Antonio
Montanari
Tra
erudizione e nuova scienza
I Lincei
riminesi di Giovanni Bianchi (1745)
6. Le dissertazioni
accademiche (II)
Dissertazione n. 25:
l’11 febbraio 1752, «ultimo venerdì di carnovale»,
l’Accademia tiene un’adunanza straordinaria e
«solenne», con musica ed esibizione della «venusta»
cantante ed attrice Antonia Cavallucci in Celestini [135]: «deinde Plancus maiusculam
dissertationem habuit de praestantia Artis comicae, seu comoediae» [136]. Il caso che nasce in seguito a questa
radunanza di «carnovale», coinvolge in apparenza soltanto la
persona di Bianchi, ma finisce per avere conseguenze pure per la sua Accademia.
Esso culmina nella già ricordata condanna all’Indice, e si articola in due distinti momenti, che meritano di
essere analizzati ai fini della storia dei Lincei riminesi. Inizialmente Planco
viene attaccato soltanto per l’ospitalità concessa in casa propria
ad una cantante che, oltretutto, si esibisce nel corso di una riunione lincea;
poi egli è denunciato al Sant’Uffizio per il contenuto della sua
dissertazione. I due momenti si tengono strettamente tra loro: entrambi
sembrano aver origine in un atteggiamento pregiudiziale nei confronti
dell’attività e dei comportamenti scientifici di Bianchi, e che
mira a rendergli sempre più difficile l’attività
accademica.
E’ già stato
ricordato che «quell’esibizione incontrò, nel concerto di
polemiche a non finire, anche la disapprovazione di accademici» [137] risentiti e scandalizzati come Lodovico
Coltellini, il quale approva la diceria in sé («Lodo, e lodai la
sua lezione sull’arte comica»), ma ritiene inopportuno
«lodare una bagasciuola, una puttanella dichiarata, che tali sono
generalmente queste contrabbandiere, che millantano il nome di virtuose» [138]. Non era soltanto Coltellini, a
pensarla così a proposito delle attrici. Il celebre padre Daniele
Concina, «violento e torrentizio teologo domenicano» [139], le definisce «putiduae
meretriculae», leziose puttanelle, in un volume apparso nello stesso
1752, nel quale in tutta fretta, mentre già i torchi erano al lavoro,
aggiunge un paragrafo dedicato proprio all’Arte comica del nostro medico, accusato di scrivere da pazzo [140]. Il teatino padre Paolo Paciaudi
definisce la Cavallucci un’«infame sgualdrina» e
«cortigiana svergognata», d’accordo con Giovanni Lami che la
definisce semplicemente, alla francese, una «figlia di gioia» [141]. Allineati con tutti costoro dovettero
essere anche gli ecclesiastici curiali cittadini, se il caso genera quelle che
un corrispondente romano di Planco, Giuseppe Giovanardi Bufferli [142], chiama «illustrissime, e
Reverendissime insolenze, che mal’a proposito si sono fatte al degnissimo
Dottor Bianchi»: della «sua stravaganza in proposito della Signora
Antonia Cavallucci si è qui parlato quanto forse non sarassi parlato in
Rimino», per merito soprattutto del vescovo della città,
Alessandro Guiccioli [143].
I difficili rapporti fra Bianchi e la Chiesa riminese non sono una novità:
i primi contrasti risalgono addirittura al 1726, dopo che il vescovo
Davìa rinuncia alla carica [144].
E di certo non migliorano quando Planco si pone in diretta concorrenza con le
istituzioni culturali ecclesiastiche che, come lui stesso ricorda, entrano in
crisi dopo la contemporanea partenza da Rimini di Davìa e di Leprotti [145]. Questa situazione di contrasto dovette
durare a lungo, sino alla morte di Planco, se il vescovo di Rimini nel 1777, il
forlivese Francesco Castellini, non voleva che fosse stampato l’elogio
funebre di Bianchi, scritto da Giovanni Paolo Giovenardi [146].
Giovanardi Bufferli chiama
«lodevole» il contegno assunto da Bianchi «nel rimettere a
Bologna [147]
con tanta sollecitudine la medesima Signora Antonia», e spiega che
attende «con desiderio» la dissertazione sull’Arte comica, «tanto più che un certo Frate Scolopio [148] stamperà tra non molto certo
libro, con cui intraprende tra l’altre cose a sostenere che questi Comici
furono mai sempre infami». Giovanardi Bufferli aggiunge il 18 marzo:
[…] io sono
impaziente di leggere la di lei dotta Dissertazione, al sentimento della quale
sarà forse presso che uniforme quello d’un’opera, che ora
stassi scrivendo da questo Padre Bianchi famoso Zoccolante Lucchese [149], ed à V. S. Ill.ma molto ben cognito in proposito
dell’antico, e moderno teatro [150].
Appena ricevuta a Roma una
copia dell’Arte comica,
Giovanardi Bufferli la consegna in lettura «in autorevoli gentilissime
mani», e ne chiede altri esemplari «per sodisfare all’erudita
curiosità» di alcuni amici [151]. Da Bologna monsignor Giuseppe Pozzi [152] ironizza, privilegiando l’aspetto
dei rapporti personali di Bianchi con la Cavallucci, rispetto a quello relativo
al contenuto del saggio, che ai suoi occhi passa in secondo piano:
Ho letto l’orazion
vostra, e ad altri Amici l’ho comunicata. Tutti concludono che facendola
eravate innamorato, mà parimenti tutti conchiudono, che siete un
valent’uomo, e benche l’Amore nella vostra, e nella mia età
non possa far che un nido assai disaggiato, pure merita compatimento, quando ne
escono pulcini sì ben covati …[153].
Bianchi dovette smentire
la teoria dell’innamoramento [154],
se Pozzi gli rispose:
Che voi foste innamorato,
o nò della Cavallucci non avete à rendermene raggione, e qual sia
stato l’impegno vostro non cerco, non intendo che vi confessiate ora
de’ peccati vostri. Unicamente, io alla buona vi dico che avete gittato
il tempo, e che è meglio assai né impegnarsi né per
maschij né per femmine [155].
Anche dopo la scomparsa di
Bianchi, il suo preteso innamoramento continuò a suscitare polemiche se
non scandalo, come dimostra la breve biografia di Planco apparsa ne Il
Giornale di Medicina [156] in cui si
legge:
Amò stranamente per
pochi mesi, mentr’era sessagenario, una Comica Romana, che avea nome Antonia
Cavallucci, alla quale compose e fece stampare alcune sue Poesie. Per essa
recitò e stampò il suo Discorso sull’Arte Comica, il quale
ha poi meritata la indignazione della Sacra Congregazione dell’Indice.
La difesa che fu tentata
da mano anonima, sottolineava che «l’Amore in Medicina viene
considerato trà le Cagioni Procatartiche della Sanità, se
moderato ed onesto» [157].
Nel caso specifico, per Bianchi, quell’avventura «anzi che
avvilirgli lo spirito, contribuì a suscitargli vieppiù pellegrini
soliti frutti della dotta Sua mente», cioè lo portò alla
stesura dell’Arte comica.
Nella sua dissertazione,
Planco s’avventura in un terreno particolarmente pericoloso. Non gli
interessa infatti tracciare soltanto un profilo storico dell’arte
teatrale, sottolineandone l’utilità, ma vuole con elegante
sottigliezza (diremmo, più giuridica che letteraria) rimettere in
discussione il trattamento riservato dalla Chiesa agli «istrioni»,
privati ancora allora in Francia dalle leggi canoniche «fino de’
Sagramenti, e dell’Ecclesiastica Sepoltura». Bianchi precisa che le
leggi civili non si riferiscono agli attori «in genere», ma a
quelli che si esibiscono in «alcuni crudeli, e osceni spettacoli, e
specialmente de’ Gladiatori, e de’ Mimi, o Pantomimi» (che
ricorrono ad «oscenità» nei loro «sozzi
atteggiamenti»), per cui meritatamente sono puniti essi, e sono
«scomunicati» quanti vanno a vederli. Tutt’altra cosa,
aggiunge, sono «quegl’Istrioni, o Commedianti» i quali
rappresentano «Tragedie, o Commedie oneste più atte a correggere
piacevolmente il vizio, che ad eccitare spirito di crudeltà, o di
libidine nelle persone». A sostegno delle proprie idee, Bianchi cita san
Tommaso, il quale ritiene che «l’Officio dell’Arte degli
istrioni […] è ordinato per sollevar l’animo degli uomini, e
che coloro che l’esercitano dentro de’ debiti modi, non sono mai in
istato alcuno di peccato; e che a loro si conviene una giusta mercede per le
loro fatiche». Planco infine si chiede: se la Chiesa permette la lettura
delle commedie di Plauto e Terenzio [158],
allora non si dovrebbe permettere anche la loro rappresentazione? Perché
debbono essere considerati «infami» quei comici che «le
rappresentano venalmente», mentre «diventano onesti quei che le
rappresentano gratis»?
Come risulta da questi
passi, lo scandalo che avvolge la radunanza accademica «di
carnovale», ha le sue radici, più che nell’esibizione della
bella cantante romana, nelle ardite opinioni del Restitutore dei Lincei: con severo
puntiglio padre Concina le esamina minuziosamente, e con durezza le censura nel
suo De spectaculis [159]. Planco considererà padre
Concina il vero ed unico responsabile della sua condanna [160]. Sostenendo retoricamente la
nobiltà dell’arte comica, Bianchi finisce per proclamare in modo
non troppo sottinteso il bisogno di libertà per la cultura in genere [161], e non soltanto per commedianti od
attricette in particolare. A Planco non interessa proporre una riforma del
teatro comico come invece, molto prima di lui, aveva fatto Muratori [162], preoccupato per ragioni di ordine
morale del fatto che la scena fosse finita «in mano a gente
ignorante» che poneva «tutta la sua cura in far ridere»,
ricorrendo ad un genere letterario consistente «non poca parte […]
in atti buffoneschi e in sconci intrecci, anzi viluppi di azioni ridicole, in
cui non troviamo un briciolo di quel verisimile che è tanto necessario
alla favola». Bianchi rovescia l’impostazione muratoriana, di cui
ignora le finalità: egli non vuole un teatro nuovo, ma semplicemente la
licenza di rappresentare quello antico, del quale non mette in discussione nulla,
consapevole della grandezza letteraria di quegli autori, come Plauto e
Terenzio, che lui stesso, come si è visto, ricorda nel passo riportato.
I fulmini dell’Indice si abbattono sul capo di Bianchi [163], con il decreto [164] del 4 luglio 1752. Possiamo ricostruire
tutti i particolari della vicenda, attraverso le lettere [165] che nel 1752 Giuseppe Garampi e Planco
si scambiarono, ed altre epistole di corrispondenti romani di Bianchi [166], l’avvocato Gianfelice Garatoni,
monsignor Marcantonio Laurenti e l’abate Costantino Ruggieri. L’Arte
comica è stampata in marzo, ed
immediatamente a Roma [167]
se ne parla male. Il 26 aprile Garampi, subito dopo averla ricevuta, confida a
Planco di prevedere che l’opera «potrà incontrare presso
varie persone qualche eccezione». I punti controversi sono due, gli
spiega il 6 maggio: «quello ch’ella dice della onoratezza
dell’arte comica presso i Romani; giacché abbiamo gli antichi
Giuristi, che l’annoverano fra’ le infami, e non sò se da un
passo di Livio pure si raccolga lo stesso. Ma io non ho avuto il tempo di
riscontrarlo». Ed «il vedere, ch’ella contrapponga
all’osservanza che praticano i Francesi delle Canoniche Leggi, quanto si
fà dalla Chiesa protestante d’Inghilterra». Bianchi nel Discorso [pp. 18-19] sostiene che
l’invitta e gloriosa
Nazion Britannica non ha avuto difficoltà di fare seppellire
solennemente in Londra nella cattedrale di Westimster, Chiesa, dove si
coronano, e dove si sepelliscono i loro Re, la valorosa e ricchissima non men
che bella loro Attrice Madamigella d’Oldfield, rendendole in morte per
poco i medesimi onori, che poc’anzi renduti aveano all’immortale
loro Filosofo Newton [168].
Il 20 maggio l’abate
Ruggieri avvisa Planco:
mi dispiace che qui in
Roma i vostri nemici ne [h]anno fatto un chiasso straordinario per quel
paragone che voi fate fra il rigorismo,
come voi dite, della Chiesa di Francia, colla generosità di quella
d’Inghilterra nel dar sepoltura magnifica a quella loro famosa Attrice.
Veramente la cosa è un poco avanzata, né dovevate voi far questo
paragone fra la Chiesa Anglicana Eretica e la Gallicana Cattolica. […]
Insomma [h]anno fatto un baccano grandissimo per tutta Roma in tutti i ceti e
ranghi di persone; e vi è stato chi ha detto di denunciarvi al S.
Uffizio. Queste cose mi sono dispiaciute in etterno, ed ho fatto, e fò
quanto posso per difendervi con dire che questa [è] una cosa fatta in
Carnovale, onde non merita tanta dote. Voi sapete che jo vi sono buon e leale
amico, e che ho stima infinita de’ fatti vostri; e perciò mi sono
indotto a scrivervi tutto questo per vostra Regola.
Il 3 giugno lo stesso
Ruggieri suggerisce a Bianchi:
Quanto al vostro Discorso
dell’Arte Comica, credo che farete benissimo, ristampandolo, di togliere
quel paragone de’ Franzesi, e degl’Inglesi, che non fà buon
suono.
L’8 luglio Garampi
comunica:
Con mio sommo dispiacere
seppi ieri l’altro, che nell’ultima Congregazione dell’Indice,
essendo stata riferita la di lei Orazione in lode dell’arte comica, ne
fosse da’ Cardinali e Consultori variamente parlato, e che finalmente
s’indussero a proibirla. Questa proibizione, benché nulla offenda
l’erudizione e la sostanza dell’argomento, ma piuttosto paja
cagionata da una cautela di Ecclesiastica economia, nulladimeno, se ne avessi
avuto qualche sentore, si poteva facilmente riparare con esibirsi di meglio
dichiarare que’ sentimenti, che fossero stati censurati, ò di
farne una nuova edizione più corretta. Ma la cosa è stata
improvvisa, né io l’ho penetrata, se non dopo fatta già la
Congregazione.
Bianchi risponde il 13
luglio:
Anch’io sentii con
molto mio dispiacere nell’ordinario scorso che il Signor Abate Garatoni
m’accennasse nel fine d’una sua Lettera [169] come il Signor Abate Ruggieri gli veniva allora di dire
che nel giorno antecedente era stato proibito dalla S. Congregazione
dell’Indice il mio Discorso in lode dell’Arte Comica, il che mi
sento confirmato dalla sua gentilissima degli 8 del corrente, che ricevei ieri.
Veramente ancor io sarei stato prontissimo di far una Dichiarazione, o di far
una nuova Edizione dell’Operetta togliendo via que’ sentimenti, che
non piacessero, e di quest’ultimo me n’ero espresso anche col
signor Abate Ruggieri; ma ad un Giudizio fatto così alla sordina,
cioè indicta caussa, o inaudita
parte come dicono; non si può por
riparo. Se Ella credesse bene mandar un Memoriale a N. S., o alla medesima S.
Congregazione dell’Indice a mio nome, dicendo che io son pronto a far una
Dichiarazione de’ sentimenti censurati, o di fare una nuova edizione
costì corretta, per impedire che non si pubblichi ora codesto Decreto di
Proibizione, o almeno che si moderi con il donec corrigatur mi farebbe un molto favore.
Il 15 luglio Garatoni
comunica a Bianchi:
Il perché sia stato
proibito il vostro discorso sopra l’arte comica si è fondato
principalmente, per essere stato scritto in italiana favella, dicendosi che in
tal guisa s’insinuano negli animi di taluni più facilmente alcune
massime le quali pareano un po’ troppo avvanzate. Il Padre Abate
Monsecrati Lucchese dell’Ordine de’ Scopettini, il quale non volea
riferirlo, ma fù costretto a farlo [,] nella Congregazione
dell’Indice trattò da Galantuomo, perché
mostrò, che non meritava tanta severità, ma non giovò per
il riflesso dettovi di sopra. Questo è quello, che io vi posso dire. Se
desiderate maggiori notizie, forse ve le darà l’abate Ruggieri,
quando lo ricerchiate [170].
Il 25 luglio Garampi
precisa:
Il Padre Reverendissimo
Richini [171], che si
protesta di essere stato necessitato a fare riferire in Congregazione la di lei
Orazione, per replicate istanze di Prelati e persone, che dic’Egli di
distinzione, crede di non poterle suggerire nelle presenti circostanze migliore
partito, che quello di scrivere una lettera di sommissione a N. S.,
assoggettandosi e riconoscendo la giustizia della censura, e supplicandolo a
non volere almeno, che detta proibizione sia pubblicata nel Decreto, ò
che non vi comparisca il di lei nome; e ciò a fine di non soggiacere a
qualche impertinenza de’ suoi malevoli.
Veramente questa
proibizione non dovea farsi nella passata Congregazione, e giacché per
l’ordinario si fa riferire il libro censurato in due o tre Congregazioni.
Ma sento, che alla relazione allora fatta insorgessero varj Cardinali,
acciò il libro fosse proibito, avendone fatta gran specie quel contrapposto
della Chiesa Gallicana e Inglese, e quella lunga apostrofe alla Comediante [172]. Ma de hoc satis, giacché io di una simil cosa
carnevalesca, non pare che se ne dovesse fare tanto caso.
Il 3 agosto parte da Rimini
la risposta di Bianchi, improntata a scetticismo:
[…] io non so, se
con ciò si ottenesse niente, perché da quello che ella mi scrive
vedo che ci è stato molto impegno contro del mio Discorso, pel quale
senza sentir ragioni si volle ad ogni costo proscritto. Chi ha
quest’impegno per sostentarlo inquieterebbe N. S. e me, onde è
meglio a dargliela vinta per non dar occasione d’inquietarsi
maggiormente. Se poi qualche mio malevolo scriverà una qualche
impertinenza, la trascurerò, come tant’altre. Se bene che con me
s’è proceduto con un sommo rigore per una cosa finalmente che
è stata stampata in una Città Cattolica con tutte le Licenze
de’ Superiori, e che viene generalmente lodata da tutti i Letterati,
lasciandosi poi correre liberamente tante impertinenze stampate alla macchia
contro di me, e il più con nomi finti, cose in realtà non sono
che tanti Libelli famosi [173], come sono
appunto quelle cose di quel Prete che sta a Sinigaglia, che s’intitola Omireno
Bonodei, quelle di quell’altro
Prete di Modena, che s’intitola Ciriaco Sincero, quelle dei quei due Preti di Siena, Valentini, e Carli, e
finalmente quelle di questo, che s’intitola Gerunzio Maladucci, e d’altri. Io veramente, come scrissi al Signor
Abate Ruggieri avea intenzione di far ristampare quel mio discorso togliendoli
via l’esempio di quella Oldfield,
e mettendoci in suo luogo quello d’Isabella Andreini detta la Comica
gelosa, che fu onorata in Francia, come grande Dama, e che fu sepolta in Lione
solennemente con un Epitaffio in bronzo; benché io in quel luogo non
faccia alcuna comparazione tra Chiesa, e Chiesa, ma solamente tra Nazione, e
Nazione, e poco dopo io soggiunga, ma la nostra Santa Chiesa Cattolica etc., con ché vengo a dire che non sono cattolici, ma
eretici gl’Inglesi. Benché non tutte le cose che fanno, e che
dicono gli Eretici siano Eresie, come si vede in questa cosa, dove convengono
gl’Inglesi con noi, perché anche in Roma si seppelliscono in
Chiesa i Comici. Così io volea tor via a quel mio Discorso
quell’Apostrofe a quella Comica per miei privati riguardi, ma se io ce
l’avessi lasciata non vedo, come quell’Apostrofe avesse meritata
proibizione alcuna.
Ché io riconosco
maggiormente lo spirito d’impegno, che costì s’ha avuto
codesta proibizione, il quale spirito d’impegno peravventura sarà
stato fomentato di qua da chi ora non può più per sé
stesso fomentarlo, essendo passato tra i più, forse mandatoci prima del
tempo da chi egli si serviva per consiglieri nelle sue ingiustizie, e violenze.
Io veramente ancora dopo l’ultimo dì di Carnovale non voleva
parlar più di queste cose, ma sono stato costretto a parlarne,
giacché la persecuzione dura ancora, né la morte l’ha
potuta far cessare.
Nella parte conclusiva
della lettera, quando parla del proprio accusatore «passato tra i
più», Bianchi sembra chiamare in causa un personaggio locale
autorevole, come lo stesso vescovo di Rimini Alessandro Guiccioli, scomparso da
poco, l’8 maggio di quello stesso anno [174]. D’altro canto, come si è
visto, se Garampi accenna vagamente a «replicate istanze di Prelati e
persone, […] di distinzione», Giovanardi Bufferli parla in modo
esplicito di «illustrissime, e Reverendissime insolenze» e del
ruolo avuto dal medesimo vescovo Guiccioli nel diffonderle in Roma contro
Bianchi, circa la «sua stravaganza in proposito della Signora Antonia
Cavallucci». Il 12 agosto c’è una puntualizzazione di
Garampi, a conferma che la proibizione del libro è venuta
«unicamente per certa ammirazione, che ha data alle pie orecchie, la
semplice lettura di alcune poche espressioni o periodi. Almeno così mi
pare di avere ricavato da varj soggetti della Congregazione». Il 17
agosto Planco spedisce a Garampi la supplica da «presentare, o far
presentare» al papa «da persona a lui grata per vedere, se si
può ottenere la grazia» [175],
aggiungendo:
Io mi credeva veramente
che ci fosse stato dell’impegno per far quella Proibizione;
giacché il Signor Avvocato Garatoni m’avea scritto che
benché un Padre Abate Scoppettino, cui era stato commesso
d’esaminare l’Operetta ne avesse data buona Relazione, tanto
l’aveano voluta proibire; così ella m’avea scritto che era
stata proibita, come improvvisamente, e senza riferirla più volte, come
è solito a farsi quando si tratta di fare una proibizione. Se solamente
per la Lettura d’alcune poche espressioni, o periodi l’hanno
proibita, se io fossi stato avvisato con un Carticino, o due che si fossero
fatti si sarebbe potuto rimediare a tutto.
Il 31 agosto Planco, come
risulta dall’elenco della sua corrispondenza [176], scrive direttamente a papa Benedetto
XIV, con il quale poteva vantare un’antica amicizia [177]. Il 10 settembre Bianchi conferma a
Garampi che la sua lettera è stata presentata [178] al papa «il quale mi ha fatto
rispondere, che egli vedrà di fare quanto io disidero almeno per la
seconda parte». Stando alla cit. lettera garampiana del 25 luglio, questa
«seconda parte» dovrebbe riguardare la supplica a pubblicare la
condanna senza il nome dell’autore dell’opera messa all’Indice. Il papa, aggiunge Bianchi, ha poi promesso «che
con quest’altro spaccio avrà la degnazione di rispondermi».
Il pontefice non scrive a Bianchi, ma gli fa avere notizie tramite monsignor
Laurenti. Dalle lettere che Laurenti indirizza a Planco, possiamo ricavare
altri particolari sull’intera vicenda. Il 6 settembre gli scrive:
La hò subito
servita coll’umiliare alle mani di N. S. la lettera di V. S. Ill.ma e da
lui medesimo hò avuta commissione di scriverLe, che sà essere
vero il decreto già emanato dalla Congregazione dell’Indice, e
però non può impedire, che la cosa, che è già di
fatto, non lo sia, mà che dirà, che quando questo Decreto dovrà
propallarsi, si taccia in esso il nome di lei, come autore e lo che, dice il
Papa, è almeno desiderato, e chiesto da esso Lei: mi ha poi soggiunto,
che giovedì prossimo parlarà col Commissario e Segretario del S.
Offizio, e che indi responderà alla suddetta Sua [179]; e per me prendo la lusinga che N. S. farà il
fattibile per indennizzare la di Lei estimazione, e decoro, come cordialmente
Le auguro.
Il 16 settembre Laurenti
aggiunge:
Circa l’[…]
affare non ne hò più sentito parlare, e perché sò
che il Papa quando hà detto di fare una cosa, non si scorda di farla,
perciò mi lusingo, che già abbia parlato, e forse forse, che
abbiale scritto in risposta alla sua da me già presentatale: ma di
questi passi a me non è lecito per ora di interrogarlo se pure li
hà fatti, o nò: bisogna trovare le opportunità di
parlarne, le quali talvolta mi riescono facili, e pronte, e tall’altra
nò. In ogni modo Le predìco che non andarà male.
Il 21 ottobre Laurenti
spiega:
Questa mattina ho potuto
parlare a Monsignor Guglielmi Assessore del S. Offizio; e lo ho interrogato se
sà cosa divenisse nella Congregazione di certa dissertazione accademica
detta e stampata dal dott. Bianchi di Forlì in lode de Comici, e
Ballarini; egli subito mi ha risposto che ben si ricorda, che fu questa
proscritta, e che passò al Segretario dell’Indice, il quale poi la
fà stampare nel libro de libri proibiti, cioè aggiungere ai
già proibiti: ma mi assicurò che tali piccole cose non si
proibiscono pubblicamente e con strepito con cedole, che si attaccano per la
Città, e come dicesi ad Valuas: e mi soggiunse che ne parlerebbe col
Segretario dell’Indice Padre Recchini, che presentemente è fuori
di Roma, accioche accennasse l’operetta, ma non l’autore: ed
essendo questo Padre mio favorevole, lo pregarò similmente
anch’io, subito che tornerà in Città: tutto ciò
potrebbe avere già fatto il Papa medesimo e allora me ne chiarirò
[…].
Il 25 novembre Laurenti
comunica l’esito della vicenda:
Nostro Signore memore
della lettera scrittagli tempo fa da V. S. Ill.ma avant’ieri mi disse,
che aveva avuta opportunità di vedere, e parlare al Padre Segretario
dell’Indice, e inteso da questo che di fatto era emanato il decreto
proibitivo della consaputa sua operetta, e che il già registrato non
potevasi avere per non registrato, e che in seguito bisognava ò presto
ò tardi stampare in un foglio, o in un libro ed allora il Papa gli
ordinò che se pure era proscritta la dissertazione, non se le
aggiungesse il nome dell’autore, cioè di Lei, e così
certamente avverrà: e di questo,
mi soggiunse il Papa, ne darete contezza al Signor Bianchi, che
servirà per mia risposta alla di lui lettera con cui appunto mi pregava
che almeno non fosse enunciato pubblicamente il suo nome: nell’eseguire questo sovrano comando, mi
dò l’onore di riverirla […].
Il 29 novembre Garampi
conferma che il papa ha concesso a Bianchi di «tacere» il di lui
«nome nella pubblicazione, che si farà in breve del consaputo
decreto della Congregazione dell’Indice». Infatti, tale decreto ed
il successivo Index recano soltanto
il titolo dello scritto planchiano, Discorso (in lode dell’Arte
Comica), e non le generalità dell’autore. Ma Bianchi,
come lui stesso spiega a Garampi il 3 dicembre, vorrebbe che la sua
«Operetta» non «fosse esposta in quegl’Indici, che
s’affiggono». Garampi il 16 dicembre [180] gli risponde:
Il Padre Secretario
dell’Indice […] mi dice di non aver arbitrio alcuno per poterla
servire in quello ch’Ella gli richiede, senza un nuovo beneplacito del
Papa. Non sarebbe male ch’Ella scrivesse a N. S. una lettera di
ringraziamento per l’ordine già dato, affinché si taccia il
di lei nome, e quando ella pensasse di chiedergli nello stesso tempo questa
nuova grazia, ella faccia quel che stimerà più opportuno.
Il 21 dicembre Bianchi
confida a Garampi che non gli «dispiace il pensiero» di scrivere
«a dirittura» al papa «ringraziandolo, e pregandolo
dell’altro favore», ma di non avere, quel giorno, tempo di comporre
la lettera. Di questa lettera non si parla più nel loro carteggio:
è facile immaginare che Planco non l’abbia mai voluta scrivere.
Forse per superbia ed arroganza, secondo l’immagine convenzionale che di
lui viene accreditata. Ma probabilmente per non subire nuove umiliazioni da un
ambiente che gli si era rivelato ostile aldilà di ogni limite
ragionevole, e nel quale aveva potuto sperimentare gli effetti concreti delle
invidie altrui e delle censure verso le proprie idee.
Tra le carte planchiane [181] abbiamo rinvenuto un sonetto contro
papa Benedetto XIV. Non sappiamo nulla sul suo autore, né se esso abbia
relazione con la condanna subita, ma soltanto che la grafia è
sicuramente di Bianchi:
Ma cazzo! Santo Padre
ogni ordinario
ci vengono nuovi guai, nuovi pericoli,
e voi posate quieto il tafanario
grattandovi i santissimi testicoli.
Ci vuol altro che
aggiungere al Bollario
Chiose, Brevi, Paragrafi ed Articoli
e studiar la riforma del Breviario
per fare i Santi Grandi uguali a Piccoli.
Tutto ciò Padre
mio non vale un pavolo
e forse voi le chiamereste Buggere
in altri tempi, e vi dareste al Diavolo.
Or mentre ce ne andiamo
in precipizio
Voi coglionando ci lasciate struggere
per Dio, che ci venite in quel servizio.
Quanto si è finora esposto,
dovrebbe bastare per porre in un ambito più dignitoso culturalmente, e
storicamente importante, l’elegante saggio planchiano rispetto
all’attenzione, tra divertita e scandalizzata, che esso ha quasi sempre
ricevuto. Il saggio ha limiti evidenti, determinabili in quella struttura che
ne costituisce però nel contempo la cornice di originalità:
Bianchi parte infatti da un’esposizione, convenzionale ed erudita, per
approdare ad un risultato del tutto inatteso rispetto alle premesse. In questa
conclusione c’è una forza innovativa in cui possiamo forse
rintracciare echi delle esperienze giovanili compiute nella Bologna dove, a
partire dal 1718, aveva operato Pier Jacopo Martello, che lo stesso Bianchi
ricorda tra i suoi amici [182].
La dissertazione procura a
Bianchi un messaggio ben più significativo della stessa condanna,
recante la firma di Voltaire [183]:
«Vous avez prononcé, Monsieur, l’eloge de l’art
dramatique, et je suis tenté de prononcer le votre». Comincia
così la lunga lettera di Voltaire, che contiene una difesa del teatro e
della sua funzione [184].
Come essa conferma, il tema del teatro era allora al centro di un’altra
disputa, condotta dai Giansenisti contro la pedagogia dei Gesuiti, i quali
usavano nei loro collegi anche il palcoscenico per educare gli allievi [185].
La condanna non ha conseguenze [186] nella successiva carriera pubblica di
Bianchi, se nel 1755 egli è nominato Consultore dell’Inquisizione
e Medico del Sant’Uffizio [187],
prima di diventare nel 1769 «Archiatro Segreto Onorario», per
volere di papa Ganganelli, Clemente XIV, che era stato suo allievo [188].
Per completare la documentazione relativa
all’Arte comica ed alla
Cavallucci, riproduciamo l’Ode anacreontica composta in suo onore dallo stesso Planco [189]:
Ode
anacreontica
in lode della Signora Antonia
Cavallucci,
detta Celestini, Romana,
Attrice, e virtuosa di Musica,
in occasione, ch’Ella
canta graziosissime Ariette nel Pubblico Teatro, e per varie Accademie della
Città di Rimino,
offerta al merito singolare dal
Nobile Sig. Dottore Giovanni Bianchi Medico Primario della medesima
città.
Pesaro MDCCLII nella Stamperia
Gavelliana
Fiamme dell’anime,
Gentil Donzella,
Piucché altra amabile,
Se non più bella,
Per poco ascoltami,
Che in dolci modi
Vuo dir tue lodi.
Ascolta un fervido
Inno d’onore
Figlio di candido
Sincero core,
Che non sa fingere,
Che si vergogna
Di vil menzogna.
Di tue bellissime
Nere pupille
Ond’escon fervide
Chiare faville,
O quanto il tremulo
Lume vivace
M’alletta e piace.
Armata Pallade,
E tu, che sei
Piacer degli uomini,
E degli Dei,
Ridente Venere,
Aveste mai
Sì vaghi rai?
Del volto i morbidi
Tersi candori,
Che vezzi spirano,
Spirano amori,
O quanto, amabile
Donzella, ammiro
Qualor ti miro.
Ma gli occhi, il tremulo
Lume vivace,
Che tanto allettami,
Che tanto piace,
Il volto morbido
Non m’incatena,
Non mi dà pena.
Fiamma dell’anime,
Gentile Donzella,
Più raro amabile,
Pregio, che bella
Più ch’altra renditi,
Sol m’incatena,
Sol mi dà pena.
Tua voce armonica,
Ch’or dolce, ora grave,
Ma sempre tenera,
Sempre soave
Dai labbri scioglesi,
E in bei concenti
Tempra gli accenti;
Qualor tra lucide
Notturne scene
L’orecchio docile
A ferir viene,
Con dolce, incognita
Forza d’amore
Mi lega il core.
Qual nuovo insolito,
Stupor, se Orfeo
Al suon di concava
Lira poteo
Trar seco attonite
Le selve, e i pronti
Seguaci monti?
Se là fin d’Erebo
Le disperate
Inesorabili
Furie agitate
L’ascoltan placide,
Se ubbidiente
Cerbero il sente?
Ahi vate misero!
Che valse poi
Aver fin d’Erebo
Co’ modi tuoi
Placate e domite
Le disperate
Furie agitate;
Se al fin, egregio,
Divin Cantore,
Insaziabile
Cieco livore
Lasciar doveati
Di crudo scempio
Funesto esempio!
Ma tu, dell’anime
Fiamme, e desio,
Sorte sì barbara,
Destin sì rio,
S’altrui d’invidia
Oggetto sei,
Temer non dei.
D’un mar che mormora,
Che irato freme,
Che in vasti innalzasi
Flutti, non teme
Nocchier, che a placido
Sicuro porto
Mirasi scorto.
Virtute è il placido
Porto beato,
Che all’onde involati
D’avvero Fato;
L’amico Genio,
Che ti difende,
Per man ti prende.
Seco le torbide
Procelle insorte,
Che in van minacciano
Perigli e morte
Seco que’ tumidi
Rei flutti infidi
Sogguardi, e ridi.
Dissertazione n. 26, del
18 febbraio 1752, di Nicola Paci, nobile, De praestantia musicae [190].
Dissertazione n. 27, del 4
marzo 1752, di Francesco Fabbri, De praestantia Academiae nostrae. Essa contiene, come apprendiamo dal Codex [c. 19v], molte lodi di Bianchi quale restitutore dei
Lincei e per la sua attività gratuita di pubblico insegnante di varie
Scienze [191].
Dissertazioni n. 28 e n.
29, entrambe del 17 marzo 1752: si tratta della lettura di lettere del governo
di Firenze inviate ai Malatesti di Rimini (1378-1400), e ricopiate da Lodovico
Coltellini da un codice ms. di Coluccio Salutati, esistente presso la Biblioteca
Riccardiana di Firenze; e della trattazione di Bianchi De rebus antiquis [192].
Dissertazioni n. 30 e n.
31: il 18 aprile 1755, Planco presenta due sue epistole mediche, la prima
sull’«urina con sedimento ceruleo» [193], e la seconda sulle polemiche relative
al caso Pilastri, già trattato il 28 maggio 1751. Alle due epistole,
Bianchi premette una prefazione in italiano in cui spiega che le adunanze dei
Lincei non sono frequenti perché molti accademici abitano fuori Rimini,
dove esistono poi varie scuole, al posto di quella unica di Planco, che forniva
ai Lincei medesimi parecchi relatori [194].
Qui finiscono le notizie del Codex.
Tra le carte planchiane
conservate in Gambalunghiana [FGMB], ci sono tre fascicoli che rimandano a
probabili dissertazioni accademiche. Nel n. 61 si ripropone un testo di
carattere religioso già letto in pubblico ben ventidue anni prima, con
una premessa di Bianchi sui pregi della vecchiaia e della «cattiva
memoria» che reca «grandissimi vantaggi», come il gustare la
riproposta di cose antiche che non si ricordano più. Nel n. 65,
c’è il Discorso sopra il problema dell’Accademia, che abbiamo già mentovato. Del n. 75, intitolato
Congressi letterari della nostra Accademia (1761), diremo invece più avanti.
Alla pagina
successiva della Storia dei Lincei Al sommario
della Storia dei Lincei riministoria 694