Antonio Montanari
Tra erudizione e
nuova scienza
I Lincei riminesi di
Giovanni Bianchi (1745)
1. All’origine
dell’Accademia planchiana
L’Accademia dei Lincei di Federico Cesi,
attiva tra 1603 e 1630, rinasce a Rimini nel 1745 per iniziativa del medico,
scienziato e poligrafo Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775), già
allora ben noto negli ambienti colti italiani anche grazie
all’autobiografia latina pubblicata tre anni prima, come opera di
«autore anonimo», nei Memorabilia Italorum eruditione
praestantium curati da
Giovanni Lami a Firenze [1].
Bianchi da poco era rientrato in patria da Siena, dove aveva insegnato Anatomia
umana presso quell’Università, dalla quale era stato chiamato il
24 luglio 1741: «senza alcun suo maneggio», preciserà
più tardi per sottolineare come la scelta fosse stata dovuta soltanto a
chiara fama [2].
Egli si era laureato presso la Facoltà di Medicina e Filosofia
dell’ateneo bolognese il 7 luglio 1719, seguendo un veloce cursus
studiorum iniziato soltanto
nel novembre 1717, dopo una giovinezza tormentata da problemi economici
conseguenti alla prematura scomparsa del padre, avvenuta quando Planco aveva
soltanto otto anni; e dopo una carriera scolastica alquanto irregolare e
prevalentemente da autodidatta [3].
A Bologna avviene, sempre nel 1719, il suo duplice debutto pubblico: il 27
settembre, «in occasione di una straordinaria, e frettolosa raggunanza
fatta per compiacere alcuni canonici forestieri» [4]; ed il 19 ottobre, con un’orazione
tenuta per l’inaugurazione dell’anno accademico [5]. Bianchi non era nuovo ad esperienze
culturali di questa specie: già nel 1715 aveva cominciato a viverle
nell’Accademia «di scienze, e d’erudizione» [6], voluta dal vescovo di Rimini, Giovanni
Antonio Davìa [7],
un bolognese che era stato allievo di Marcello Malpighi e di Geminiano
Montanari. In essa, Planco aveva recitato quattro dissertazioni sulle Odi di Pindaro [8], oltre a compendiare quelle altrui in
qualità di segretario del consesso [9].
La chiamata alla Cattedra senese
significò per Bianchi non soltanto soddisfare la sua ambizione, ma anche
affrontare un’esperienza resa difficile dalle polemiche che egli
suscitò nell’ambiente accademico sia con le accuse di ignoranza
indirizzate ai colleghi universitari [10],
sia con le vanterie contenute nell’autobiografia latina.
L’ostilità e la diffidenza che nacquero attorno alla sua persona,
lo convinsero a ritornare [11]
nella natìa Rimini alla fine del novembre 1744, dopo aver pubblicato a
Firenze il Fitobasano di
Fabio Colonna [12],
a cui premise «la notizia» sull’Accademia dei Lincei (sua
prima storia a stampa), della quale Colonna aveva fatto parte [13]. Bianchi motiva il suo rientro in patria
con l’accettazione di una duplice offerta fattagli dalla comunità
di Rimini: la concessione della «cittadinanza nobile, e lo stipendio di
scudi 200 annui per la sola permanenza» [14]. In realtà, allo stipendio doveva
corrispondere un preciso impegno di lavoro con l’incarico di
«medico primario condotto della città» [15].
Per quanto ben remunerata ed illustrata con le
lusinghe di un titolo nobiliare (oltremodo gradito alla sua vanità), la
carica assunta da Planco era di nessun valore rispetto al prestigio
derivantegli da una Cattedra universitaria: la situazione dovette turbarlo
parecchio, e spingerlo a ricercare una rivalsa psicologica ed intellettuale,
con lo scopo di poter continuare a primeggiare e di non farsi dimenticare da
colleghi ed avversari, due categorie destinate spesso a coincidere ed a
fondersi in una sola, e non sempre per colpa sua. Lo strumento con cui
realizzare questo scopo, Bianchi lo individua nel rimettere «in piedi
l’antica accademia filosofica, ed erudita de’ Lincei, avedoci rifatte le leggi,
ed avendoci aggregate non solamente le persone più dotte della
città di Rimino, ma di altri paesi ancora» [16]. Planco non rinuncia però, negli
anni successivi, all’idea di tornare ad occupare una Cattedra di
Anatomia, come si ricava da una lettera di Giovanni Bottari [17] a lui diretta.
[1] Cfr. alle
pp. 353-407, tomo I (in seguito «autobiografia latina»). Un
ritratto psicologico di Planco, presentato come fatto dall’amico
estensore «anonimo», è alla p. 403. Era troppo fedele il
ritratto rispetto all’originale perché l’autore fosse
altri dal personaggio presentato in quelle pagine. Su questo
testo, cfr. A. Montanari, Modelli
letterari dell’autobiografia latina di Giovanni Bianchi (Iano Planco,
1693-1775),
«Studi Romagnoli» XLV (1994, ma 1997), pp. 277-299. Una seconda
autobiografia di Planco, anch’essa anonima, è nei Recapiti
del dottore Giovanni Bianchi di Rimino, Pesaro 1751. La parola «recapito»
ha il significato di considerazione, reputazione, stima. Sulla paternità
dei Recapiti,
cfr. le Novelle letterarie (in seguito Nov.) di Firenze, XIX, 30, 28 luglio
1758, col. 480. Di altre autobiografie inedite diremo infra. Per una completa biografia
di Bianchi, cfr. A. Fabi, Dizionario biografico degli Italiani (DBI), X, Roma 1968, pp.
104-112. Nel tomo II, i dei Memorabilia, Bianchi pubblica le
biografie di due riminesi, Marco ed Andrea Battaglini: cfr. alle pp. 121-132 e
133-156.
[4] Cfr. il fasc. 109, FGMB.
[5] Cfr. il fasc. 48, FGMB. Bianchi, il 22 novembre 1717, era stato
nominato «Consigliere della Università di Bologna per la Nazione della
Marca Inferiore», come si ricava da SG, ad vocem, BGR.
[11] Per valutare la decisione di Bianchi, vanno considerate queste
parole scrittegli dall’amico padre teatino Paolo Paciaudi (di cui
parleremo anche infra), al momento della sua decisione di recarsi a Siena: «Se
fusse o Firenze o Pisa direi: andate pure… Ma Siena, Siena che decoro
può recarvi? [...] bisognerà che vi apprestiate a sostenere le
maledicenze dell’invida genìa de’ paesani di Siena
professori della vostra scienza. Già si sa che dove il Forestiero
è solo a primeggiare ha da essere inquietato da’ Nazionali»:
cfr. M. D. Collina, Il
carteggio letterario di uno scienziato del Settecento, Firenze 1957, p. 8. E’
interessante l’inedita risposta di Bianchi: «Io come Filosofo non
mi sono mai affezionato a niuna cosa in particolare; ma essendomi dilettato di
varj studi, colà io attenderei a quelli che io potessi, dove qui io non
posso per così dire attendere ad alcuno, tutto il giorno essendo
occupato in cure tediose di malati senza alcun profitto. Questa è una
città che dà ai Medici il medesimo incomodo che Roma, e ogni
altra gran città, ma il premio è senza alcun paragone
infinitamente minore, e ciò per le ragioni di cui dissi; ma passiamo ad
altre cose» (cfr. Minutario, MS-SC. 969, cit., 26 luglio 1741). [12] L’opera studia le piante più rare note agli
antichi, cercandone il corrispondente nome moderno. Nato nel 1567, Colonna
aveva 24 anni quando la pubblicò. Bianchi ha iniziato a lavorare al
progetto editoriale del Fitobasano nel 1739: cfr. SG, ad vocem, dove si cita il Rescritto
Apostolico per avere e ritenere per sei mesi le Opere di Fabio Colonna che sono
in Biblioteca Gambalunga, per farle ristampare, 21 ottobre 1739. Il permesso gli
è procurato da mons. Antonio Leprotti (di cui si dirà): cfr.
lettera di Bianchi, 15 novembre 1739 (SC-MS 963, Lettere autografe a mons.
A. Leprotti,
BGR, c. 336). Il 26 novembre Bianchi scrive a Leprotti per chiedere un permesso
più ampio : «Se m’otterrà la grazia di potermi
servire in casa de’ Libri della Biblioteca Gambalunga
l’averò per molto favore, e sarà una cosa molto comoda a
miei studi perciocché nell’ora che si tien aperta quella Libreria
io il più non ci posso andare» (ib., cc. 337-338). Il 10 dicembre (ib., c. 341) ribadisce:
«lascio alla bontà di lei la cura con tutto il suo agio
però di procurarmene un generale, che non sia ristretto ad alcun libro
particolare, e che si distenda per ogni tempo, ristringendosi solo che io debba
lasciar la ricevuta di ciascun libro che prenderò in mano dal
Bibbiotecario, e che io debba restituire il libro preso dopo un determinato
tempo di quattro o sei mesi, e nel rescritto [...] si potrebbe dire che
ponessero brevemente conceditur ut petitur o qualch’altra formula
brevissima». Come scrive P. DELBIANCO in una delle schede del catalogo Le
Belle Forme della Natura. La pittura di Bartolomeo Bimbi (1648-1730) tra
scienza e ‘maraviglia’, dell’omonima mostra cesenate (Modena 2001), p. 147,
nello stesso 1744 esce un’altra edizione del Fitobasano, a Milano, sempre però
con il nome del tipografo fiorentino Pietro Gaetano Viviani: un esemplare
è custodito in BGR. [13] Nel breve articolo, scritto probabilmente dallo stesso Planco,
ed apparso sulle Nov., VI, 53, 31 dicembre 1745, coll. 842-846, per presentare le
leggi lincee di Planco, si ricorda che «il Signor Giovanni Bianchi, Gentiluomo Riminese, e
Professore Primario di Medicina nella Città di Rimino» aveva
nell’anno precedente pubblicato «a sue spese» il Fitobasano
(che reca nel
sottotitolo: «Plantarum aliquot historia»), premettendogli
«la Storia dell’Accademia de’ Lincei» (cfr. A. Montanari, L’anello di Galileo.
E’ di Iano Planco la prima storia a stampa dei Lincei, «Il Ponte»,
Rimini, XXVII, 25, 30 giugno 2002, p. 17). Tali spese assommarono a
«cinquecento e più ducati», come si legge in una sua
lettera: cfr. G. L. Masetti Zannini,
Carta e stampa nel Settecento, «Bollettino dell’Istituto di Patologia del
Libro “Alfonso Gallo”», XXXI, 1972, fascc. I-IV, p. 123. Le
stesse Nov.,
V, 33, 14 agosto 1744, coll. 513-516, avevano presentato l’edizione
planchiana del Fitobasano, scrivendo: «Il celebre Sig. Giovanni Bianchi Ariminese, il quale tre anni
sono fu chiamato dalla Munificenza dell’Altezza Reale del presente Gran
Duca nostro Gloriosissimo Sovrano a professare l’Anatomia nella illustre
Università di Siena, dà frequente occasione co’ suoi dotti scritti
d’adornare queste Novelle, facendo egli onore a se stesso, e all’Italia
nostra insieme». Nella seconda parte dell’articolo (V, 34, 21
agosto 1744, coll. 529-537), leggiamo che «dopo la morte del Cesio, e dopo l’accidente
occorso l’anno dopo in Roma al Galileo, […] cominciò
l’Accademia a mancare». Si osservi la prudenza con cui si fa
riferimento alle vicende di Galileo: non si parla di condanna (in realtà
del 1633) ma di «accidente». (Nello stesso anno, sulle Nov., V, 15, 16 aprile 1744, col.
236, Lami scrive poi che si poteva abolire il Tribunale
dell’Inquisizione, «essendo i Vescovi più che sufficienti a
riparare a qualche piccolo errore, ed inconveniente, che potesse nascere alla
giornata, non essendo necessario che un Magistrato instituito in certo bisogno
e in certe circostanze, debba durare ancora cessato quel bisogno, e quelle
circostanze». «Era troppo», osserva Venturi: «Lami fu costretto a far appicciccare sulle
righe incriminate qualche anodina affermazione, coprendo così le sue
idee troppo ardite»: cfr. il cit. Settecento Riformatore. I., pp. 344-345, e M. A. Morelli Timpanaro, Autori,
stampatori, librai per una storia dell’editoria in Firenze nel secolo
XVIII,
Firenze 1999, pp. 60-63. Nell’esemplare esistente in BGR, si trova il
testo originale senza correzione. Sul tema cfr. M. Infelise, I libri proibiti, Roma-Bari 1999, pp. 33 e 37.) Una prima
anticipazione del Fitobasano planchiano, è contenuta nelle Nov., IV, 40, 4 ottobre 1743,
coll. 625-628, in cui si narra che Bianchi vi stava allora lavorando in Firenze
«in tempo di vacanze» dell’Università. Su questa
edizione del Fitobasano, cfr. i fascc. 165-166 e 174-175, FGMB. (Sul totale insuccesso
fiorentino dell’impresa editoriale, Lami parla a Bianchi il 26 dicembre
1744, FGLB, ad
vocem:
«neppure uno è venuto a ricercare il suo Fitobasano, che è
un’opera degnissima, e di più da Lei illustrata, e adorna a
meraviglia». Il progetto della ristampa delle «opere rarissime di
Fabio Colonna», è illustrato da Bianchi ad Angelo Calogerà
il 4 gennaio 1740 (cfr. Minutario, MS-SC. 969, cit., c. 30r.) Nel
«Lynceorum Catalogus», a p. XXVII della premessa al Fitobasano, Bianchi scrive su Cesi:
«Telescopium, Microscopiumque vel invenit, vel inter primos eorum usum
propagavit, eaque his nominibus donavit». Di qui l’accusa a Planco
di aver errato, sottraendo a Galileo il merito dell’invenzione del
cannocchiale: cfr. D. Vandelli, Considerazioni
sopra la Notizia degli Accademici Lincei, Modena 1745, p. 42. Vandelli, docente
«delle Matematiche» nell’Università di Modena, inoltre
accusa Bianchi (ibid., pp. 3-4) di aver omesso il nome di Alessandro Tassoni nel
«Lynceorum Catalogus». Vandelli porta come fonte autorevole L. A.
Muratori, anche se riconosce che quel nome manca nell’elenco ufficiale
del 1625. Forse si tratta dello stesso elenco di trenta nomi, una cui copia
è inviata a Bianchi da G. Bottari l’8 aprile 1750, FGLB, ad
vocem. A
Vandelli, Bianchi risponde con una Lettera nelle Nov., firmata con lo pseudonimo di
Simone Cosmopolita ed apparsa in ben dieci parti nel tomo VII (1746, nn. 5, 10,
14, 15, 16, 17, 18, 22, 23, 25), coll. 71-76, 153-159, 215-222, 232-240,
242-249, 262-270, 276-284, 342-350, 357-360, 387-393. Al tema Bianchi accenna
pure all’inizio di un’altra Lettera contro Vandelli (sopra
un’iscrizione ravennate), nelle Nov., VIII, 13, 31 marzo 1747, coll. 202-207,
dove riferisce che, nella «famosa Libreria dell’Eminentissimo
Signor Cardinale Alessandro Albani», esisteva «l’Archivio dei
Lincei con altri bellissimi documenti inediti di quella celebre
Accademia»: in essi «non vien mai mentovato il Tassoni». La notizia dello scritto di
Vandelli era stata data dalle stesse Nov., VII, 53, 31 dicembre 1745, coll.
846-847. (Sulla polemica tra Bianchi e Vandelli, cfr. M. Maylender, Storia delle Accademie
d’Italia,
III, Bologna 1929, pp. 470-471; ed E. Schettini
Piazza, Bibliografia storica dell’Accademia Nazionale dei
Lincei,
Firenze 1980, pp. 28-31.) Nel cap. XX della «Lynceorum Notitia»,
premessa al Fitobasano, Bianchi, in base a «carte fogheliane» (cioè
di Martino Fogel di Hannover), elenca anche tre lincei riminesi del XVII sec.,
Francesco Gualdi, Francesco Diotallevi, Francesco Battaglini: su di loro, cfr.
C. Tonini, La coltura
letteraria e scientifica in Rimini dal secolo XIV ai primordi del XIX, Rimini 1884, ed. anas. 1988,
a cura di P. Delbianco, passim. Tonini riporta la smentita
di monsignor Gaetano Marini a tali nomine lincee sia per Battaglini (p. 87-88),
sia per Diotallevi (p. 192), sia per Gualdi (p. 133). Sulle «carte
fogheliane» e sul caso di Tassoni, cfr. G. G. Gabrieli, Contributi alla storia dell’Accademia dei
Lincei, Roma
1989, pp. 247-257; a p. 643, si scrive di «molto vaghe e malsicure
notizie» divulgate da Bianchi riprese da quelle carte; a p. 469, inoltre,
si parla dei tre riminesi, da Bianchi «enumerati fra i lincei, o
piuttosto fra gli “amici dei Lincei”, ma che nulla», secondo Gabrieli, «ebbero a fare con
l’Accademia»: Battaglini è qualificato poeta, Diotallevi,
«dotto patrizio», e Gualdi «dotto archeologo en antiquario
collezionista, possessore d’un famoso Museo di antichità e
curiosità naturali». Su come Bianchi si fosse procurate tramite il
nobile di Livonia Diedrick Zimmermann le «carte fogheliane», oltre
al carteggio (FGLB) dello stesso Zimmermann, cfr. pure la lettera di Bianchi a
mons. Leprotti (Minutario, SC-MS 969, cit., e Lettere, SC-MS 963, cit., 21 aprile 1740). Il 26
novembre 1739 aveva scritto a Leprotti della difficoltà di trovare
notizie sui Lincei e su Federico Cesi, aggiungendo che era stato vescovo di
Rimini un Angiolo Cesi «il quale doveva esser Fratello dell’Autore
dell’Accademia de’ Lincei». Angelo Cesi, realmente fratello
di Federico (cfr. G. Benzoni, ad
vocem, DBI,
XXIV, pp. 239-243), fu vescovo di Rimini dal 1627 al 1646: il suo ricordo,
scrive Bianchi, gli era stato tramandato da un’avola paterna morta nel
1709 ad ottantacinque anni d’età, nata quindi nel 1624. Circa la
«Lynceorum Notitia», premessa al Fitobasano, in lettera senza né
data né destinatario (cfr. Minute di lettere 1717-1770, SC-MS. 965, BGR, c. 130),
Bianchi osserva come essa esamini «le principali gesta di que’
valorosi uomini, e il principio, e il progresso della Filosofia moderna che i
Lincei suscitarono sulla scorta del Galileo, del Cesio, del Colonna, e di
tant’altri valorosi uomini di quel consesso». Il cit. Gabrieli, pp. 247-248, ricorda che
Planco per stendere la «Lynceorum Notitia» si servì, oltre
che delle 162 «carte fogheliane», anche della manoscritta Brevis
historia Academiae Lynceorum di Giovanni Targioni Tozzetti, bibliotecario fiorentino,
composta nel 1740. In una lunga lettera a Planco (20 giugno 1752, FGLB, ad
vocem, e Gabrieli, cit., pp. 270-272), Targioni
Tozzetti ipotizza che quel manoscritto fosse stato inviato a Bianchi
«verisimilmente senza il suo nome» da monsignor Leprotti a cui
il fiorentino l’aveva in precedenza inoltrato. Invece Leprotti il 18
novembre 1739 (FGLB, ad vocem) aveva espressamente dichiarato che
l’«Istoria dell’Accademia dei Lincei» trasmessagli era
«del Sig. Targioni di Firenze». Al che Bianchi il 26 successivo
rispose: «Unita alla Sua gentilissima de’ 18 del presente ricevo i
fogli del Sig. Targioni contenenti le notizie intorno l’Accademia
de’ Lincei» (Minutario, SC-MS 969, cit., cc. 1r/v). Bianchi non
cita, nella «Lynceorum Notitia», il lavoro di Targioni che
così osserva in quella sua unica lettera inviatagli: «Mi trovo
spesso a vedere alcuni far uso di mie fatiche e scoperte, senza che io glie le
abbia gentilmente comunicate, e neppure si degnano nominarmi: io non me ne
offendo punto, anzi, confesso il mio peccato, internamente mi sento qualche
accesso di superbia». Nella cit. lettera del 26 novembre Bianchi osserva
che, dopo la morte di Cesi e la condanna di Galileo, l’Accademia dei
Lincei «patisce una grande eclisse, contuttocciò» il suo
nome si andava mantenendo, poiché «verso l’anno 1650»
apparve un volume con scritti di alcuni accademici lincei (apertamente
dichiarati tali [Johannes Terrentius, Johannes Faber, Federicus Caesius]) e
dello stesso Colonna: è un trattato su piante, animali e minerali
messicani, curato dal medico napoletano Marco Antonio Recchi (XVI sec.), e
pubblicato a Roma nel 1651, in cui appare pure un elogio di Galileo (datato
1625). Questo volume reca nel frontespizio Nova plantarum, animalium et
mineralia mexicanorum historia a Francisco Hernandez ... compilata, dein a Nardo Antonio
Reccho in volumen digesta... (Francisco Hernandez visse dal 1517 al 1587). Segue un altro
frontespizio calcografico: Rerum medicarum Nouae Hispaniae thesaurus, con indicazioni tipografiche
(«Romae MDCXXXXVIII»). L’Historia vera e propria occupa la
prima parte (pp. 1-459). Seguono le aggiunte di J. Faber (pp. 460-840), le Annotationes
et Additiones
di Colonna al testo di Recchi (pp. 841-899), ed infine le Phytosophiae
Tabulae
«Principis Federici Caesi Lyncei» (pp. 901-952), edite
«primum a Lynceis», con imprimatur del 1628 e presentazione di Francesco
Stelluti datata 1651, in cui si ricorda il principe Cesi come istitutore
«Academiae nostrae». Il volume, ideato dallo stesso Federico Cesi,
uscì postumo a causa di «intoppi, contrarietà e
lentezze» che s’aggiungono alla sua scomparsa, per opera di
Francesco Stelluti, «l’unico superstite dell’avventura del
1603» (cfr. E. Raimondi, Scienziati
e viaggiatori,
«Storia della Letteratura Italiana, V. Il Seicento», Milano 1967,
p. 238). Di N. A. Recchi e di questo volume (BGR, segn. CT 722) Planco parla
nella «Lynceorum Notitia» alle pp. XVI-XX.
Alla pagina
successiva della Storia dei Lincei Al sommario
della Storia dei Lincei riministoria 688 Rev.20.07.2013