Antonio
Montanari
Tra
erudizione e nuova scienza
I Lincei
riminesi di Giovanni Bianchi (1745)
8. Sul fine delle Accademie
Nello stesso «prologo Pilastri»,
Bianchi tratta anche dell’attività dei Lincei riminesi, facendone una
specie di bilancio. Egli ricorda che, su suo consiglio, sùbito dopo la
fondazione, alcuni degli Accademici «lodarono allora con loro
dissertazioni, chi la Filosofia in generale, chi le Matematiche scienze, e chi
l’utilità della Lingua Greca» [198]. Qualche pagina dopo, esamina il fine
per il quale
sembra che le Academie siano principalmente
state fondate, cioè o perché cose nuove, per beneficio del
Publico si ritrovino, o che le già ritrovate con nuove Osservazioni
s’accrescano, e si migliorino, e non perché ci fermiano solamente
a lodare in generale le cose, che si fanno, o che rifriggiamo le cose
già dette da cent’altri, benché il far questo anche per li
meno ammaestrati non sia del tutto disutile, o meglio sia che l’affatto
tacersi, e nel vile ozio marcirsi.
Già un mese prima, il 30 aprile 1751 in occasione
del «prologo Zamponi», come si è visto, Bianchi aveva messo
sotto accusa il disinteresse dimostrato dagli accademici verso le sue
radunanze. Nel «prologo Pilastri», il rimprovero che accenna al
«vile ozio» è meno severo e polemico, anche soprattutto
perché le parole di Bianchi assumono un tono più scientifico,
inquadrate come sono all’interno di un tema frequentemente trattato in
quel secolo, quello sul fine delle Accademie. Ne aveva parlato nel 1703
Lodovico Antonio Muratori, con i Primi disegni della repubblica letteraria
d’Italia [199]; e ne
discuterà nel 1776 Amaduzzi, riproponendo l’esempio dei Lincei di
Cesi, «la primogenita di tutte le Accademie scientifiche, che fu cuna
d’una migliore Filosofia» [200].
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