne conosciamo anche i nomi, e la composizione del loro nucleo famigliare: Catterina Micoli con figlio e garzone; Pasqua Siboni e figlio; Catterina Panocchini con famiglia di due; Maria Farabegli; Maria Lugaresi e suo figlio; Antonia Manfredi con famiglia di due; Domenica Armuzzi con famiglia di due, Anna Maria Rossi, e Domenica Casali con madre. La presenza di un figlio fa pensare a madri vedove che avessero continuato l’attività del marito defunto.
Nello stesso anno del tumulto delle donne «furenti», il 1796, il vescovo di Cervia oltre a pensare alla guerra del papa contro i francesi, è costretto ad occuparsi anche di affari di cuore: il signor Luigi Pignocchi si è recato da lui, pregandolo «di parlare al signor Giorgio Ghiselli se li voleva dar in isposa la signorina Teresina sua figlia». In due giorni il vescovo mette le parti d’accordo, e fa stendere la scrittura degli sponsali, alla presenza di «quasi tutta la nobiltà»: la dote che la fanciulla reca allo sposo è di duemila scudi, quattrocento sborsati subito, e la parte restante da pagarsi in quattro rate annuali di pari importo. E’ una piccola notizia, che però ci permette di chiudere idealmente il cerchio del nostro discorso, partito appunto con il progetto d’un matrimonio combinato, aggiungendo un’altra informazione che riguarda il mondo femminile e queste famiglie ricche.
Nelle quali ogni tanto occorreva una cameriera. E per ricercarne qualcuna, brava e di onesti costumi, si osava coinvolgere persino personaggi illustri, come accade il 6 giugno 1759 quando il dottor Francescantonio Forani 98, già incontrato come padre dell’aspirante castrato, chiede l’intervento del dottor Giovanni Bianchi affinché cerchi di procacciare una «buona cameriera» al signor Capitano Biagio Guazzi. Le donne che vanno a lavorare in questa famiglia, assicura Forani, stanno bene: esse devono pensare soltanto a «conciar testa» alla padrona e a «qualche poco cucire», dato che «gl’altri affari di Casa vengono praticati da due servidori, e da un’altra donna». La paga è dai cinque ai sette paoli al mese «secondo l’abilità della Giovine, e poscia si ricava dalla Signora qualche cosa di più». Si aggiunga, precisa Forani, che «quelli, che mettano il piede in questa casa, non sono mai scacciati, e vivono con somma pace, e tutte le Cameriere di questa Signora non si sono partite dal suo servigio, quando non si siano fatte le spose, ed in tali sposalizij Essa hà dato mano, e le ha molto avantaggiate».
Anche contro queste costumanze sociali, inevitabilmente protestavano le donne «furenti» che «correano per la città animando li uomini» il 17 agosto 1796. La scena corale che esse compongono, lascia intravedere, nell’indistinta apparizione di tante figure anonime, un’immagine che si diversifica da quelle che abbiamo considerato nei capitoli precedenti. Non più nomi precisi, come quelli di Diamante Garampi, Caterina Vizzani, Antonia Cavallucci, la Teresa di Casanova o quella Serafina Mularoni che un Bertòla timoroso nascondeva nel Diario come «Serafini». Le donne di Cervia del 1796 non sono celate da protettori angosciati. Ma semplicemente ridotte al silenzio, cancellate dalla scena, come tante altre nel corso dei secoli. C’è sempre un ‘padre’ che tiene i registri della Storia, e vi scrive le cronache a suo piacimento.


Nota bibliografico-telematica.
I miei scritti citt. nelle note del presente lavoro, si possono leggere anche per via telematica collegandosi al sito Riministoria, che ha il seguente indirizzo: http://digilander.libero.it/monari/indice.html. Inoltre, esiste in rete anche un altro mio sito interamente dedicato allo scienziato Giovanni Bianchi (Iano Planco), con questo indirizzo: http:// digilander.libero.it/ianoplanco.

Ringraziamenti.
Esprimo doverosa gratitudine alla dottoressa Paola Delbianco della Biblioteca Civica Gambalunghiana di Rimini, ed al dottor Piergiorgio Brigliadori, responsabile del Fondo Piancastelli della Biblioteca Comunale A. Saffi di Forlì.
Dei debiti per le cortesie ricevute dal compianto prof. Umberto Foschi e dal prof. Gian Ludovico Masetti Zannini, ho già detto nel corso delle note, ma desidero rinnovarne ora la testimonianza.


NOTE

1 Cfr. D’ALEMBERT–DIDEROT, La filosofia dell’Encyclopédie, a cura di P. CASINI, Bari 1966, p. 95.
2 Cfr. F. ANGELINI, La Locandiera di C. Goldoni, «Letteratura italiana. Le opere, II, Dal Cinquecento al Settecento», Torino 1993, p. 1107.
3 Cfr. M. A. MACCIOCCHI, Le donne e i loro padroni, Milano 1980, pp. 11-12. (L’«abatino Galiani» a cui si fa riferimento è il celebre Ferdinando Galiani, autore del Dialogo sulle donne, dal quale è ripresa la citazione.)
4 Cfr. EAD., Cara Eleonora. Passione e morte della Fonseca Pimentel nella rivoluzione napoletana, Milano 1993, p. 20.
5 Ho già presentato questo documento (risalente all’inizio del 1700) in un precedente lavoro apparso in Studi Romagnoli, vol.XLVI del 1995, p. 394. Per le complete indicazioni bibliografiche di questo mio testo, rimando infra alla nota n. 20 (dove elenco tutti gli scritti miei su Giovanni Bianchi), nel cap. 2. «Vaghezza, o follia» d’amore: Caterina Vizzani.
6 Cfr. A. MONTANARI, Per soldi, non per passione. «Matrimonj disuguali» a Rimini (1763-92): tra egemonia nobiliare ed ascesa borghese, «Romagna arte e storia», n. 52/1998, pp. 45-60.
7 Il documento è in Archivio di Stato di Rimini (ASR), Notaio Urbani, 1764.
8 Cfr. E. CAPOBELLI, Commentarj, tomo IV, SC-MS. 306, Biblioteca Gambalunghiana di Rimini (BGR), pp. 27-30.
9 Giuseppe Garampi se ne va da Rimini sul finire del 1746. Dal novembre 1749 è coadiutore del prefetto dell’Archivio Segreto Apostolico Vaticano di cui diventa titolare all’inizio del 1751. Il 24 marzo di tale anno Giuseppe Garampi osserva in una lettera a Giovanni Bianchi che, sotto il nome di «Archivista di San Pietro», s’intende «quì propriamente l’Archivista della Chiesa ò Capitolo. Ma l’Archivio del quale io sono Prefetto chiamasi il Secreto Apostolico Vaticano, a differenza pure di altri Archivi Apostolici che sono quì in Palazzo»: cfr. Fondo Gambetti, Lettere autografe al dottor G. Bianchi (FGLB), ad vocem, BGR.
10 Il testo, nel ms., è in corsivo.
11 Cfr. Rime di alcuni illustri poeti in lode della signora contessa Mariantonia Garampi nobile riminese nel vestirsi da essa l’abito religioso di S. Agostino nell’insigne monastero di S. Matteo in sua patria co’ nomi di Suor Maria Geltrude l’anno MDCCXXXXV, Pesaro (1745), BGR. La raccolta di queste Rime ha una presentazione di Francesco Garampi, fratello della monaca e padre di Diamante, con dedica al vescovo di Rimini, Alessandro Guiccioli.
12 Cfr. il suo Giornale di Rimino 1773-1829, in 32 voll., SC-MS. 308-339, BGR. In un precedente lavoro apparso in questa sede, mi è già capitato di sottolineare, proprio a proposito di Nicola Martinelli e delle sue opinioni in campo economico-sociale in materia annonaria, come la mentalità di Zanotti «avesse un’impronta codina»: cfr. A. MONTANARI, L’«opulenza superflua degli Ecclesiastici». Nobili, borghesi e clero in lotta per il «sopravanzo» della contribuzione del 1796. Documenti inediti della Municipalità di Rimini, per una storia sociale cittadina del XVIII secolo, «Studi Romagnoli» LI (2000, ma 2004), pp. 941-984. Qui si trovano anche notizie su Nicola Martinelli, e rimandi ad altri miei lavori in cui tratto di quest’illustre ma dimenticata figura riminese.
13 Cfr. M. A. ZANOTTI, Genealogie di famiglie riminesi, SC-MS. 187-188, BGR, ad vocem. Zanotti rimanda al contratto nuziale stipulato dal notaio G. B. Ceccarelli il 21 marzo 1764. Nella genealogia Martinelli, per Nicola si dice che al momento del matrimonio non aveva ancora 22 anni compiuti, contro i 19 non compiuti di Diamante, definita «dama assai bella di Rimino».
14 Cfr. N. GIANGI, Cronaca, SC.MS- 340, BGR.
15 La famiglia Soardi è quella di Luca, marito di Maria Martinelli (figlia di Diamante Garampi e Nicola Martinelli).
16 Per il tribunale d’Appello di Bologna nella causa riminese di cessione e rinuncia del Sig. Lorenzo Garampi contro la Signora Maria Martinelli, ecc., BGR, segn. 11.MISC.RIM.,CLXXXI, 32. Da questa frase, riportata a p. 13, ho ricavato il titolo del presente lavoro.
17 Cfr. C. TONINI, Storia di Rimini, VI, I, Rimini 1887, p. 670.
18 Al proposito, rimando alla cit. comunicazione L’«opulenza superflua degli Ecclesiastici».
19 Cfr. Miscellanea Ariminensis Garampiana, Apografi, SC-MS. 227, c. 399. Il testo è datato 1767.
20 Su G. Bianchi, cfr. A. MONTANARI, Modelli letterari dell’autobiografia latina di Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775), «Studi Romagnoli» XLV (1994, ma 1997), pp. 277-299; ID., Giovanni Bianchi (Iano Planco) studente di Medicina a Bologna (1717-19) in un epistolario inedito, «Studi Romagnoli» XLVI (1995, ma 1998), pp. 379-394; ID., Due maestri riminesi al Seminario di Bertinoro. Lettere inedite (1745-51) a Giovanni Bianchi (Iano Planco), «Studi Romagnoli» XLVII (1996, ma 1999), pp. 195-208. Cfr. pureID., «Lamore al studio et anco il timor di Dio», Precetti pedagogici di Francesco Bontadini commesso della «Spetiaria del Sole» per Iano Planco, suo padrone, «Quaderno di Storia n. 2», Rimini 1995.
21 Cfr. la mia comunicazione (di prossima pubblicazione), svolta nel Convegno forlivese su Le Accademie in Romagna dal ‘600 al ‘900 (maggio 2000), ed intitolata Tra erudizione e nuova scienza. I Lincei riminesi di Giovanni Bianchi (1745).
22 Resto generico, in questa affermazione, non scrivo che la vicenda è «ambientata a Rimini», per non dover accennare alle rivalità di campanile, inutili ai nostro scopi, sul luogo dove si ipotizza sia accaduto il fattaccio di sangue narrato da Dante.
23 Cfr. gli anonimi Recapiti del dottore Giovanni Bianchi di Rimino, Pesaro 1751, p. IV. Sulla paternità dei Recapiti, cfr. le Novelle letterarie di Firenze (tomo XIX, 28 luglio 1758, col. 480). La parola «recapito» ha il significato di considerazione, reputazione, stima.
24 Cfr. S. DE CAROLIS, La produzione pubblicistica su questioni mediche, «Giovanni Bianchi, Medico Primario di Rimini ed archiatra pontificio», a cura di A. TURCHINI e dello stesso S. DE CAROLIS, Verucchio 1999, p. 57. L’argomento di tali novelle è affrontato in A. MONTANARI, La Spetiaria del Sole - Iano Planco giovane tra debiti e buffonerie, Rimini 1994, dove è riportato «un suggerimento per una novella boccaccevole», inviato a Planco dal fratello frate Girolamo (pp. 41-44); si veda ib. anche alla p. 50 (per la bibliografia sull’argomento). [Delle novelle boccaccevoli Bianchi conservò le brutte copie, se nel 1758 le trascrisse per il marchese Romualdo de Sterlich di Chieti, da dove mi dà questa notizia lo storico prof. Giuseppe Francesco de Tiberiis. Vedi in http://digilander.libero.it/ilrimino/att/2004/887.asini.html.] La Spetiaria del Sole è il negozio del padre di Giovanni, Girolamo Bianchi, farmacista (1657-1701). Sulla fortuna del genere letterario delle novelle boccacciane nel 1700, con in particolare riferimento alla loro circolazione a Bologna ad inizio di secolo, cfr. U. M. OLIVIERI, La novella, «Manuale di Letteratura Italiana. Storia per Generi e Problemi», a cura di F. BRIOSCHI e C. DI GIROLAMO, Torino 1995, p. 467. (Grazie al gentile suggerimento del cit. dottor De Carolis, posso ricordare che Planco incaricò un corrispondente romano, il collega Francesco Antonio Marcaccini, di procurargli «la fiameta del Bocaccio», il che avviene, ed un’introvabile «vita di Dante», che ritengo di poter identificare nel Trattatello in laude di Dante, sempre del BOCCACCIO: cfr. lettere del 29 aprile e del 24 maggio 1724, FGLB.)
25 Nella lettera di Antonio Cocchi a Planco del 17 ottobre 1744, da Venezia (indicatami dal cit. dottor De Carolis), leggiamo: «Con mio sommo piacere ho ricevuto il bel dono della sua leggiadra Istoria in questa città ove io l’aveva molto cercata indarno dall’istesso Occhi che nega averla stampata, onde tanto più ho piacere ammirando la potenza di V. S. Ill.ma che sa superare tutti gli ostacoli». In precedenza, il 2 giugno dello stesso anno, Cocchi aveva scritto a Bianchi: «Ho avuto molto piacere di sentire dalla lettera di V. S. Ill.ma de’ 25 maggio che ella sia per pubblicare l’istoria molto rara della vergine fintasi uomo per tanti anni con singolare ardire e costanza, il cui cadavere avventurosamente cadde sotto il coltello tanto sagace di V. S. Ill.ma» (FGLB). Simone Occhi stampa nel 1777, l’Orazion funerale in onore di Iano Planco, composta dal suo allievo Giovanni Paolo Giovenardi, e da questi recitata a Rimini nel Palazzo pubblico il 5 dicembre 1776. Secondo Domenico Paulucci, la Breve storia fu tradotta in inglese e pubblicata a Londra nel 1751. Cfr. in Memorie di uomini illustri, SC-MS. 356, BGR.
26 Cfr. De monstris ac monstrosis quibusdam, Venezia 1749. E’ una dissertazione lincea (28 febbraio 1749). Di essa tratto ampiamente nella cit. comunicazione Tra erudizione e nuova scienza.
27 Anche Giovanni Bianchi dedica alla giovane un’Ode anacreontica, pubblicata a Pesaro nel 1752, «in occasione, ch’Ella canta graziosissime Ariette nel Pubblico Teatro, e per varie Accademie della Città di Rimino».
28 L’epistolario si trova in FGLB, ad vocem, e comprende ventiquattro documenti, datati dal 25 marzo 1751 al 2 dicembre 1753. In parte esso è stato esaminato nella mia cit. comunicazione Tra erudizione e nuova scienza. Su Antonia Cavallucci cfr. G. L. MASETTI ZANNINI, Canto profano e musica sacra femminile del Settecento romano, «Strenna dei Romanisti 1991», pp. 349-358. Desidero ringraziare il prof. Masetti Zannini, vice-presidente della nostra Società di Studi Romagnoli, per avermi segnalato questo suo interessante lavoro, facendomene gentilmente omaggio di una copia.
29 Cfr. L. RASI, I comici italiani: biografia, bibliografia, iconologia, I, Firenze (1897?), p. 618. Debbo al prof. Masetti Zannini la segnalazione di questo testo; ed alla cortesia del dottor Vanni Tesei direttore della Biblioteca Saffi di Forlì la trascrizione del testo riguardante Antonia e Bartolomeo Cavallucci.
30 L’autorità vegliava attentamente sulla pubblica moralità, come dimostra un editto (senza data) rinvenuto in Archivio storico comunale, ASR, AP 638, 2. Teatro, dove sono riportate le regole stabilite dal Governatore, «da osservarsi ne’ Veglioni del Pubblico Teatro»: era proibito «levarsi la Maschera dal Viso sotto qualunque pretesto», e con la minaccia «di essere immediatamente cacciato dalla Festa». Nessuno «o sia Uomo, o sia Donna» poteva «usar forza, o violenza nel voler far ballare le Maschere», con la medesima minaccia «ed anche al altre pene corporali ad arbitrio di Sua Eminenza». Per i balli infine, occorreva seguire «l’ordine, e metodo stabilito dalli Signori Eletti» alla sorveglianza del teatro, a cui toccava risolvere eventuali controversie «sulla precedenza del Luogo, e del tempo».
31 Cfr. D. CONCINA, De spectaculis theatralibus, Roma 1752, p. 210. L’opera era già in stampa, quando Concina vi aggiunse un paragrafo dedicato proprio all’Arte comica di Bianchi, accusato di scrivere da pazzo. Concina tace il nome dell’autore dell’Arte comica, opera stesa «eleganti stylo italico», in segno di rispetto per la sua perizia nell’arte medica: «ceterasque dotes, quibus claret, colo, et suspicio. Sermonis dumtaxat errores Christianæ professioni perniciosissimos refellendos suspicio [...]» (cfr. p. 207). Concina osserva anche: «Quot verba, tot deliria, totque blasphemiæ, et temeritatis iudicia.» (p. 208). Sui motivi della polemica contro Planco, rimando alla cit. comunicazione Tra erudizione e nuova scienza, dovespiego anche perché Planco (erroneamente) considerasse padre Concina il vero ed unico responsabile della sua condanna.
31 bis Appartiene a SC-MS. 965, Minute di lettere 1717-1770, BGR, c. 101r, la lettera di Bianchi che racconta la protezione del marchese Giambattista alla Cavallucci: essa è monca, senza data (ma febbraio 1752) e senza destinatario, un’«Eccellenza» che era il padre di Giambattista, forse bolognese. Racconta Bianchi: un marchese forestiero di nome Giambattista aveva affidato la giovane alla protezione di un cavaliere riminese che però mancò alla parola data. Abbandonata dal cavaliere, e senza poter più ricorrere al marchese morto nel frattempo, Antonia è confortata da Bianchi: «presi a farle qualche assistenza, per la quale molto è stata onorata dai principali Signori di questa Città, non senza però una molta invidia de’ malevoli», confida Planco al padre di Giambattista.Analoga copia di missiva, c. 102, è una raccomandazione diretta a persona di quella città, dove Antonia venne spedita da Planco.
32 La lettera è datata 24 febbraio 1752. (Su di essa ritorno infra.) In una minuta planchiana s. d. (SC-MS. 966, Minute di lettere, 1731-1760, BGR, c. 444r), si attribuisce a dei «Giovani Nobili» la responsabilità dei disordini, amplificati poi da chi aveva interesse a che il pubblico teatro fosse chiuso, dopo che era stata bloccata la propria attività d’impresario in un teatro privato.
33 Del discorso sull’Arte comica, le Novelle letterarie di Firenze, n. 18, 5 maggio 1752, coll. 279-284, pubblicano un ampio resoconto, probabilmente di mano di Bianchi, il quale è definito «soggetto molto noto per la sua varia dottrina ed erudizione». Alla fine l’articolo ricorda, della Cavallucci, «la sua gentilezza e grazia, colla quale onestamente avea rallegrati gl’animi de’ Riminesi quasi per un mezz’anno», riprendendo dal testo planchiano qui sopra riportato. In questa nota leggiamo che la Cavallucci «era insieme Comica, e Cantatrice, e che come Comica rappresentava il più la parte da serva». A G. B. Morgagni, Bianchi scrive di aver composto l’Arte comica «per divertimento», in sole «due mattinate» (SC-MS. 966, cit., 24 aprile 1752).
34 Cfr. Archivio Teatro 1735-1838, busta n. 1, ad vocem «Teatro», ASR.
35 Nella cit. lettera del 24 febbraio 1752, Antonia Cavallucci scrive a Bianchi: «fate sapere, a quelli Signori del festino che già avevano messo li editti sopra i Cantori, che era padrona di andarci, ma, che non sono andata per non darvi dispiacere: baroni fottuti razze porche li roda il fistolo a quelli che mostravano esser miei dipendenti mi criticavano [...] e soprattutto vi prego a difendermi da’ malevoli». Quei «Signori del festino» di cui si parla, sono indubbiamente i «Signori Eletti» alla sorveglianza del teatro, dei quali abbiamo letto (vedi qui alla nota 30) nel cit. editto sui veglioni.
36 Cfr. lettera da Roma del primo marzo 1752, FGLB, ad vocem. A Roma, Giovanardi Bufferli svolge talora anche la funzione di procuratore della città di Rimini, per affari da gestire presso le magistrature pontificie. Per questo motivo è bene introdotto nei Sacri Palazzi e può informare dettagliatamente Bianchi.
37 Cfr. Index Librorum Prohibitorum, Benedicti XIV P.O.M jussu editus, per i tipi della Reverenda Camera Apostolica, Roma 1758, p. 80. Il relativo decreto del pontefice, premesso all’Index, reca la data del 23 dicembre 1757. Su questo aspetto della vicenda, cfr. la mia cit. comunicazione Tra erudizione e nuova scienza, ed il volume da me curato Iano Planco, la puttanella e il vescovo. Retroscena di una condanna all’Indice, Rimini 2002. Bianchi ottenne che nell’Index fosse cit. solamente il titolo del discorso, e non pure il suo nome.
38 Sull’argomento, cfr. nel cit. Per soldi, non per passione. «Matrimonj disuguali» a Rimini.
39 Cfr. lettera del 29 maggio 1758, FGLB, ad vocem.
40 Il passo di padre Paciaudi, è cit. da M. D. COLLINA, Il carteggio letterario di uno scienziato del Settecento, Firenze 1957, p. 20.
41 Cfr. MONTANARI, La Spetiaria del Sole, cit., p. 18.
42 Cfr. la lettera del 27 aprile 1752, FGLB, advocem. Pozzi, essendo nato nel 1697, era più giovane di Bianchi di soli quattro anni.
43 Cfr. l’epistola del 10 maggio 1752, FGLB, advocem.
44 Cfr. Viaggi 1740-1774 (conosciuti anche come Libri Odeporici), SC-MS. 973, BGR, alla data 10 novembre 1741.
45 Cfr. A. MONTANARI, Lettori di provincia nel Settecento romagnolo Giovanni Bianchi (Iano Planco) e la diffusione delle Novelle letterarie fiorentine. Documenti inediti, «Studi Romagnoli» LI (2000, ma 2003), pp. 335-377.
46 Il 4 marzo 1752, Antonia Cavallucci scrive a Planco che lui le poteva «essere nonno». In una lettera del 7 marzo 1752, senza destinatario (SC-MS. 966, cit., cc.445v/446r), Bianchi spiega di essersi impegnato «non volgarmente» da protettore con la Cavallucci «per un affronto fattomi da chi non dee mai far affronti». Planco appare più preoccupato di difendere se stesso che la ragazza, come risulta pure dalla bozza di un’«Informazione del Governatore al Legato» (cardinal Mario Bolognetti) del 28 gennaio 1752, quindi anteriore all’esibizione ai Lincei della Cavallucci; qui si dichiara che la giovane fu protetta da Bianchi «in una maniera civile, e propria» (cfr. SC-MS. 970, Minute di lettere 1741-1761, BGR, c. 217v).
47 Cfr. lettera del 26 febbraio 1752, FGLB, advocem.La missiva prosegue: «Io poi che sono alienissima dei Teatri, e che questi sono per me Provincie incognite [...] l’ò raccomandata al Generale Davìa mio cognato». Sulla visita dell’artista alla Bentivoglio, poi avvenuta dopo i due infruttuosi tentativi ricordati, cfr. la cit. lettera della stessa Cavallucci a Bianchi del primo marzo 1752 («Si esebì gentilmente la Dama in tutto ciò che ella poteva [...]).
48 Anche su Laura Bentivoglio, cfr. la biografia di Giuseppe Davìa, a cura di G. P. BRIZZI, DBI, vol. XXXIII, Roma 1987, pp. 130-131.
49 Cfr. la cit. lettera del 24 febbraio 1752.
50 Cfr. la lettera del 12 aprile 1752. Il 29 aprile Bianchi scrive alla Cavallucci: «Ella veda per l’avvenire di regolarsi un poco meglio non facendo tanti debiti, e procurando d’entrare in una qualche buona compagnia», e di restarci: «Bisogna anche sapersi conservare i Padroni o Protettori, che sieno» (cfr. SC-MS. 970, cit., c. 218).
51 Questa lettera (già cit. alla nota 46) è datata 4 marzo 1752.
52 Cfr. M. INFELISE, L’editoria veneziana nel ‘700, Milano 1991, pp. 250-251: «L’effettivo ruolo ricoperto da tale manifestazione per il commercio librario italiano è ancora da chiarire. [...] Le corrispondenze tra i librai tuttavia inducono a ritenere che la fiera di Senigaglia costituisse ancora a metà Settecento un punto di riferimento fondamentale per chi operava nell’editoria. Anche se non frequentata da tutti, erano sicuramente molti i librai italiani che si ritrovavano per presentare i propri cataloghi e per scambiarsi reciproche informazioni sul mercato»
53 Cfr. i citt. Viaggi 1740-1774: il passo è stato pubblicato per la prima volta da MASETTI ZANNINI, op. cit., p. 353.
54 Cfr. G. G. CASANOVA, Memorie scritte da lui medesimo, trad. di G. BRUNACCI, Milano 1982. Cito dai capp. XI e XII, passim.
55 Viene inevitabilmente da ripensare al «Piuolo di Cuojo» di cui abbiamo letto nel cap. su Catterina Vizzani.
56 Cfr. in FGLB, ad vocem.
57 Cfr. la lettera del 27 ottobre 1756.
58 Cfr. le lettere del 17 luglio e 5 agosto 1758.
59 Cfr. A. MONTANARI, Scienza e carità, Rimini 1998, p. 16, nota 7.
60 «Sono senza un soldo», si legge nel riassunto di una lettera inviata alla contessa cesenate Orintia Romagnoli in Sacrati, allora trentenne (cioè più giovane di nove anni di Bertòla): cfr., alla data del 28 novembre 1796, il Diario inedito di cui parlo in seguito. Alla stessa destinataria, Bertòla aveva comunicato il 2 novembre: «che mi procuri il sussidio [...]; ma nell’incertezza m’espongo alla mendicità». Orintia Romagnoli, tra tutte le donne che frequentarono il poeta, fu l’unica che lo soccorse nei momenti più dolorosi della sua esistenza, come vedremo.
61 Cfr. E. M. LUZZITELLI, Ippolito Pindemonte e la fratellanza con Aurelio De’ Giorgi Bertòla, Foggia 1987, pp. 89-156: nelle citazioni uso la sigla «PL», seguìta dal numero della pagina.
62 Cfr. A. MONTANARI, Un “Diario” inedito di Aurelio Bertòla, «Quaderno di Storia n. 1», Rimini 1994; ID, La filosofia della voluttà, Aurelio Bertòla nelle lettere di Elisabetta Mosconi, Rimini 1997; ID, Aurelio Bertòla politico, presunto rivoluzionario. Documenti inediti (1796-98), «Studi Romagnoli XLVIII» (1997, ma 2000), pp. 549-585; ID, Bertòla redattore anonimo del Giornale Enciclopedico. Documenti inediti,«Romagna, arte e storia», n. 50/1997, pp. 127-130; ID, Le Notti di Bertòla. Storia inedita dei Canti in memoria di Papa Ganganelli, Rimini 1998; ID, Biografia di Aurelio De’ Giorgi Bertòla, «Il carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, 1775-1792», a cura di L. MORELLI, Firenze 2000, pp. 389-398.
63 Isabella Teotochi fu un’altra fiamma di Bertòla.
64 L’11 aprile, Pindemonte scrive a Bertòla: «Riguardo all’alunna, parmi una cosa un po’ strana, ch’ella non abbia in barca il suo letticciuolo. Non tornerebbe a conto il prenderne uno a nolo, poiché il nolo costerebbe quanto l’acquisto, e sarebbe una spesa di più. Piuttosto si cercherà che il luogo ne dia uno in prestito; ma temo della riuscita» (PL, 136).
65 Le lettere sono in Fondo Piancastelli, Biblioteca Saffi di Forlì (FPS), 544.210.2
66 L’affermazione di Bertòla sul «miglior conservatorio di Venezia» stona con la realtà dei fatti, com’essa emerge dai discorsi di Pindemonte che abbiamo visto soprattutto nella lettera del 7 febbraio 1795.
67 Non hanno dato frutto alcuno le ricerche dell’atto di battesimo nell’Archivio parrocchiale di Verucchio. Forse la famiglia era immigrata.
68 L’avvocato Biagio Giuccioli Valentini, ebbe a precisare un suo conterraneo, lo storico Giuseppe Pecci, in un saggio del 1961, era «noto agli studiosi di cose manzoniane per aver indirizzato al gran vegliardo una sua ode, oggi introvabile, ottenendone una interessantissima risposta che figura negli epistolari». Nell’occasione, Pecci pubblicò anche il passo della lettera di Bertòla a Biagio Giuccioli Valentini relativa a Serafina Mularoni: cfr. G. PECCI, Aurelio Bertola saggista e poeta preromantico, «Quaderno n. II della Rubiconia Accademia dei Filopatridi, 1961», p. 70.
69 Si veda soprattutto nei citt. «Diario» inedito e Bertòla politico.
70 Cfr. il cit. «Diario» inedito. Gli originali del Diario sono conservati in Fondo Gambetti, Miscellanea Manoscritta Riminese, BGR, ad vocem «Bertòla». Il Diario si compone di tre parti. Le prime due constano di piccoli fascicoli, la terza di un foglio volante. Il primo fascicolo comprende il periodo dal 14 giugno 1793 al 28 gennaio 1795. Il secondo si riferisce al periodo dall’11 ottobre 1796 al 15 gennaio 1797. Infine il foglio volante comprende il periodo primo aprile 1797-11 maggio 1797. Esiste anche un’aggiunta (6-10 marzo 1797), dal retro della lettera FPS 63.50. Inspiegabilmente, nessuno studioso ha utilizzato, prima del mio annuncio nel 1994, questo Diario inedito. A cui qualcuno, successivamente, ha fatto cenno senza citare però il mio scritto relativo (cfr. la prefazione di G. CHICCHI all’ed. anast. del Viaggio sul Reno di Bertòla, Rimini 1998, passim: segnalo che in tale saggio non sempre le parole bertoliane sono state riprese correttamente; ad esempio, a p. XXVI si riporta: «gli invierò presto la carta che donerà gran pregio», mentre il ms. del Diario recita: «gli invierò presto la graduazione, lo che darà gran pregio alla carta» [del fiume Reno]).
71 Cfr. Biografia di Aurelio De’ Giorgi Bertòla, cit., p. 394-395.
72 Dovrebbe trattarsi di un’insegnante di Musica, stando ad altro passo del Diario del 13 ottobre 1796.
73 Cfr. il cit. La filosofia della voluttà.
74 E’ inevitabile pensare ad un non casuale accenno autobiografico, in questo passo. Quella «mobilità e delicatezza» dei nervi, viene sempre rimproverata a Bertòla soprattutto dalle sue donne. Isabella Teotochi definisce appunto «delicati» i suoi nervi. Albetta Vendramin chiama «delicata» la sua tempra. Cfr. A. MONTANARi, Lumi di Romagna. Il Settecento a Rimini e dintorni, Rimini 19932, p. 52.
75 La lettera si conclude con questo passo: «Io avea scritto fin qui, quando ricevo la sua de’ 7. corrente. E quanto alle diverse cose che in questa mi scrive, mi rimetto all’ultima mia, la quale soddisfa appunto a ciò ch’Ella oggi mi scrive. Intorno al letto prego oggi di nuovo il Signor Conte Marcelli. Segua a studiare di proposito la musica. Soprattutto stia in buon animo; e profitti delle lunghe riflessioni contenute in questa lettera. Presenti i miei ossequj alla sua Signora Maestra; e mi creda sempre. La mia salute è buona: Ella abbia cura del suo raffreddore».
76 Vi si parla, ad esempio, della «Bettina di Verona», cioè Elisabetta Mosconi, che torna spesso nelle lettere che si scambiano Bertòla e Pindemonte. E che quest’ultimo chiama «la nostra Bettina» (cfr. LUZZITELLI, op. cit., p. 138, lettera del 25 giugno 1795). Su Elisa Mosconi, basti il ricordo che ho inserito nel testo, fra qualche riga. Qui aggiungo soltanto che ella manifestò a Bertòla insinuazioni frutto di gelosia, a proposito di quella Orintia Romagnoli (già apparsa alla nota 60): cfr. il cit. La filosofia della voluttà, p. 73.
77 Esse si trovano nel cit. FPS.
78 Nell’epistola di Teresa Edwards del 5 marzo 1796, FPS 60.382, leggiamo (come si vedrà): «so a chi scrivo, e so che scrivo una lettera».
79 Successivamente incontriamo la citazione di una «zia Maddalena».
80 Bertòla viene chiamato «Conte» anche nell’indirizzo delle lettere di Teresa Edwards.
81 Ronconi è personaggio che ricorre spesso nelle cronache politiche successive all’invasione napoleonica della Romagna, dove si trova ricordato come «Commissario del Potere Esecutivo». Nelle lettere conservate in FPS, è riportato soltanto il suo cognome con il quale unicamente egli si firma. Il nome lo ricavo dal vol. LII degli Inventari dei Manoscritti delle Biblioteche d’Italia, dedicato a Pesaro (Firenze 1933, p. 279), ove si legge che Filippo Ronconi è «vissuto tra la fine del sec. XVIII e la prima metà del XIX», e che «fu professore di belle lettere e di storia nel Liceo di Faenza»; all’indice di altro volume degli stessi Inventari, il XCVII (Firenze 1980), si precisa la sola data di morte, avvenuta a Roma nel 1820. Nelle Schede Gambetti della BGR, ad vocem, leggo che nel 1798 a Rimini apparve un Discorso costituzionale recitato dal Cittadino Ronconi (conservato nella stessa BGR, con segn. 11 MISC. RIM., XI, op. 9).
82 Ronconi scrive da Pesaro, e Bertòla si trova a Rimini.
83 Cfr. in una lettera riportata infra (FPS 62.37), questo passo: «Il Monistero chiamasi La Purificazione; e ve ne è d’uopo sortendo dalla vostre mani».
84 La lettera termina definendo Bertòla uno «fra i primi uomini del secolo».
85 Questa, come la successiva ed ultima lettera (FPS 62.38), manca pure dell’indicazione del luogo. Nell’ultima però si precisa essere scritta da Cattolica, dove «non v’ha stanza che pescatori ed amanti». Nella stessa missiva, Ronconi si dipinge come uomo che trascorre il suo tempo in due occupazioni: «il passar non poch’ore su delle piume ch’amor sprimacciò nel grembo di voluttà con il dolce nettar di vita, che largamente compensi l’uom frale d’ogni disastro», e con lo scrivere versi.
86 Un riflesso dei tempi (con pure un’annotazione biografica per Bertòla), ritroviamo nel passo successivo della lettera: «E’ soverchio, che meco vi difendiate da delitti che non avete: li vostri pari sono sciolti da ogni noja sociale. Chi deve tutto alla posterità, e non vive che per l’onore dell’ingegno umano, non può mettersi in bilancia col volgo inoperoso [...]».
87 Cfr.la cit. appendice al Diario, lettera FPS 63.50.
88 Cfr. il foglio volante che comprende il periodo primo aprile 1797-11 maggio 1797. Le spese per il mantenimento di Serafina Mularoni sono registrate nel secondo fascicolo del Diario alla data del 9 novembre 1796.
89 E’ la zia cit., come si è visto, il 2 gennaio 1795 (FPS 60.378) da Teresa Edwards.
90 Sul fronte della casa rurale, esistente in via Santa Cristina n. 74, si legge questa epigrafe: «Eretta nell’anno 1868 dal cav. Gianfrancesco Guerrieri sulle ruine della modesta abitazione in cui villeggiava il poeta Aurelio De’ Giorgi Bertòla». Nel cartone XV del «Fondo Luigi Tonini» trovo un duplice appunto con questi testi: «Il Cavaliere Gianfranc. Guerrieri nel MDCCCLXVIII innalzò questa casa sulla rovina di quella che fu delizia di Aurelio de’ Giorgi Bertola poeta»; «Qui villeggiava il Poeta Aurelio de’ Giorgi Bertola. E se nel 1868 sulla ruina di quel modesto abituro Gianfranc. Guerrieri ebbe a innalzar questa casa curò ne restasse ai futuri almen la memoria».
91 Bertòla consegna questo testamento al parroco di Santa Maria in Trivio (Chiesa di San Francesco, ossia Tempio Malatestiano), padre Francesco Maria Veroli, nella cui giurisdizione ecclesiastica rientrava il palazzo dei Martinelli. Nel registro dei defunti, padre Veroli lo chiama «Civis Ariminensis». Soltanto il notaio lo definisce anche «Sacerdote». Il testamento è negli Atti Notaio Nicola Masi 1798, ASR.
92 Cfr. FPS 63.147. A lei lascia una «manzola, che trovasi nella stalla del podere del casino» di San Lorenzo, «per assistenza usatami negli ultimi giorni». Nel testamento si legge anche che a Maria Mingoni erano lasciati cento scudi «in benemerenza d’aver servito la mia casa per anni quattordici, oggi governante in casa Soardi».
93 Si legge nel testamento: «Avendo io ricevuti molti considerabili benefizi e segnatam(ente) un ajuto in denaro per l’aquisto di un Podere, e Casino nella Par(rocchi)a di S. Lorenzo a Monte dalla Cittadina Orintia Sacrati nata Romagnoli di Cesena, lascio alla med(esim)a a titolo di Legato detto Podere, e Casino, compresovi un Campo da me ultimamente aquistato dalla famiglia Lettimi». Tutta la vicenda della compra del casino e delle contese giudiziarie, è stata da me ricostruita nel cit. Diario, passim.
94 Le citazioni della Cronaca cittadinagiornaliera del canonico PIETRO SENNI, sono tolte dalla trascrizione fatta dal compianto prof. Umberto Foschi che me ne ha fornito gentilmente copia, per la parte relativa al triennio 1796-99. L’originale è nell’Archivio Capitolare di Cervia. Estratti della stessa Cronaca sono stati pubblicati dal prof. Foschi nel suo volume Cervia tra il Settecento e l’Ottocento, Ravenna 1998, pp. 27-32 («I Francesi a Cervia»). Nello stesso testo, si veda alle pp. 39-41 la biografia del canonico Senni morto nel 1801 ad 86 anni di età.
95 Cfr. A. MONTANARI, Dalla città nuova ai Francesi. Aspetti di vita sociale nel Settecento, in «Storia di Cervia, III. 1. L’età moderna», a cura di D. BOLOGNESI, Rimini 2001, pp. 363-364.
96 La lettera (n. 135) si trova nel codice 28 dell’Epistolario Amaduzzi, della Biblioteca dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone (BFS). Il clima esistente in Francia nel periodo che precede la convocazione degli Stati Generali, è descritto da un corrispondente parigino di Amaduzzi, Chardon de la Rochette, trasferitosi a Roma, dove compone la lettera datata «6 avril 1789»: «In tutte le province si fanno le elezioni de’ deputati agli Stati Generali e per conseguenza regnano in ogni parte del regno de’ torbidi, delle dissociazioni ma quel gran fuoco si va spegnendo poco a poco. Già dappertutto i preti e i nobili hanno rinunziato a’ loro privilegi ed esenzioni di dazi. Speriamo con fondamento che quelli Stati non solo ritorneranno il nostro regno all’antico splendore il quale si era già svanito per l’ignoranza o la malvagità di certi ministri; ma stabiliranno una Costituzione che ne renda gli abitanti felici e sicuri sotto la protezione delle leggi troppo spesso calpestate da chi ne doveva essere il sostegno». (Lettera n. 189 del codice 15 dell’Epistolario Amaduzzi, BFS.)
97 I capifamiglia o titolari di contratto di affitto del 1708 sono 125 in tutta Cervia Nuova.
98 Cfr. FGLB, ad vocem.

Antonio Montanari


All'home page de il Rimino
All'indice de il Rimino
All'indice di Riministoria
Al sito http://digilander.libero.it/antoniomontanari
Per informazioni scrivere a monari@libero.it.


685/Riministoria-il Rimino/15.04.2004/versione definitiva con aggiunte al testo a stampa
19.09.2004/aggiunte e correzioni
http://digilander.libero.it/monari/spec/diamante.685.html