Riministoria

Antonio Montanari

Tra erudizione e nuova scienza

I Lincei riminesi di Giovanni Bianchi (1745)

 

10. Sulla crisi dei Lincei, 1761

 

Nei Congressi letterari del 1761 (che attestano un’attività accademica successiva al 18 aprile 1755, in cui furono tenute le due ultime dissertazioni registrate negli atti planchiani), Bianchi riprende il tema della crisi dei Lincei, già accennato in altre due occasioni, come abbiamo visto: nel 1751 con il «prologo Zamponi» [208], a proposito della negligenza degli Accademici che intervenivano raramente alle radunanze; e nel 1755, con la prefazione a due sue epistole mediche [209], sulle adunanze non frequenti perché molti accademici abitavano fuori Rimini. Forse a tale crisi è legata l’accettazione da parte di Planco, nel 1756, della carica di principe dell’Accademia modenese dei Medici Conghietturanti [210]. «Recherà forse meraviglia», dichiara Bianchi all’inizio dei Congressi letterari, «che dopo due anni io ora torni ad aprire i congressi letterari della nostra accademia, ma i meglio informati non si maraviglieranno punto, considerando che molti de nostri accademici sono in altri luoghi trapassati, ed alcuni anche sin morti, onde solamente qui in due i tre siamo rimasti». Ma costoro, aggiunge Bianchi, sono tutti occupati «in molti affari e di premura», per cui non possono comporre

 

dissertazioni da recitarsi qui ogni settimana, come quando eravamo molti, una volta si faceva, od in ispazi di tempo più lunghi, come dopo s’incominciò a fare, avendo osservato che sul principio tanto i nostri accademici di Rimino quanto quei di fuori componevano più facilmente loro dissertazioni da recitarsi qui, perché io aveva loro suggeriti argomenti generali per far vedere al Pubblico l’utilità della geometria, o quella della fisica, o della lingua greca, o della poesia, o della musica, o d’altra scienza, o d’altre cose d’erudizione in generale […].

 

Sottolineando il rapporto che è sempre esistito fra l’Accademia ed i propri allievi, Planco scrive [211]:

 

ho procurato che i Giovani della nostra Scuola espongano varie Tesi e che le difendano per avvezzarli ad essere atti a tratar cose particolari, quando nell’età saranno più maturi, ed alcuni in questo non piccola disposizione dimostravano animati anche dalla presenza di valorosi uditori, che loro applaudivano, ma essendo mancato anche questa, essi sembra, che si sieno, come raffreddati, onde io non so come anderemo avanti, tanto più che nella Città nostra essendo ora cresciuto il numero delle Scuole, queste vengono a distruggersi l’una coll’altra per la scarsezza degli Uditori, che ha ciascuna, né per avventura possono i Giovani ricevere que’ Lumi, che una volta da una sola copiosamente ricevevano. Ma di questo sia come si voglia, finché io avrò vita non cesserò giammai di animare la Gioventù, che mi frequenterà ai buoni studi, e quando per me si potrà, aprirò i pubblici Congressi della nostra Accademia facendo anche pubbliche le cose particolari, che in essa da me, o da altri si reciteranno.

 

La missione educativa che Bianchi ha sempre svolto e di cui andava giustamente orgoglioso, lo ha portato a pubblicare nel 1751 un elenco dei propri scolari, dove incontriamo nomi di personaggi divenuti importati a livello nazionale e locale, in ambito religioso, culturale o medico [212]. A quell’elenco, dobbiamo aggiungere un altro nome, quello già più volte ricordato di Giovanni Cristofano Amaduzzi [213], protagonista non sempre riconosciuto della scena religiosa e culturale della fine del secolo XVIII, per il suo ruolo tra i cosiddetti giansenisti italiani, e per i tre Discorsi filosofici con cui rovescia le posizioni emergenti dalle leggi accademiche planchiane, e si fa portavoce delle istanze del nuovo pensiero, incontrando pericolose opposizioni, e subendo violenti attacchi da cui lo salva il suo essere romagnolo come il pontefice di allora, il cesenate Pio VI. Fu Amaduzzi, come racconta una minuscola biografia di Planco attribuita a Battarra [214], a far ottenere al proprio maestro da un altro papa romagnolo, Clemente XIV, il raddoppio dello stipendio e la nomina a medico segreto onorario del pontefice [215]. A sua volta Bianchi, citando i favori ricevuti da Clemente XIV, inserisce anche i due incarichi attribuiti dal papa ad Amaduzzi: la cattedra di Greco alla Sapienza, e la Soprintendenza della Stamperia di Propaganda Fide [216].

Amaduzzi, per ragioni anagrafiche (è nato nel 1740) appartiene alla generazione successiva a quella degli accademici planchiani, tra cui figura lo stesso Battarra, scienziato degno di citazione, ed il cui nome serve sia per dimostrare gli effetti dell’insegnamento di Bianchi, sia per attestare il superamento dei limiti teorici e dottrinali dei Lincei, così come essi appaiono dalle loro Leggi. Battarra, ad esempio, scopre che la generazione dei funghi avviene «per semenza e non spontaneamente dalla putredine» [217], applicando correttamente il metodo di indagine sperimentale nei confronti di quella Natura che, con i suoi misteri, tanto appassiona Planco.

Su come Bianchi intendesse la Natura ed il rapporto che con essa stabilisce lo scienziato, c’è una sua illuminate osservazione nel «prologo Zamponi», dove egli si chiede come facciano i vermi ad entrare nel nostro corpo: «[…] col tempo si verrà in chiaro anche di questa cosa; giacché la Natura pare che ami di far palesi a poco a poco i suoi segreti» [218]. E’ una sentenza che, con una formula di apparente perfezione, sembra sigillare tutto il discorso scientifico in una solennità che dovrebbe spingerci a considerare la Natura quale depositaria della Sapienza da essa somministrataci. L’opinione di Planco rimanda al pensiero di Epicuro, secondo cui le cose si rivelano a noi attraverso il «flusso» che esse emettono [219]; pensiero che Bianchi aveva conosciuto certamente attraverso Diogene Laerzio: «è per la penetrazione in noi di qualcosa dall’esterno che vediamo le figure delle cose e le facciamo oggetto del nostro pensiero» [220]. Quanto l’immagine offertaci da Bianchi sia distante dalle pagine che in quegli anni apparivano nell’Encyclopédie, lo dice il confronto di essa con una semplice citazione da Diderot [221]:

 

Noi disponiamo di tre mezzi principali: l’osservazione della natura, la riflessione e l’esperimento. L’osservazione raccoglie i fatti; la riflessione li combina; l’esperimento verifica il risultato di questa combinazione. Occorre che l’osservazione della natura sia assidua, che la riflessione sia profonda e che l’esperienza sia esatta. Di rado si trovano uniti questi mezzi; ed anche i geni creatori non sono comuni.

 

Non soltanto per quella condizione di contraddittorietà che sembra segnare ogni umana esperienza, ma anche per la dialettica tra gli opposti che segna inevitabilmente ogni cammino culturale, Planco da un lato rimanda ad un pensiero antico, più da erudito ‘vecchia maniera’ che da vero scienziato moderno; e dall’altro con le sue indagini si oppone a tutti i sistemi superati o tradizionali della Filosofia, soprattutto a quelli aristotelico-tomisti, come abbiamo visto a proposito del De monstris. In quest’ultima opera egli inoltre dimostra essere inaccettabile la visione moderna d’un Leibnitz che teorizzava l’armonia universale in nome del principio che «natura non facit saltus» [Nuovi saggi, IV, 16]. I casi che Bianchi presenta, smentiscono senza clamore, ma pericolosamente rispetto all’ortodossia cattolica, ogni presupposto metafisico di quest’armonia. E lo avvicinano al naturalismo al quale Gassendi aveva aperto una nuova strada, con la rivalutazione di Epicuro [222], proprio in contemporanea all’operato di Voltaire il quale nel 1759 in Candide, mediante la figura caricaturale di Pangloss [223], demolisce ogni concezione ottimistica.

Bianchi raggiunge lo stesso risultato procedendo attraverso la ricerca scientifica, con un itinerario sempre oscillante tra linee divergenti, ma senza però interpretare i significati dei risultati a cui perviene sotto l’aspetto filosofico, e forse senza essere consapevole del carattere eversivo dei suoi studi. Nell’identificare la Filosofia con la Scienza, egli sfugge al dilemma metafisico che la prima comporta, mentre la seconda gli appariva slegata rispetto alla Religione né coinvolgente sul piano teologico. In questo modo, aldilà dei limiti soggettivi che sono conseguenza di quello che abbiamo definito il suo «errore epistemologico», Planco manifesta un comportamento che lo accomuna a tanti altri intellettuali del suo tempo, ben rilevabile da un passo di Eugenio Garin:

 

chiaramente si mostra come nei «moderni» fisica cartesiana e movimento epicureo-lucreziano-gassendista tendessero a concorrere a un medesimo punto, per andare ad incontrarsi con l’eredità galileiana e magari ad alimentarsi finalmente delle conclusioni della filosofia della natura di Telesio, Bruno e Campanella. Sì che il Vico riusciva ad istituire un paragone, che era un riavvicinamento, tra Renato ed Epicuro, essendo a suo parere la fisica del primo «macchinata sopra un disegno simile a quello di Epicuro» [224].

 

La passione erudita non faceva cogliere a Planco l’inconciliabilità tra i contenuti dell’opera di Lucrezio e la dottrina cristiana. Il culto della poesia, così forte in Bianchi, lo portava a tradurre anche quest’autore [225], dove però non poteva trovare né spunto né conferma ai propri studi, come dimostra proprio la questione dei mostri che nel De rerum natura è considerata quale momento iniziale della lenta formazione della specie [226]:

 

Cetera de genere hoc monstra ac portenta creabat,

nequiquam, quoniam natura absterruit actum

nec potuere cupitum aetatis tangere florem

nec reperire cibum nec iungi per Veneris res [227].

 

Queste dissonanze riflettono i segni di un cammino non soltanto personale, ma più generale della cultura settecentesca, alla cui storia appartiene pure l’avventura dei Lincei riminesi [228]. Proprio per questi motivi, essa non va ridotta ad un episodio tra lo stravagante ed il pretenzioso, essendo qualcosa di più che un fenomeno di esibizionismo culturale, come talvolta è stata considerata.

 

 

Ringrazio sentitamente per la preziosa collaborazione ricevuta, la dottoressa Paola Delbianco, benemerita responsabile della sezione manoscritti e fondi antichi della BGR; il prof. conte Gian Ludovico Masetti Zannini; il prof. Dino Pieri, segretario della Società di Studi Romagnoli, per avermi suggerito di partecipare al Convegno sulle Accademie romagnoli, con una comunicazione da cui è nato questo scritto; lo storico dottor Enzo Pruccoli di Rimini, per il materiale fornitomi; l’Accademia dei Lincei di Roma nelle persone delle dottoresse Ada Baccari, direttore della Segreteria, e Rita Zanatta dell’Archivio; la dottoressa Maria Chiara Roncuzzi, al tempo, della Biblioteca dell’Accademia dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone; i servizi di Prestito Interbibliotecario della BGR, della Biblioteca Comunale di Faenza, e della Biblioteca interdipartimentale di Magistero, Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari (nella persona del dott. Filippo Gurrieri); ed il personale tutto della BGR.

Un ricordo particolare debbo riservare al compianto Accademico dei Lincei prof. Giancarlo Susini, alla cui memoria sono legati miei grati sentimenti per cordiali conversazioni concessemi.

Altre notizie sulla figura di Bianchi, si possono trovare in Internet, nel mio sito Riministoria, all’indirizzo: <http://digilander.libero.it/monari>; oppure in quello Iano Planco all’indirizzo: <http://digilander.libero.it/ianoplanco>. Mio indirizzo e-mail: <monari@libero.it>.

 

 

 

 

 

[208] Cfr. il cit. fasc. 219, FGMB, e la relativa nota nel cit. Codex, c. 16v.

[209] Cfr. il cit. Codex, c. 20v.

[210] Cfr. A. Turchini, Scienza e cultura a Modena: l’attività dell’Accademia dei «Conghietturanti» (1751-1764), in Accademie e culture, Aspetti storici tra Sei e Settecento, Firenze 1979, pp. 273-287. Le dissertazioni proposte da Bianchi a tale Accademia per il 1757 furono pubblicate dalle Nov., XVIII, 7, 18 febbraio 1757, coll. 98-99, sotto la data non di Modena ma di «Rimino». Ricordiamo che il 7 settembre 1754 Bianchi era stato ascritto alla Crusca: cfr. lettera in tale data di Lami (FGLB, ad vocem). Nelle SG, ad vocem, troviamo elencate le onorificenze attribuite a Bianchi: «Famigliare del card. Cornelio Bentivoglio» (1727); accademico dei Filomati di Cesena (1731), degli Apatisti di Firenze (1742), accademico «Fiorentino» (1745), dei Catenati di Macerata (1751), «Etrusco» di Cortona, dell’Accademia di Storia ecclesiastica di Lucca, e dei Georgofili di Firenze (1753), della Crusca (1754), del Buon Gusto di Palermo, degli Erranti di Fermo (1755), degli Agiati di Roveredo (1756); accademico dell’Accademia Botanica e di Istoria naturale di Cortona (1757), dell’Accademia di Scienze e Belle Lettere di Berlino (7 settembre 1758), dell’Accademia Fulginia di Fuligno (1759), della Repubblica Letteraria degli Umbri di Fuligno (1761), dell’Accademia Botanica di Firenze (1762), dei Fisiocratici di Siena (1763), dell’Accademia di scienze di Mantova (1765), dei Sepolti di Volterra (1766). Inoltre, nelle stesse SG, si riportano il diploma di aggregazione nel Collegio dei Filosofi e Medici in Venezia (1760) e quello di «Principe dell’Accademia dei Congetturanti di Modena» del 4 gennaio 1757, confermato nel 1765 «usque ad aras». Le Nov., XVII, 31, 30 luglio 1756, coll. 487-490, pubblicano una lettera di Bianchi (del 3 luglio) in occasione della sua nomina tra gli Agiati di Roveredo, in cui leggiamo che esisteva a Rimini da più di cento anni l’Accademia degli Adagiati: essa «per essere di Poesia, come tant’altre d’Italia, ora è stata come assorbita e confusa da quella degli Arcadi della Colonia Rubiconia, dedotta quì in Rimino sessant’anni sono, cioè fin da’ primi anni della fondazione dell’Arcadia di Roma, i cui Vicecustodi fin da quel tempo senza alcun interrompimento quì sono sempre durati, e durano ancora».

[211] Il brano, che appartiene alle cc. 4-5 del fasc. 75, FGMB, è del tutto inedito. Esso manca nel cit. Turchini, Scienziato, maestro e uomo di cultura, pp. 26-27, ove di questi Congressi letterari del 1761 si dice invece che sono attribuibili al 1755.

[212] Cfr. alla nota 77 l’elenco apparso nei Recapiti (1751), pp. VI-VII.

[213] «Il Liceo privato istituito e gestito a Ri­mini da Giovanni Bianchi, venne frequentato anche da Giovanni Cristofano Ama­duzzi. Preziosa testimo­nianza dell’attività didattica che vi si svolgeva, sono i sette compiti (finora inediti), as­segnati da Planco e svolti da Amaduzzi, ora conservati nella Biblioteca dell’Accademia dei Filopatridi. Della loro esistenza ho dato per primo notizia nel 1992 nel volume Lumi di Romagna (nota 1, p. 102). Amaduzzi, in una pagina anch’essa inedita (Manoscritti n. 33, c. 35, [BFS]), scrive di sé: “Ha atteso per sette anni allo studio della Filo­sofia e Lingua Greca sotto la disci­plina del Ch: Dott. Gio­vanni Bianchi”. I compiti si riferiscono agli anni 1757-59. La frequenza del Li­ceo planchiano è relativa al periodo 1755-62. Nel 1762 in­fatti Amaduzzi, all’età di 22 anni, viene avviato a Roma dal suo mae­stro. Gli argomenti dei sette compiti svolti da Amaduzzi sono relativi alla Filosofia e alla Scienza, e propongono questi ar­gomenti: l’impossibilità di difendere il sistema to­lemaico; la funzione della lo­gica artificiale come propedeutica alle altre Scienze; la forza elettrica; gli spi­riti degli animali bruti; la sede nel cer­vello degli affetti dell’animo; i nervi dell’udito; la digestione. L’esperienza di Amaduzzi nel Liceo pri­vato di Planco ha un suo molteplice si­gnificato. Il savignanese conosce argo­menti filoso­fici che in seguito approfon­dirà e svilupperà in tre impor­tanti Discorsi (una cui sintesi è nella mia Appendice alla ristampa anasta­tica de La Filosofia alleata della Religione che dei tre Di­scorsi è il secondo). Inoltre Amaduzzi si accosta a problemi me­dici ai quali non sarà mai indiffe­rente, se raccoglierà nella propria biblio­teca (ora presso i Filopatridi), molti opuscoli che ne trattano. Infine l’esperienza con Bianchi lascerà in Amaduzzi una traccia nel terzo Di­scorso, Dell’indole della verità e delle opinioni, dove (p. 51) l’ex allievo pole­mizza con l’antico mae­stro, quasi a vo­lere insinuare che Planco nulla avesse compreso delle teorie di Newton. [...] In sostanza, Bianchi appariva più come un vecchio umanista che un nuovo filo­sofo dell’età dei Lumi. Di ciò si ha con­ferma se si confrontano i titoli dei com­piti asse­gnati da Planco con gli ar­gomenti affrontati negli stessi anni su periodici e libri scienti­fici. Planco ap­pare su posizioni incerte ed arretrate. Costringere gli allievi a spiegare che il sistema tolemaico non poteva essere di­feso “nulla ratione”, a oltre due secoli dall’opera di Copernico, significava di­scutere di argomenti polverosi, mentre la Nuova Scienza percorreva le strade d’Europa. Planco sembra riproporre ai suoi allievi gli stessi argomenti da lui studiati qu­and’era giovane, prima a Rimini e poi a Bologna. Nella terminologia usata in quei temi liceali, ci sono talora ri­cordi cartesiani, come là dove si parla di “spiriti ani­mali” (si veda al proposito il cap. XVII del Discorso sul metodo). Altri argo­menti (sede degli affetti, digestione), vanno invece in dire­zione opposta, ne­gando le tesi di Descartes.» Cfr. i citt. I compiti del giovane Amaduzzi alla scuola riminese di Iano Planco; ed Amaduzzi e la scuola di Iano Planco.

[214] Si tratta del necrologio apparso sulle nuove Nov. di Firenze, VII (nuova serie), 1776, 2, coll. 21-27 e 3, coll. 37-41. Questo «compendio dei pregi d’un tanto letterato», si dice comunicato «da uno dei migliori suoi Allievi», in aggiunta all’autobiografia latina. Battarra stesso è definito «noto Naturalista» (col. 37). Circa la paternità dell’articolo, essa fu dapprima attribuita ad Amaduzzi medesimo («che per qualche tempo fu discepolo del nostro Monsignore», come leggiamo a col. 25): cfr. Elogio dell’abate G. C. Amaduzzi ... scritto dall’abate don Isidoro Bianchi, p. 59, nota 14. Tale Elogio, recitato dall’autore a Mantova il 29 novembre 1793, apparve a stampa a Pavia l’anno successivo (Amaduzzi era scomparso il 21 gennaio 1792). Secondo il medesimo Amaduzzi, l’Elogio in memoria di Iano Planco poteva invece essere attribuito al ricordato Battarra o forse ad «un tal Drudi, medico che studia ora a Firenze» (cfr. Fabi, Aurelio Bertòla e le polemiche, cit., p. 24, lettera a Bertòla). Lorenzo Drudi «fu un sapiente Medico, profondo filosofo, libero Pensatore, e in ogni genere di letteratura assai erudito, e buon critico, gran Bibliografo», nonché bibliotecario della Gambalunghiana tra 1797 e 1818: cfr. Urbani, Raccolta…, cit., p. 265. (Planco, nel proprio testamento, lo aveva inserito nella terna di nomi tra cui scegliere l’incaricato per la sua orazione funebre, assieme a don Giovanni Paolo Giovenardi, che poi la compose, ed al dottor Cesare Torri di Jesi.)

[215] Ibid., alla col. 25.

[216] Cfr. Nov., I (nuova serie), 30, 27 luglio 1770, coll. 471-474, cit.

[217] Per una breve biografia di Battarra, cfr. il cap. 2, Giovanni Antonio Battarra, Filosofia e funghi, in Lumi di Romagna, cit., pp. 19-26.

[218] Prosegue il testo, riprendendo un concetto già espresso nella parte che in precedenza abbiamo ricordato: «né questi [segreti] mai a gente oziosa fa manifesti, ma solamente a quei che assiduamente, e da vicino la contemplano, né in vani amoretti con femminucce si perdono o al solo vile guadagno attendono [...]». (Cfr. fasc. 219, FGMB.) L’insegnamento di Bianchi, se in taluni momenti piegò verso il dogmatismo dell’erudizione «oratoria o all’antica», in molti altri invece ebbe come prima caratteristica l’invito alla curiosità, all’aggiornamento, al commercio epistolare ed intellettuale, secondo i canoni di quella parte della società settecentesca che tendeva più al rinnovamento che alla conservazione. (Nel cit. Raimondi, Ragione ed erudizione, sulla scia di L. A. Muratori, si contrappone ad un’erudizione «oratoria o all’antica», quella «di gusto moderno, sul tipo scientifico, [...] legata allo spirito critico e nutrita di ragione moderna», p. 141.)

[219] Cfr. Epicuro, Opere, Milano 1993, p. 353.

[220] Cfr. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Milano 1993, p. 417. Abbiamo già ricordato che nel cit. fasc. 315, FGMB, è presente una versione in latino della Vita di Epicuro di D. Laerzio.

[221] Cfr. Gli Illuministi francesi, a cura di P. Rossi, Torino 1962, p. 196. Desidero citare da questa traduzione, per collegarmi idealmente, tramite un volume usato nei miei studi universitari, all’esperienza fondamentale avuta al Magistero di Bologna, nel Corso di Storia della Filosofia (materia in cui ho discusso la tesi di laurea), con il prof. Paolo Rossi, fresco titolare della Cattedra. Come Giovanni Bianchi ricordava i propri scolari, allo stesso modo l’antico allievo oggi vuole testimoniare riconoscenza verso un grande Maestro avuto negli anni giovanili.

[222] Cfr. C. Borgero, L’egoismo e il benessere, in Storia della Filosofia. 4. Il Settecento, cit., p. 186.

[223] Pangloss sentenzia che Leibnitz non poteva «pas avoir tort» (cap. XXVIII). In un’edizione su Internet, a cura di C. Paganelli e S. Seghetti, si trova la traduzione (di ignoto) apparsa nel 1882 presso l’ed. Sonzogno, nella collana Biblioteca Universale, con un capitolo decimo («Candido continua i suoi viaggi. Nuove avventure») che non corrisponde a quello originale di Voltaire. Merita riportarne qualche passo, dove ripetutamente torna il nome di Leibnitz: «Voi siete dunque cartesiano, dicono i viaggiatori. - Senza dubbio, risponde Candido, e, quel ch’è più, seguace di Leibnitz. - Tanto peggio per voi, soggiungono i viaggiatori; Cartesio o Leibnitz non avevano senso comune. Noi altri siamo neuttoniani, e ce ne gloriamo, e se si disputa, è solamente per affondarci ne’ nostri sentimenti, e siamo tutti d’un istesso parere. Cerchiamo la verità sulle tracce di Newton, perché siamo persuasi che Newton è un grand’uomo. - Anco Cartesio, anco Leibnitz, anco Pangloss, disse Candido, son grandi uomini, che non cedono a un altro. [...] Avete voi letto le verità che il dottor Clark dà in risposta a’ sogni del vostro Leibnitz?». (Samuel Clark, 1675-1729, compose il volume Sull’esistenza e sugli attributi di Dio, 1705, e fu in aspro scambio epistolare con lo stesso Leibnitz.)

[224] E. Garin, Storia della filosofia italiana, II, Torino 1966, pp. 872-873.

[225] Cfr. Collina, op. cit., p. 89.

[226] Cfr. P. Casini, L’ordine della natura, in Storia della Filosofia. 4. Il Settecento, cit., p. 211. Scrive il cit. Mamiani, La struttura dell’universo, p. 4, che «la diffusione del poema di Lucrezio, e con esso della fisica atomistica ed epicurea, aggiunse [...] un nuovo elemento di complessità» alla ricerca scientifica «che avrebbe sempre più preso le distanze tanto dalla magia ermetica quanto dalla matematica simbolica».

[227] Cfr. Libro V, vv. 845-848: «Generava ogni sorte di mostri e prodigi, / ma invano, poiché la natura ne impedì la crescita: / quei mostri non poterono raggiungere il fiore desiderato dell’età, / né trovare cibo, né congiungersi nell’atto di Venere» (cfr. trad. di L. Canali, Milano 1994, p. 487). Il tema è ripreso nella Lettera sui ciechi, 1749, da Diderot che «condivide - e soprattutto osa esporre a stampa - i rudimenti di una teoria biologica ‘trasformistica’»: cfr. Casini, L’ordine della natura, cit., p. 211.

[228] Dei Lincei riminesi hanno anche trattato B. Odescalchi, Memorie istorico-critiche dell’Accademia de’ Lincei e del Principe F. Cesi, Roma 1806, pp. 291-303; C. Giambelli, L’Accademia dei lincei, «Nuova Antologia», 1 marzo 1879, p. 142.

 

 

 

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