Antonio
Montanari
Tra
erudizione e nuova scienza
I Lincei riminesi di Giovanni
Bianchi (1745)
2. Il progetto
culturale di Bianchi
La rifondazione dell’Accademia di Cesi,
dai documenti esistenti nella Biblioteca Civica Gambalunghiana di Rimini [18], risulta come momento iniziale di un
progetto di più ampio respiro che avrebbe dovuto articolarsi anche
nell’impianto di una stamperia con iniziative editoriali sotto
l’insegna della Lince [19].
Alla base di questo progetto «geniale, quanto poi sfortunato»,
probabilmente non c’è soltanto la necessità di avere a
disposizione strumenti mancanti in una città di provincia come Rimini,
sprovvista ad esempio di «librai che rileghino, o che acconcino
libri» [20],
ma anche il desiderio di imitare, se non superare, i risultati di altre imprese
culturali, quali le fiorentine Novelle letterarie [21]
di Giovanni Lami [22],
l’editore della sua autobiografia latina. Pure il concittadino Giuseppe
Malatesta Garuffi poteva rappresentare per Bianchi un modello da emulare [23]. Garuffi fu sacerdote e direttore della
Biblioteca Gambalunghiana dal 1678 al 1694; tra l’altro,
compilò una storia delle accademie italiane, L’Italia
Accademica (il cui primo ed unico volume
a stampa [24],
non piacque a Ludovico Antonio Muratori), ed a Forlì nel 1705
animò il Genio de’ letterati [25]. Garuffi aveva avviato un ampio programma [26], sotto il titolo di Bibbioteca
Manuale degli Eruditi [27], con
Accademia e stamperia, a cui sembra rimandare quello analogo di Bianchi. Di
Garuffi, Planco avrebbe voluto scrivere una biografia per i Memorabilia di Lami [28].
Bianchi, per il fallimento del suo tentativo
avrebbe potuto accusare, come già aveva fatto nel 1735 a proposito della
gestione della Civica Biblioteca di Rimini, l’insensibilità dei
pubblici amministratori che «non curano libri e librerie perché
sono tutti ignoranti e vigliacchi» [29]. Ma la Municipalità allora era
troppo occupata a gestire una complessa situazione economica, causata da
continue emergenze militari, carestie e necessità collettive [30], per poter pensare al finanziamento di
iniziative editoriali private, per quanto importanti esse fossero.
Accanto al quadro locale, va considerato
altresì quello generale dello Stato della Chiesa che, ovviamente, si
ripercuote in ambito cittadino e sulla vicenda personale di Planco, come
dimostra la rapida ed «improvvisa» (così la chiama Garampi),
condanna all’Indice emessa il 4
luglio 1752 contro la sua dissertazione accademica sull’Arte comica. Anzitutto dobbiamo ricordare che, nei confronti dello
stesso nome dei Lincei, c’è una posizione pregiudiziale di
ostilità, storicamente radicata e motivata, da parte della Chiesa, come
emerge dalla parole di Maylender:
La Congregazione dell’Indice era stata
anche troppo indulgente verso la scientifica assemblea. Il Duca
d’Acquasparta, nipote del Cardinale Bartolomeo Cesi, aveva intime
relazioni ed amicizie cogli uomini i più influenti della Corte
pontificia. Certi riguardi bisognava perciò usare di fronte a sì
illustre e considerato personaggio. Ma alla sua morte [di Federico Cesi, 2
agosto 1630, n.d.r.] il
Sant’Uffizio si sarà probabilmente adoperato affine
l’Accademia non si risvegliasse [31].
Per risultare gradita ‘alli
superiori’, inoltre, l’iniziativa di Bianchi aveva caratteri troppo
avanzati, sotto molti profili, rispetto a quelli della cultura ufficiale
romana, che era in prevalenza improntata all’«erudizione storica ed
antiquaria» [32],
ed era condizionata da un ferreo rispetto dell’ortodossia, e quindi si
dimostrava del tutto diffidente verso i nuovi orientamenti scientifici (dei
quali Planco è un sostenitore) e, soprattutto, verso la nuova Filosofia.
Locke, ad esempio, è messo all’Indice il 19 giugno 1734. Già nel 1722 a Rimini il
vescovo Davìa nella propria diocesi aveva avversato la diffusione del
pensiero di Locke. In tempi successivi egli avrebbe presieduto la Congregazione
dell’Indice [33] svolgendo un ruolo fondamentale nella
condanna del 1734 di quest’autore che dodici anni prima aveva considerato
«cento volte più pericoloso del Machiavelli» [34]. Ciononostante Planco riconosce al
vescovo Davìa di aver di aver introdotto da noi «puriorem
philosophiam», cioè quell’«ottima filosofia»
che Davìa aveva studiato a Bologna, e che egli fece insegnare a Rimini.
Per questo fatto Bianchi attribuisce a Davìa il merito di aver tolto
Rimini «dalla barbarie, nella quale ci avevano tenuto quei che prima
della sua venuta qui d’amaestrare la gioventù professarono» [35]. Secondo Planco, Davìa è
uno spirito innovatore per aver chiamato ad insegnare nel Seminario riminese
alcuni «valenti Professori» [36], tra i quali ricorda due medici, Felice
Palese («morto Primario Professore del Collegio Borbonico di
Palermo» nel 1740) e mons. Antonio Leprotti [37], divenuto in seguito archiatro
pontifico. Leprotti aveva convinto il giovane Bianchi ad intraprendere il corso
studi nel quale si laureò [38].
L’attenzione dimostrata dal vescovo Davìa verso la Medicina,
è un fatto significativo nel contesto ecclesiastico del tempo, rispetto
al divieto di esercitarla, imposto dal Diritto canonico a tutte «le
Persone consagrate all’amministrazione de’ Sagri Misteri» [39] e rispetto alla opinione che stava alla
base dello stesso divieto, e che è bene illustrata da un anonimo scritto
riminese [40]
in cui, della professione sanitaria, si dà un’immagine degradata
al punto da chiamarla «arte di toccagione della persona», la quale
oltretutto obbliga a visitare il cesso degli infermi «per riconoscere gli
escrementi», ed a fare «crestieri a uomini, donne e
fanciulle», per cui non poteva essere svolta dal clero senza profanare
«la santità del ministero» e prostituire «il regal
Sacerdozio».
L’ostilità della gerarchia
ecclesiastica verso il nuovo pensiero è ricordata da Planco
nell’autobiografia latina [pp. 354-355], quando scrive che ad un padre
dei Minimi riminesi, Giovanni Bernardo Calabro, fu imposto dal suo Generale di
rientrare «nell’accampamento dei Peripatetici». Le
«ciarlatanerie dei Peripatetici», scrive Aurelio De’ Giorgi
Bertòla nell’Elogio di Don Giacinto Martinelli [1781], «non avevano migliore asilo (la
verità è dura, ma pur troppo incontrastabile) che la più
parte delle case religiose d’Italia» [p. 7]. E padre Martinelli,
«appena andava egli penetrando nei profondi ripostigli della buona
Filosofia» [p. 9], fu «indietro richiamato»: siamo attorno al
1740, cioè vicinissimi al tempo in cui prende forma il progetto
planchiano dei Lincei riminesi.
Davanti allo scontro tra
l’aristotelismo interpretato in una chiave esclusivamente dogmatica, e la
ventata rivoluzionaria portata dalla rilettura di Epicuro attraverso Gassendi,
Planco sposa la causa delle innovazioni introdotte dalla fisica di quest’ultimo
[41], assumendo una posizione eretica, della
quale non dovettero successivamente dimenticarsi i suoi avversari in campo
ecclesiastico. Ma l’opposizione tra la cultura peripatetica e la Nuova
Scienza torna pure, in maniera diretta ed in forma non risolta, anzi con tutto
il senso di un’insanabile contraddizione, proprio nelle leggi lincee
elaborate da Bianchi e contenute nel Codex accademico [42],
laddove si sostiene che «niente è migliore e più utile che
diligentemente indagare su quanto, per un dato argomento, hanno
espresso i dottissimi filosofi e gli uomini eruditissimi: tuttavia, ai
loro pareri, e l’investigazione della stessa natura, e le proprie
osservazioni, e il confronto su tutte le cose, e l’uso di discutere
singolarmente su quella parte che sia più vera, aggiungano anche il [nostro]
giudizio». Dunque: prima
vengono i pareri dei «dottissimi filosofi», poi
«l’investigazione della stessa natura». Si accantona
così, nella maniera più semplice ed evidente, il metodo
della «sensata esperienza», originando un’altra divergenza
totale, tra la pratica scientifica ed un modus operandi intellettuale il quale nega i presupposti della stessa
pratica scientifica. Il sapere di cui si parla nelle leggi accademiche è
più tolemaico che copernicano; più incatenato all’ipse
dixit del moderno aristotelismo, che
aperto ai temi pre-illuministici.
Per Planco ciò significa conflitto tra
la sua funzione di scienziato (che, in quanto tale, deve attribuire all’osservazione
diretta un primato assoluto), e quella di reggitore di un’Accademia la
quale, come detta la sua prima legge, dev’essere
«aristocratica» [43].
Dietro questa enunciazione c’è un particolare modo di intendere la
cultura come riservato dominio dell’uomo dotto, il quale gode del
privilegio di sentenziare soltanto grazie al suo ruolo di maestro, ed
indipendentemente dalla validità scientifica dei risultati a cui
perviene, intesa quest’ultima secondo i canoni galileiani [44]. A tali canoni si richiamò
Aurelio De’ Giorgi Bertòla quando, scrivendo un polemico
necrologio per Planco [45],
sottolineò che questi era stato «osservatore giudizioso della
Natura, ma poco amico di quella massima legge: Niun esperimento dee farsi
una sol volta». Bertòla,
accusato [46]
di essere caduto, scrivendo quelle parole, in una «contraddizione chiara,
e madornale ma compatibile in un Giovane Scrittore» ed in «un Poeta
pasciuto di notturni sogni» [47],
fu difeso da chi [48]
rincarò la dose contro lo scienziato riminese:
In fatti Giano fu Filosofo, ed osservò
con giudizio la Natura, ma poi all’incontro, non poté mai
soggettare il suo fervido ingegno a ripetere più, e più volte gli
esperimenti, poiché egli amava per carattere la varietà, quindi
ne nacque, che quelle cose, che potevano osservarsi con sollecitudine erano dal
Signor Bianchi esattamente vedute, ma dove poi face d’uopo per
rintracciare la verità una lunga serie d’esperienze, non era
questo lavoro per lui, e ne abbandonava l’impresa, o se pure voleva
seguirla il facea con lentezza, ed il più delle volte con infelice
successo.
Bertòla non era stato educato alla
scuola di Planco, ma da un allievo del medico riminese, quel Francesco Maria
Pasini che nel 1745 è accademico dei rinnovati Lincei e poi vescovo di
Todi [49].
Nella carriera del medico Bianchi
c’è un episodio che rivela una contaminazione con la sua condotta
da rifondatore dei Lincei, e che vede la sua attività scientifica
soggiacere all’atteggiamento culturale del «dotto».
L’episodio riguarda la polemica sull’innesto del vaiolo, in cui
Planco interviene nel 1759 con parere negativo, a fianco di un altro medico, il
conte Francesco Roncalli Parolino [50],
il quale fu accademico dei Lincei riminesi. Al proposito, sul Caffè Pietro Verri ebbe ad osservare che «al fondamento
delle opposizioni del signor dottor Bianchi è questo ch’ei chiama effatum
philosophicum, cioè che quidquid
recipitur, ad modum recipientis recipitur»
[51]. L’«enunciato
filosofico» di cui parla Planco, trasferisce nel campo medico una
concezione già di per sé opinabile in quello gnoseologico; e
rimanda a teorie messe in ombra dalle nuove idee del sensismo alla Condillac,
con le quali si rovescia l’impostazione presente in Planco, sostenendo
che «l’uomo è soltanto ciò che ha acquisito», e
non che le cose sono ciò che l’uomo conosce di esse [52].
Per un fenomeno riguardante la Medicina,
Bianchi usa un tipo d’indagine che su di essa non può operare
perché non ricorre alla metodologia idonea alla materia sulla quale
interviene. Questo errore epistemologico ci è confermato da una sua
lettera indirizzata a Giovanni Lami [53],
dove egli inserisce «la quistione dell’innoculazione» tra le
«cose letterarie» da discutere, magari nel «miglior
latino», con il quale mandare «al diavolo tutti i pretesi calcoli
[…] e tutte le altre ragioni sofistiche de’ fautori
dell’innoculazione, giacché tutti costoro non sono filosofi e meno
medici, ma sono sfaccendati […]». Planco tuttavia, e lo apprendiamo
dal suo grande allievo Giovanni Cristofano Amaduzzi, cede «in appresso
all’evidenza del buon esito» dell’innesto del vaiolo,
«con quel candore, e coraggio, che suole ispirare l’amore della
verità nei cuori degli uomini grandi» [54]. L’errore epistemologico di
Bianchi, d’altro canto, rispecchia l’esperienza culturale del primo
Settecento quando, ad esempio, nella studiatissima fisica cartesiana, il
ragionamento matematico ha «una funzione prevalentemente retorica» [55]; e quando si considera tutta
l’esperienza scientifica soltanto sub specie philosophiae, andando alla ricerca di un principio unificante
dell’attività conoscitiva [56],
senza distinguere tra i singoli territori (e strumenti) di Scienza e Filosofia,
come invece faranno gli Enciclopedisti, rivolti a sistemare [57] le conoscenze differenziandole tra loro,
pur conservando un presupposto d’identità di «Filosofia o
Scienza», ma con la volontà di sostituire il secondo termine al
primo, per cui essi parlano di Scienza di Dio, dell’uomo e della natura,
a sua volta distinta, quest’ultima, in Fisica e Matematica. Dalla
tripartizione dipendono a grappolo tutte le altre materie. Così, ad
esempio, nel «sistema figurato delle conoscenze umane», dalla
Fisica particolare deriva la Zoologia dalla quale ‘scendono’ poi
l’Anatomia e la Medicina [58].
E’ grazie a Locke che
l’«Europa éclairée» conosce quella che Sergio
Moravia chiama la «liberalizzazione epistemologica», la quale
approda a molteplici opzioni metodologiche grazie alla lezione
dell’empirismo, che sostituisce «tutta una serie di categorie o di
strumenti di indagine con altri strumenti e categorie» [59].
[18] Cfr. Masetti Zannini, Carta e stampa,
cit., passim.
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