Antonio
Montanari
Tra
erudizione e nuova scienza
I Lincei
riminesi di Giovanni Bianchi (1745)
6. Le
dissertazioni accademiche (I)
Non esiste un elenco
completo ed ufficiale delle dissertazioni tenute nei Lincei riminesi. Le notizie
che seguono hanno origine da diverse fonti che indicheremo di volta in volta [102]. Le adunanze lincee si tenevano di
venerdì. L’inaugurazione dell’Accademia avviene il 19
novembre 1745 [Codex, c. 2r].
Dissertazione n. 1, del 3
dicembre 1745, dell’abate Stefano Galli, «sopra
l’utilità della lingua greca» [103].
Dissertazione n. 2, del 27
maggio 1746, dell’abate Giuseppe Garampi, Delle Armi gentilizie delle
famiglie [104].
Dissertazione n. 3, del
giugno 1746, di Planco, De Vescicatorj
[105]. Il tema trattato esce
dall’Accademia e gira fra la gente, per merito del suo allievo Giovanni
Paolo Giovenardi [106],
appena ne esce un estratto sulle Novelle
fiorentine [107].
Così Giovenardi scrive a Bianchi da Santarcangelo, dove (come si
è visto) insegna Filosofia:
Io non ò mancato di
leggere nella Scuola, et anche in questo nostro Caffè tutto quello che
intorno a ciò nella suddetta novella si riferisce, e di sostenere alla
meglio che ò potuto, quel tanto, che in quella sta scritto intorno a
Vescicatori. L’ò letta ancora nel caffè, dove concorre ogni
sorte di Persone. Giacché ogni sorta di persone è soggetta a
poter essere martoriata da certi Medici, o siano Fanfaroni della Marca collo
strano, e crudele rimedio de’ Vescicatorj, e perciò quivi ancora
ò stimato bene di diffondere que’ Lumi, che in quella sono sparsi
a comune vantaggio di tutta la Società, acciocche se per avventura non
si volessero astenere i Fanfaroni dal farne uso, imparino almeno i Malati o gli
Assistenti a rifiutarli.
Dopo questa dissertazione,
il matematico modenese Domenico Vandelli scrive a Bianchi definendolo autore di
«imposture e maldicenze» e di «moltissime
infedeltà», per cui lo considera «nel numero de’
letterati superficiali, e fra Montambanchi di mala natura, che mordono ad ogni
capo» [108].
Dissertazione n. 4.
dell’anno 1746 o 1747, di Giuseppe Zinanni. L’argomento è
una «diligente osservazione sopra le uova, e sopra la generazione delle
Lumache terrestri, ed altre chiocciole fluviali, o d’acqua dolce» [109].
Segue una pausa
nell’attività accademica che riprende soltanto nel 1749: da questo
momento sino al 1755, essa viene registrata da Bianchi nel Codex, dove troviamo elencate ventisette dissertazioni [110]. Le indichiamo nella loro successione
cronologica.
Dissertazione n. 5, del 28
febbraio 1749, di Planco: epistola De monstris ac monstrosis quibusdam, poi pubblicata a Venezia in due edizioni, nello stesso
anno [111].
Essa è indirizzata a monsignor Giuseppe Pozzi, di Bologna, archiatro
pontificio straordinario e presidente dell’Accademia dell’Istituto
delle Scienze di quella città [112].
Questo studio, al di là degli aspetti più o meno teoricamente
validi ancor oggi sotto il profilo scientifico [113], merita considerazione per una
questione che sta alla base della problematica trattata da Bianchi, cioè
il concetto di Natura così come emerge attraverso il sistema della
classificazione scientifica da lui usato. Planco osserva che i mostri si
possono dividere in tre specie: quelli che «in Utero Animantium oriuntur
ictu vel casu quodam alio»; quelli che derivano «ex conformatione
naturali, sive ex plastica quadam vi naturae, sive a natura ipsa ludente»
[114]; infine quelli che nascono «ex
morbo in Animantibus». Bianchi dà per scontato che la perfezione
naturale, presupposta dai filosofi scolastici, sia smentita da questi fenomeni.
L’Encyclopédie, alla voce «monstre (zool.)», spiega che
trattasi di «animal qui naît avec une conformation contraire
à l’ordre de la nature». In questo «ordre de la
nature» è fatto coincidere dalla vecchia Filosofia il presupposto
metafisico-teologico capace di spiegare tutta la realtà. Nello stesso
«ordre de la nature», il nuovo pensiero scientifico identifica
invece le regole generali, ammettendo però che da esse si differenzino
le eccezioni dimostrate mediante l’osservazione dei fenomeni. Eccezioni e
fenomeni sono tanto evidenti, da non poter essere negati, come spiega questo
scritto planchiano, il quale documenta quella che abbiamo definito la scelta
eretica di Bianchi a favore della fisica di Gassendi. Forse proprio per questo
motivo, tale scritto fa convogliare sul medico riminese le prime avversioni
romane, alle quali non dovettero essere estranei gli ambienti ecclesiastici
riminesi che, date le concezioni scientifiche di Bianchi appena considerate,
non potevano gradire troppo il suo modus operandi come gestore dei Lincei. La fretta con cui si
giungerà, tre anni dopo, nel 1752, alla sentenza dell’Indice per l’Arte comica, non può spiegarsi soltanto in relazione al tema
controverso in essa trattato, un tema allora importante, tanto da essere al
centro di durissime polemiche [115],
quindi di stretta attualità, però in definitiva marginale
rispetto alle più fondamentali questioni di Filosofia e di
interpretazioni teologiche e metafisiche della Natura. Un tema, soprattutto,
non sviluppato così duramente da Bianchi sotto il profilo dottrinario,
come avrebbe invece dovuto richiedere, quale giustificazione, la stessa
condanna romana, per apparire plausibile.
Dissertazione n. 6, del 7
marzo 1749, di Giuseppe Antonio Battarra, De Lithophytorum, ac praesertim de
corallorum generatione.
Dissertazione n. 7, del 21
marzo 1749, di Planco, sopra i rimedi per le coliche nefritiche [116].
Dissertazioni n. 8 e n. 9,
rispettivamente dell’11 e del 25 aprile 1749, sopra la Beata Chiara da
Rimini, entrambe inviate da Giuseppe Garampi dimorante dalla fine del 1746 a
Roma [117].
La prima dissertazione tratta della Comunione sotto le due specie, ricevuta
dalla Beata Chiara l’11 aprile 1749. La seconda parla dei suoi digiuni,
toccando un tema che divideva l’ambito ecclesiastico, circa il rigorismo
con cui si doveva o meno affrontare la quaresima [118]. E che non risultò gradito
all’uditorio «propter materiae, et stili ariditatem», al
punto che Bianchi concluse la radunanza leggendo versi di un
«festivus» autore napoletano, come troviamo scritto nel Codex [c. 12r].
Dissertazione n. 10, del
15 marzo 1750, di Giovanni Paolo Giovenardi [119], De Rubicone, a proposito della «iscrizione da lui fatta per un
cippo sulle sponde del fiume Uso, preteso Rubicone degli antichi e dalla quale
prese le mosse una celebre controversia in cui il Bianchi ebbe parte
preponderante» [120],
come dimostra la dissertazione seguente.
Dissertazione n. 11, del
21 marzo 1750, di Planco, lettera ad un amico fiorentino, De Rubicone [121].
Dissertazione n. 12, del
15 luglio 1750, di Daniele Colonna, De Hydrope Ascite.
Dissertazione n. 13, del
12 marzo 1751, di Giacomo Fornari, An Philosophia et reliquae scientiae et
artes versibus pertractari possint, sintque veri poetas qui hasce scientias
versibus pertractant an puri versificatores.
Dissertazione n. 14 del 27
marzo 1751, di Giuliano Genghini, De Apollo Pythio.
Dissertazione n. 15 del 2
aprile 1751, di Planco, lettera «circa varias Inscriptiones antiquas
Arimini» [122].
Dissertazione n. 16, del
30 aprile 1751, lettura dell’epistola inviata da Lodovico Coltellini sul Dittico
queriniano, e di sette lettere di
Roberto Malatesti (1479).
Dissertazione n. 17, del
30 aprile 1751, di Gaspare Adeodato Zamponi, De Lumbricis Corporis Humani [123],
in cui si sostiene, erroneamente, che i vermi del corpo umano si riproducono
per parto e non con uova [124].
Monsignor Giuseppe Pozzi in una lettera a Bianchi definisce
«ciance» le affermazioni di Zamponi [125]. Riserve metodologiche sono avanzate da
Giuseppe Zinanni: l’osservazione di Zamponi è stata fatta soltanto
una volta, «quando per stabilire un’osservazione vi si richiede di
verificarla più decine di volte», per cui augura all’autore
della dissertazione «che s’incontri in altri vermi che stiano per
partorire» (24 giugno 1752, FGLB, ad vocem).
Nel prologo alla
dissertazione di Zamponi e nel relativo verbale del Codex, Bianchi denuncia la negligenza degli Accademici i quali
intervengono raramente alle radunanze. Nel prologo i toni sono molto forti: gli
Accademici, sostiene, s’affaticano «solamente per qualche poco per
un picciolo guadagno, o per rendersi abili a gli amoretti di qualche
femminuccia» [126].
Dissertazione n. 18: il 7
maggio 1751, il «tiro» Giovanni Battista Brunelli parla
brillantemente di un argomento di ostetricia, relativo ai parti difficili [127].
Dissertazione n. 19. Senza
data [128],
è la lettura di un’epistola di Leonida Malatesti del 1546.
Dissertazione n. 20, del
14 maggio 1751, di Giovanni Antonio Battarra, De origine fontium. «In fine lepide dixit se hanc Dissertationem
recitasse, ne videretur negligentiae notatus a Planco, ut suboscure notati sunt
alii Academici Ariminenses, qui modo muti facti videntur», commenta
Bianchi nel Codex [c. 17r].
Dissertazione n. 21, del
28 maggio 1751: Planco dà lettura dell’esame anatomico riguardante
un bambino di nove anni, il contino Giambattista Pilastri di Cesena, morto
«ex Apostemate in lobo destro Cerebelli» [129]. Quell’esame è pubblicato
nello stesso anno nella Raccolta d’opuscoli del camaldolese padre Angelo Calogerà, a Venezia
[pp. 169-200], con il titolo Storia medica d’una postema nel loro
destro del cerebello, aprendo lunghe e
«feroci polemiche» [130].
Un’anticipazione di questa dissertazione , è fornita da Bianchi,
pochi mesi prima, in appendice alla seconda edizione del De Monstris [131].
Dissertazione n. 22, del
11 giugno 1751: Pasquale Amati «Causidicus seu Leguleius» tiene una
dissertazione «de origine Litterarum», la quale «approbata
non fuit a Planco restitutore, et ab omni dotto, qui huic sessione
interfuit» [132].
Nella successiva riunione [18 giugno 1751], Bianchi «aliquid dixit circa
deliramenta Amati in praeterita sessione» [133]. Quest’annotazione, nella sua
brevità, sottintende parecchie cose sull’atteggiamento di Planco
come reggitore dei Lincei e come «uomo dotto».
Dissertazioni n. 23 e n.
24: il 18 giugno 1751, Bianchi tratta di un altro esame anatomico, De structura
uteri in gravidis, e legge una lettera
di Lodovico Coltellini sulla lingua etrusca, a cui premette una prefazione [134] «de incertitudine studiorum
Linguae Etruscae», come leggiamo nel Codex [c. 18v.].
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