Riministoria 

Antonio Montanari

Tra erudizione e nuova scienza

I Lincei riminesi di Giovanni Bianchi (1745)

 

9. Le rivoluzione anatomica

 

Riferendosi ai propri Lincei, nel «prologo Pilastri» Planco scrive inoltre che, pur essendo le «cose di Notomia» state trattate «in queste nostre Raggunanze varie volte», mai però nessuno ha «lo studio della Notomia generalmente commendato». Il rimprovero è attenuato da un’aggiunta: «questo veramente potrebbe sembrare essere stato fatto, perché […] non avesse mestieri d’alcuna nostra commendazione». In genere nelle «altre Città minori», prosegue Bianchi, questa disciplina era trascurata. Non così è successo a Rimini, grazie al vescovo Davìa il quale aveva chiamato in città il medico Leprotti, «celebre Notomista» che «moltissime sezioni di cadaveri Umani qui fece», avendo come allievo lo stesso Planco. Bianchi infine ricorda:

 

sembra che la Notomia in Arimino mestier non dovesse avere di commendazione alcuna, giacché i buoni studj tutti dovrebbero essere in grande onore avuti, e tra questi la Notomia massimamente, ma pure con mio dispiacere debbo dire, che essa insieme con altri buoni studj, non è in quel grado avuta, che una tanta cosa si dovrebbe avere, essendovi chi per una cosa schifosa, e semplicemente curiosa, e di niun’utile la tengano, e chi altre strane opinioni d’essa [h]anno, che qui non fa luogo a rammentare, ma che danno bensì un grandissimo argomento della Barbarie di quei, che le portano.

 

Questa appassionata difesa della «necessarissima scienza» dell’Anatomia, oltre agli aspetti autobiografici relativi all’esperienza senese ricordata nello stesso «prologo Pilastri» [201], ed all’attività accademica riminese, ci rimanda pure ad un discorso più generale che richiede un breve accenno, necessario anche per inquadrare gli aspetti personali appena ricordati. In genere, nei confronti dell’Anatomia, si manifestava una sostanziale ostilità per motivi diversi e convergenti nello stesso tempo, molto bene spiegati da Elena Brambilla [202] in una pagina dove si fanno queste tre fondamentali osservazioni: l’Anatomia «metteva in forse la distinzione di rango tra medici e chirurghi, professione liberale ed arte meccanica, nobiltà della teoria e viltà del lavoro manuale»; la sua pratica «vedeva scontrarsi, sul cadavere, la competenza del medico con quella del prete, il rito funebre contrastare il passo all’autopsia» [203]; infine, «su quello stesso cadavere la teoria poteva essere smentita dalla pratica, e il paradigma medico, con le sue radici filosofico-teologiche nell’invisibile, essere confutato dall’osservazione visibile». Quest’ultimo aspetto interessa particolarmente il nostro discorso, perché ci permette di cogliere tutta la forza rivoluzionaria che la pratica anatomica porta con sé. Essa infatti rovescia la metodica delle conoscenze: non si parte più dalla pagina scritta per applicare al caso esaminato le indicazioni teoriche consacrate dalla tradizione, ma con l’osservazione diretta attuata mediante la dissezione del cadavere, si inizia il procedimento che vuole concludersi nella descrizione di un rapporto causa-effetto. In tal modo, si demolisce il castello dell’ortodossia scolastico-aristotelica, affermando la necessità di una nuova «base filosofica della medicina pratica», e propugnando una «emancipazione delle scienze fisiche dalla teologia» [204].

E’ fondamentale notare come la scienza medica, agli inizi del Settecento, sia arretrata rispetto ad altri settori della conoscenza quali quelli frequentati, ad esempio, da Muratori che, nelle Riflessioni sopra il buon gusto intorno le scienze e le arti (1708), traccia un itinerario con cui si rovesciano i procedimenti convenzionali, e si permette al filosofo di approdare «col raziocinio» a «verità nuove o pruove e ragioni e notizie non prima udite, non prima osservate, e per avventura correttive de’ dogmi antecedenti» [205]. Questa concezione della Filosofia, nel sistema delle relazioni interne che uniscono le varie linee parallele del sapere, si presenta come elemento che, anziché segnare le rispettive differenze, ne sottolinea i denominatori comuni, in quella prospettiva che oggi a noi pare come un rinnovamento radicale delle conoscenze, e che parte dalla grande lezione della Risposta apologetica di Malpighi, il quale annunciava: «l’osservare non è mestiere così facile, come altri pensa», in quanto «vi vogliono grandissime cognizioni per dirigere il metodo, copiosissima serie d’osservazioni per vedere la catena e il filo che unisce il tutto, una mente disappassionata con finezza di giudizio» [206].

Perché la rivoluzione della Nuova Scienza potesse agire nella cultura e nella società, occorreva modificare la ratio studiorum delle Facoltà universitarie, passando da un tipo di erudizione come sistema di contenuti, ad un modello di erudizione come «metodo, contrapposto a quello del commento e dell’amplificazione retorica delle auctoritates, da applicare allo studio dei documenti della natura non meno che della scrittura» [207]. E’ in fin dei conti quello stesso metodo che Muratori, nelle parole che abbiamo riportato dalle Riflessioni, delinea per il «vero erudito» che «altri non può essere che il filosofo». Su questo sfondo vanno collocate l’esperienza personale e quella lincea di Planco specialista in Notomia, ma nello stesso tempo preoccupato di non tralasciare «altre cose d’erudizione in generale», come leggiamo in un suo testo del 1761, significativamente intitolato Congressi letterari della nostra Accademia [fasc. 75, FGMB]. Qui egli si preoccupa di segnare i limiti della propria esperienza di maestro, quando precisa che nelle varie radunanze non si trattano questioni o materie in particolare, perché esse richiedono

 

che pensiamo gli argomenti da noi medesimi, e che con nostre proprie ragioni ed osservazioni gli confermiamo, il che quanto sia malagevole a farsi, ognuno da se il può comprendere, e la sperienza continova il dimostra, la quale fa vedere che eziandio nelle più copiose Accademie d’Europa, quali sono quelle di Parigi, di Londra, di Pietroburgo, di Berlino, di Bologna, pochissime sono le dissertazioni di quegli accademici sopra cose particolari, e che contengano veramente qualche cosa di nuovo e di particolare.

 

La limitatezza dell’ambiente riminese da una parte, e dall’altra la pretesa di paragonarsi con istituzioni non soltanto più illustri ma anche di più ampio respiro, costituiscono un’evidente contraddizione che Bianchi in sede ufficiale tralascia. Egli comunque avverte la distanza tra la funzione pedagogica, di grande rilievo storico, che giustamente si attribuisce, ed i risultati concreti i quali, mentre essa si svolge, non possono che essere generalmente ridotti rispetto alle sue aspirazioni.

[201] Qui Bianchi ricorda, come già abbiamo visto alle note 2 e 38, che la sua chiamata a Siena era avvenuta «senza nessun mio previo impegno». Possiamo aggiungere che questa nomina provocò, secondo il presente scritto di Planco, l’invidia di «Toscani, e Lombardi, ed altri d’altre Nazioni»; e che «gli Effetti della quale Invidia» allora si andavano «anche pubblicamente veggendo». Di questi effetti, c’è una testimonianza in un epitaffio senese in cui Bianchi è definito «più sacrilego e osceno di Calvino»: cfr. Collina, op. cit., p. 26.

[202] Cfr. E. Brambilla, La medicina del Settecento: dal monopolio dogmatico alla professione scientifica, in Storia d’Italia. Annali 7. Malattia e medicina, Torino 1984, p. 12.

[203] In SG, ad vocem, viene elencata la sua Istanza autografa a Benedetto XIV «per ottenere di fare le sezioni di Cadaveri», nella quale «fu segnata la grazia con Rescritto dei 18 aprile 1745».

[204] Ibid., p. 14.

[205] Cfr. E. Raimondi, Il barometro dell’erudito, in Scienza e letteratura, Torino 1978, p. 58.

[206] Ibid., pp. 57-58. Cfr. anche il cit. Modelli letterari, p. 282.

[207] Cfr. Brambilla, op. cit., p. 15.

 

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