Diario di Giulia – Parte seconda

Capitolo XV – La marea cambia, 180 d.C.

Stavo sognando di lei. Non accadeva di frequente. Non sono una persona che sogna facilmente o con regolarità. Al contrario, sogno soltanto se i sogni sono suscitati da un’emozione intensa, come quando avevo visto gli schiavi celti. Ma, di tanto in tanto, sia che fossi preoccupata o no, lei mi appariva in sogno. La mia bambina.

Nel mio sogno non era più una neonata, ma una bimbetta vivace di due o tre anni. Aveva neri capelli ondulati e luminosi occhi verdazzurri, e la sua risata era come il suono d’un campanellino. Eravamo entrambe a piedi nudi, sporche, stanche e felici. Stavamo giocando in un campo e la sua tunica era imbrattata e sul suo nasino c’era uno schizzo di fango. Io non ero più pulita di lei, ma il mio cuore era leggero e la mia risata echeggiava nelle mie stesse orecchie. E quando la presi in braccio e la strinsi al mio petto, ella mi avvolse le braccine attorno al collo e mi guardò negli occhi con la genuina fiducia che solo i bambini riescono ad avere. E io mi sentii gonfiare il cuore, perché era Massimo che mi stava guardando attraverso gli occhi di nostra figlia. Ella sorrise ed il suo sorriso era quello di lui… disarmante, accecante, pieno di gioventù, innocenza e vita… perché di lui erano la sua bella bocca scolpita e le fossette sul mento.

Le baciai la punta del nasino e mia figlia ridacchiò come faceva sempre quando la baciavo lì, poi scalciò e si contorse finché la misi giù. Non appena i suoi piedini infangati toccarono l’erba, ella corse verso il vicino ruscello e io le corsi dietro, il sole che scaldava i campi di frumento dietro di noi. Potevo udire il fruscio degli steli che oscillavano nella brezza, come il bisbiglìo di altrettanti spiriti e per un momento credetti di udir bisbigliare il mio nome...

Eravamo solite giocare in quel ruscello, spruzzando e ridacchiando come se non fossimo altro che bimbette anziché madre e figlia. Quando ci stancavamo troppo per continuare a giocare, mi sedevo su una roccia grande e piatta, la prendevo tra le mie braccia e rimanevo là, cullandola, raccontandole storie di cavalli e gatti e di un affascinante generale vestito d’una corazza cesellata e due pellicce di lupo argentato che gli ricadevano dalle ampie spalle. E quando ella stava per addormentarsi, la mettevo a cavalcioni della mia anca e la riportavo a casa, alla villa di campagna riparata dalle colline.

Ma quel giorno la vidi fermarsi sui suoi passi quando arrivò al ruscello e io mi affrettai, per vedere che cosa aveva fatto trasalire mia figlia, dato che lei non era mai timorosa né si spaventava facilmente.

C’era un bambino nel ruscello.

Un ragazzino.

Era di tre o quattro anni più grande di mia figlia, un bel ragazzino robusto, con lunghe gambe e folti capelli castani. Si era tolto i sandali e stava in piedi con le ginocchia nell’acqua, sembrava sorpreso della nostra improvvisa comparsa quanto noi lo eravamo dalla sua presenza. Non lo avevo mai visto prima, ma c’era qualcosa di stranamente familiare in lui, anche se non riuscivo a vedergli chiaramente il viso perché era rivolto verso il tardo sole pomeridiano. Improvvisamente, in un gesto inconscio, si passò una mano tra i capelli scostando dalla fronte una ciocca ricciuta. Per un breve momento il ciuffo sembrò obbedire, poi esso tornò risolutamente al suo posto, roteando e avvolgendosi di vita propria. Poi il ragazzo si spostò leggermente ed io riuscii a vedere il suo viso.

Era il viso di mia figlia.

La sua pelle era abbronzata anziché candida ed il suo volto aveva perso la morbidezza dell’infanzia, i lineamenti più intensi e definiti rispetto a quelli di mia figlia, per quanto privi del grasso d’un bambino. Cionondimeno era il suo volto.

Era il volto di Massimo.

Un viso ampio ed espressivo, arguto, con un naso lungo ed elegante, una bocca scolpita alla perfezione e una fossetta nel mento volitivo. Ma ciò che catturò la mia attenzione furono i suoi occhi, perché non erano verdazzurri come quelli di mia figlia e di suo padre, ma della più stupefacente tonalità di verde, come ardenti smeraldi posati su oro scuro.

Il mio primo pensiero fu che Massimo si era sbagliato.

Che Marco non era stato ucciso.

Poi capii - come si può capire soltanto nei sogni - che il ragazzo non era Marco. Perché nella mia mente Marco somigliava a sua madre, soltanto un’ombra senza volto, e questo ragazzo era pura sostanza. No, non era Marco, perché Marco era morto e questo ragazzo era assolutamente vivo e pieno di vita.

C’era fuoco in lui, così come ce n’era in mia figlia. Egli sembrava bruciare come lei, due bambini vivaci e selvaggiamente belli che mi facevano venire in mente due cuccioli di leone vivaci e selvaggiamente belli.

Un enorme cane nero balzò fuori dei cespugli e corse verso il ruscello, gli orecchi appiattiti e la lunga coda ondeggiante dietro di lui mentre correva proprio verso il ragazzo; il suo pelo folto e lucente non lasciava alcun dubbio sul fatto che uno dei suoi antenati era stato un lupo. Il cane saltò nel torrente e si fermò vicino al ragazzo, vigile e pronto a difenderlo, ma anche curioso riguardo noi. Riguardo la donna e la bambina che si tenevano per mano sulla sponda, guardando il ragazzo tanto intensamente quanto lui guardava noi, tutti e tre noi riconoscendoci silenziosamente per quello che eravamo, ciò che rimaneva della famiglia di un uomo straordinario.

Improvvisamente, giunse un rumore di zoccoli da qualche parte dietro di me.

Il ragazzo sollevò il viso e si illuminò alla vista dell’uomo a cavallo che veniva verso il ruscello. Sorrise, ed il suo sorriso era fanciullesco, dolce e giovanile, una noncurante versione in miniatura del sorriso abbagliante di Massimo.

Gli zoccoli si avvicinarono.

Mia figlia mi stava tirando la mano, ridacchiando e saltando come faceva sempre quando era felice ed eccitata, ed il ragazzo mi superò, correndo verso l’uomo a cavallo, spruzzando e ridendo, mentre il grosso cane nero abbaiava pazzamente e correva dietro di lui... Ma a me sembrava di aver messo  radici, incapace di muovermi, incapace perfino di voltarmi. Un soffio di profumo mi giunse e sommerse quello polveroso del frumento cotto dal sole. Era un odore che conoscevo molto bene, una combinazione unica, muschiata e virile, di cuoio e sudore, terra e uomo. Un odore che avevo respirato in questo stesso campo ed in una tenda militare in Mesia e nel buio rovente della mia camera da letto. Gli zoccoli si fermarono dietro di me...

I miei occhi si spalancarono e mi levai a sedere, ansimando, con il cuore che mi batteva selvaggiamente in petto, l’odore di Massimo nelle narici e gli zoccoli del suo cavallo che martellavano nella mia mente...

Ma non erano zoccoli.

Qualcuno stava bussando alla porta della mia camera da letto.

Qualcuno lo stava facendo da un certo tempo.

Con i capelli arruffati, sbattendo le palpebre e sentendomi disorientata, mi guardai intorno. Che ora era? Primo mattino, ma più tardi dell’ora in cui mi svegliavo di solito. Avevo dormito troppo.

Chiunque stesse bussando alla porta lo fece di nuovo.

- Intra[1]! - gridai prima di ricordarmi delle circostanze in cui ero andata a dormire quella notte.

 La porta si aprì e comparve la mia domestica personale, tutta guance rosee e capelli grigi ordinatamente raccolti, i vestiti che come sempre odoravano di sole, amido e verbena.

- Buon giorno, domina. E che bella giornata! - Se Nicia fosse sorpresa di trovarmi nel mio letto nuda e sola, non lo diede a vedere. Invece, la bassa donna paffuta rimase sulla porta con una bracciata di vestiti appena stirati[2], i miei sandali egizi che le penzolavano dalle dita richiuse e mi porse il suo sorriso più gioviale, continuando a parlare. - Non hai lasciato istruzioni riguardo l’ora in cui svegliarti, domina, ma Apollinario mi ha detto che ha bisogno che gli firmi alcuni documenti prima di recarsi al porto. Inoltre, la tua colazione è pronta. - Mentre parlava, Nicia evitava attentamente di guardare al di sotto delle mie spalle. - Farai il bagno qui o devo scortarti alla casa da bagno?

- Q-qui... Qui andrà bene, Nicia... - dissi armeggiando con le lenzuola, non per coprire la mia nudità, ma per nascondere la tunica da schiavo di Massimo dagli occhi della donna greca, ben consapevole che pochissimo sfuggiva loro.

- Come desideri, domina. Sarà pronto in un attimo. - Prima di andare nella stanza da bagno, Nicia lasciò i miei vestiti su un divano e posò i sandali accanto ad esso. Facendolo, notò la mia camicia da notte abbandonata e la raccolse dal pavimento, dove l’avevo lasciata cadere la notte precedente. Senza una parola, la posò con cura su una sedia vicina e soggiunse: - Apollinario mi ha detto anche di informarti che il tuo ospite si è alzato e ti sta aspettando.

Mi rivolse la schiena ed il suo tono era assolutamente pratico, come se avere il gladiatore più famoso di Roma che divideva l’appartamento della sua padrona ed il tavolo della colazione… se non il suo letto… fosse stata la cosa più naturale del mondo.

Arrossii intensamente.

Nicia andò verso la stanza da bagno senza voltarsi.

Non appena la porta si chiuse dietro di lei, saltai fuori del letto, ghermii la tunica di Massimo e la piegai in fretta, quindi la misi nella cassapanca ai piedi del letto, nascondendola sotto un mucchio di camicie da notte ed abiti ordinatamente stirati. Ciò fatto, afferrai il primo abito della pigna… un bel capo di seta verde scuro adornato da un ricamo dorato… legai la fusciacca e mi affrettai verso l’arcata che conduceva alla terrazza.

Un suono di voci, tutte maschili, mi fermò sui miei passi. Distinsi chiaramente quella stentorea di Atenodoro. Due decadi prima era stato il soprintendente del cantiere navale ed ancora parlava come se cercasse di farsi sentire al di sopra del rumore incessante di martelli e seghe.

- ... è il meglio che sono riuscito a trovare...

La voce del mio sovrintendente svanì nella brezza, coperta da un acciottolio di piatti.

Si trovavano sul lato opposto del terrazzo, vicino alla copertura di tende e agli alberi in vaso, troppo lontani da me per poter osservarli senza uscire all’aperto. E non potevo uscire prima di vestirmi. Scandalizzare il capo della mia servitù aggirandomi con i capelli sciolti era una cosa, ma comparire anche alla sua presenza a piedi nudi e vestita a malapena d’un abito di seta era un’altra, ben diversa.

Mi sforzai di capire che cosa stava succedendo.

- ...Domine... guarda...

Corrugai la fronte. Domine?

Nessuno aveva usato quella parola in casa mia dalla morte di Mario Servilio. Il mio ex precettore era stato sempre "Apollinario", un modo rispettoso di rivolgersi ad un uomo che non era servo ma neanche membro della famiglia.

Domine.

I miei occhi si spalancarono con sospetto. Atenodoro si stava rivolgendo a Massimo?

Ero sul punto di scostare da una parte i tendaggi, anche a rischio di essere scoperta, quando Nicia parlò alla mia schiena.
- Il tuo bagno ti aspetta, domina.

Trasalii alla sua voce, mi ricomposi rapidamente e mi voltai.
- Grazie, Nicia, - dissi e mi diressi a passo di carica verso la stanza da bagno, con la determinazione di una nave romana da battaglia, riuscendo a raggiungere il mio rifugio
prima che la mia sconvolta domestica potesse reagire. Così, quando si riprese abbastanza per dar voce alla frase d’obbligo: "Domina, devo...?" io dissi "NO!" e le chiusi la porta in faccia.

 

Mario Servilio non era stato il proprietario originale della villa, ma era a lui che l’edificio doveva il suo sereno splendore e le rigorose comodità. I bagni negli appartamenti del padrone e della padrona al secondo piano erano l’ultimo tributo al genio costruttore romano. Erano spaziosi, ariosi, ben illuminati e lussuosi, ognuno fornito di toletta, bacile per lavarsi e vasca da bagno. Quando il clima era freddo, i pavimenti erano riscaldati grazie ad un sistema di hypocaustum[3] e tramite un qualche misterioso gioco di prestigio dell’ingegneria, acqua calda sprizzava dai tubi celati sotto la testa feroce di un leone ruggente. Non era né calda né abbondante come quella che si poteva godere nella casa da bagno al primo piano, ma più che sufficiente per gestire decorosamente l’igiene personale quando non ci sentivamo di attraversare la casa per un trattamento più completo. Ero vagamente consapevole che avere acqua calda corrente in un secondo piano non era né comune né semplice e tanto meno a buon mercato, perché avevo udito a sufficienza commenti invidiosi durante i banchetti che mio marito offriva, ma il mio interesse nell’ingegneria era in qualche modo limitato. Le stanze da bagno erano l’orgoglio e la gioia di Nicassio, il soprintendente della villa, un uomo dall’aspetto da passero con una vera passione per qualsiasi cosa relativa a costruzioni o meccanica, come altri uomini la riservano al collezionare sculture o all’accumulare denaro. Se qualcuno riusciva a coinvolgere mio marito in una conversazione lunga ore che non riguardava il commercio o le navi, quello era Nicassio. Mario Servilio capiva le navi come alcuni uomini capiscono i cavalli, le preferiva agli edifici e spesso persino alle persone. Ma capiva anche un uomo con una passione... Ed apparentemente una donna, dato che aveva sposato me, che avevo una passione ben nota per la lettura ed un’altra segreta, ma che non ero riuscita a celargli, per un uomo...

Lasciando cadere la veste di seta, mi adagiai nell’acqua calda profumata di loto e, come facevo sempre quando mi godevo le comodità della villa, benedii mentalmente Nicassio. Se soltanto il suo sacchetto dei trucchi, così utile quando si trattava di tubi, fontane e riscaldamento avesse contenuto qualcosa che avesse potuto aiutarmi con il mio attuale compito. Perforare le difese militari del generale Massimo Decimo Meridio doveva essere stato arduo in sé. Perforare le sue difese personali correndo anche contro il calendario ed il suo stesso desiderio di morte sembrava semplicemente impossibile. Tuttavia, mentre cominciavo a strofinarmi, mi venne in mente all’improvviso che, se l’ingegneria non poteva aiutarmi, forse l’agricoltura ed i cavalli avrebbero funzionato.

Subito dopo emersi dalla stanza da bagno, lavata e ancora bagnata, mi asciugai in fretta e più che impaziente andai a cercare Massimo. Nicia mi stava aspettando con un assortimento di pettini e spazzole già disposti sul ripiano del mio tavolino da toletta ed il suo sguardo di rimprovero mi disse che dopo avere aperto un varco nell’etichetta tra padrona e serva ed averle impedito di aiutarmi a fare il bagno, io non ero esattamente nelle sue buone grazie.

Riluttante, ma bisognosa d’aiuto, con i capelli lunghi fino alla vita tutti arruffati, mi sedetti e Nicia cominciò dapprima a toglierne i nodi, poi a pettinarli ed infine a spazzolarli. Fra sonno e vapore del bagno, la mia chioma era un disastro ed ella lavorava con feroce concentrazione e la precisione meticolosa di un gioielliere. A mala pena riuscii ad impedirmi di battere il piede per terra con impazienza.

- La tunica che ho scelto per te va bene, domina?

Il mio sguardo vacuo si riflesse nello specchio lucido e disse a Nicia che non avevo la minima idea di che cosa stesse parlando.

- E’ sul divano, domina, - aggiunse lei e io mi volsi a guardarla. Non potei fare a meno di corrugare la fronte. L’abito era fatto di uno dei tessuti più straordinari che avessi mai visto, del cotone egiziano più fine, intessuto con seta pura e tinto in una scura tonalità di verdazzurro molto simile a quella delle piume del pavone. Era leggero e soffice, e non somigliava a nulla che avessi visto o posseduto prima. L’avevo veduto tre anni prima al Mercato Traiano durante una delle mie usuali passeggiate per botteghe e l’avevo comprato d’impulso perché era semplicemente straordinario, ma soprattutto perché il suo colore simile ad un gioiello mi ricordava gli occhi di Massimo. La mia cucitrice era solita aggrondarsi quando le chiedevo abiti di cotone o lino dicendo che, non importa quanto questi fossero eleganti e costosi, la seta era il tessuto per me. Ma era rimasta stupefatta quando aveva visto il mio costoso tesoro ed aveva protestato animatamente quando le avevo chiesto una tunica molto semplice, rifiutando ripetutamente le sue proposte di qualcosa di più elaborato. Il risultato era stato un capo insolitamente elegante, le cui pieghe si muovevano, turbinavano e galleggiavano intorno a me, per ricadere con l’assoluta perfezione che si vede soltanto nelle statue. Avevo fatto tingere dal mio calzolaio un certo cuoio morbido nella stessa tonalità e fatto fare un paio di sandali assortiti.

Però non avevo mai indossato né l’uno né gli altri, sostenendo che il colore era troppo bizzarro per il lutto, ma in verità per la stessa ragione per la quale avevo comprato il tessuto: ogni volta che lo guardavo, era come guardare negli occhi di Massimo.

Nicia mi si affaccendava attorno da troppo tempo per non sapere che non faceva nulla solo per farlo. Era troppo greca. Le dardeggiai un’occhiata dura attraverso lo specchio, tuttavia ella continuò placidamente a spazzolarmi i capelli, il viso una maschera illeggibile.

- Va benissimo, - dissi e, incapace di resistere oltre all’impulso, battei il piede sotto il tavolo da toletta. La mia domestica ignorò deliberatamente la mia impazienza. Io deliberatamente ignorai lei.

Ma quando aprì una scatola smaltata per prendere qualche forcina e pettine d’avorio e d’oro, la fermai.
- No, - scattai. - Lasciali sciolti. - Nicia alzò un sopracciglio. - E non mi dire che non è appropriato.

- Con il dovuto rispetto, domina, ciò che stavo per suggerire era che, per quanto possano essere comodi e ovviamente belli, i capelli non legati non sono né adeguati né comodi per la spiaggia...

Socchiusi gli occhi nello stesso modo in cui faceva Rubia quando sospettava un gioco scorretto. Il volto di Nicia rimase insondabile.

- La spiaggia? - chiesi. - Non ho intenzione di andare alla spiaggia.

- Oh.

Oltre ad essere entrambi greci, Apollinario e Nicia avevano molte cose in comune. Per esempio, il modo in cui la dicevano lunga usando i monosillabi.

Rifiutai di abboccare.

Nicia continuò a spazzolarmi i capelli, intenzionata a restare sulle sue.

Io restai sulle mie… inutilmente.
- Perché la spiaggia? - chiesi bruscamente.

- E’ una giornata bella e piena di sole...

- Ed ogni volta che faccio un passo al sole, cominci a protestare su quanto sono trascurata e quante lentiggini sto per procurarmi.

Nicia strinse le labbra. Come Apollinario, poteva essere estremamente testarda.

Ma almeno in quell’area, eravamo pari. Sollevai il mento e, senza batter ciglio, la guardai dallo specchio.

- Dovresti andare alla spiaggia, - disse con aria carica di significato.

- Perché?

Nicia sembrò perdere un po’ della sua compostezza.

- Perché il tuo… il…

Le mie sopracciglia si arcuarono verso l’alto e quasi di loro propria volontà. Nicia non esitava mai. Come se mi avesse letto nella mente, la mia domestica addivenne ad una decisione linguistica.
- Perché LUI sta facendo domande riguardo alla SPIAGGIA.

- CHE COSA?

Nicia non era l’unica a padroneggiare l’arte di parlare a lettere maiuscole.

La donna greca mi offrì un sorriso raggiante. Mi sforzai di calmarmi, anche se il battere del piede divenne più insistente e il mio cuore martellava furiosamente.

- Come lo sai?

- Ecco, quando siamo venuti qui per cominciare a preparare tutto per la colazione, abbiamo trovato LUI in terrazza che guardava il mare. Atenodoro ha chiesto a LUI se desiderava o avesse bisogno di qualcosa, mentre LUI aspettava te per la colazione, ma LUI ha detto di no, che LUI avrebbe aspettato te, e invece ha cominciato a fare domande sul MARE e la SPIAGGIA

Rimasi a bocca aperta.

Massimo era in terrazza. Era là quando Atenodoro e Nicia erano venuti al mio appartamento per preparare la nostra prima colazione. Aveva chiesto loro del mare e della spiaggia…

Vedendo allo specchio il mio riflesso dall’aria sconvolta, chiusi la bocca e cercai invano di  ritrovare la voce. Arrossii ancora. Furiosamente.

- Dovresti andare alla spiaggia, - consigliò Nicia servizievole.

Mi morsi il labbro inferiore.
- Stavo pensando di andare a cavallo fino alla fattoria, - dissi prima di riuscire a fermarmi. Che cosa stavo facendo? Finché era stata la mia domestica, avevo tenuto Nicia a distanza allo stesso modo di chiunque altro, a parte Apollinario. I tentativi di lei di viziarmi
opportunamente deviati e scoraggiati, avevamo sviluppato un rapporto lineare basato su rispetto reciproco ed efficienza non invadente. Ed ora stavo discutendo con lei su dove portare Massimo. Dovevo essere impazzita...

Alle mie parole, Nicia roteò gli occhi.

Mi morsi il labbro inferiore ancora più forte.
- Così, tu pensi che dovrei andare alla spiaggia? - chiesi debolmente.

Il sorriso feroce della mia domestica suggeriva quanto fosse insensato sfidare la saggezza di una donna che aveva tirato su sei figli maschi fino ad età da matrimonio e trattato con successo con un marito per più di trent’anni.

Probabilmente aveva ragione.

Più probabilmente che no.
- Va bene, - dissi. - Ma non voglio i capelli raccolti!

Il sorriso nello specchio lucido passò dalla ferocia all’assoluta delizia.
- Lascia tutto a me, domina, - disse allegramente. - Non devi far altro che andare a firmare i documenti e goderti la gustosa colazione che Atenodoro ha preparato per te! Mi prenderò io cura di tutto!

Mentre parlava, Nicia mi picchiettò la spalla, quindi riprese a spazzolarmi i capelli. I miei occhi si spalancarono per la sorpresa per la seconda volta in pochi minuti. Era la mia domestica personale da oltre cinque anni e i suoi doveri la portavano a toccarmi molte volte al giorno mentre mi spazzolava i capelli o mi aiutava a fare il bagno o a vestirmi. Ma il suo tocco era sempre stato quello di una domestica personale, senza alcuna traccia di familiarità. Picchiettarmi la spalla era stato un gesto che implicava calore e affetto e complicità femminile. Era stato stranamente sorprendente. Leggermente snervante. E inaspettatamente benvenuto.

Fu con una certa trepidazione che infine andai in terrazza, le osservazioni di Nicia su Massimo non esattamente ideali per la mia pace mentale, dopo esser stata testimone del di lui disagio quale riluttante oggetto di attenzione da parte dei miei famigli.

La prima cosa che notai fu Atenodoro che si affaccendava intorno al tavolo della prima colazione. Poi notai il tavolo della prima colazione. Gemeva sotto il peso di piatti sufficienti ad alimentare un generale romano ed il suo intero stato maggiore dopo una marcia forzata in armatura completa, la mia solita colazione a base di frutta e cereali cotti integrata da un ampio assortimento di pani, carni fredde, formaggi, torte di frutta, burro, conserve, miele, panna e latte. E, al centro dell’esposizione, un vaso di vetro colorato con due rose.

Due rose color rosso sangue.

Due rose color rosso sangue intrecciate.

Girai sui talloni ma, prima di riuscire a scoccare un’occhiataccia al mio amministratore, Apollinario mi scoprì.
- Giulia! Eccoti qui! - Il mio ex precettore, in piedi vicino alla balaustra di marmo, imbracciava una pigna di papiri e apparentemente stava cercando di coinvolgere Massimo in una qualche sorta di conversazione. A giudicare dalla tensione nella postura di Massimo e dalla sua mascella serrata, chiaramente non stava avendo successo. Alle parole di Apollinario, Massimo si voltò e il suo volto si illuminò. Prima che egli riuscisse a padroneggiare i suoi lineamenti, vi intravvidi contentezza ed aperta ammirazione, ma anche sollievo. Immediatamente si allontanò dalla balaustra di marmo e fece due o tre passi verso di me, poi si fermò con fare esitante. Era evidente che lo aveva fatto non soltanto per avvicinarsi a me, ma anche per mettere una certa distanza fra lui ed Apollinario.

Sospirai. Non importa quanto temessi di sapere che cosa fosse accaduto fra loro la notte dell’arrivo di Massimo o quanto poco propensa mi sentissi a scoprire la verità, era chiaro che avrei dovuto fare qualcosa al riguardo. E avrei dovuto farlo presto. Fra le molte cose che erano andate male nel mio piano di salvare Massimo, quello era l’argomento più rilevante.

- E guardati! - continuò Apollinario. - Sei semplicemente mozzafiato con quel colore, mia cara!

Massimo arcuò le sopracciglia all’uso delle parole "mia cara" da parte di Apollinario, ma qualunque commento avessi potuto suggerire mi morì in gola nell’attimo in cui lo guardai. Aveva sostituito la tunica color sabbia a favore di quella leggera di lana bianca. La nuova tunica gli stava alla perfezione ed il suo colore lo faceva sembrare assurdamente giovane ed ancor più attraente di quanto già fosse. Il tessuto gli aderiva ai muscoli scolpiti del torace, mettendoli ancor più in mostra invece di coprirli, come si suppone debbano fare i vestiti. Sapevo di essere incantevole nella mia tunica verdazzurra. Ma se qualcuno sulla terrazza era "mozzafiato", quello era Massimo. La mia aperta ammirazione doveva essersi rivelata sul mio viso perché Massimo sbatté rapidamente la palpebre ed arrossì leggermente sotto l’abbronzatura. Apollinario era trionfante.

- Vieni! Vieni, mia cara! Ho bisogno che firmi questi documenti in modo che possa andare al porto e lasciare te ed il generale a godervi la vostra prima colazione! - disse indicando sia a Massimo che a me la tavola apparecchiata sotto la tenda da sole.

Il mio sguardo sfrecciò da lui alla tavola, a Massimo.
- Buongiorno, - gli proposi e la mia voce suonò rauca anche alle mie stesse orecchie. Egli si rilassò visibilmente e mi offrì un sorriso timido.

- Buongiorno, - bisbigliò e mi fece cenno verso la tavola.

Ci sedemmo sulle sedie, Apollinario invece prese uno sgabello e mi passò le lettere da firmare, mentre Atenodoro si muoveva intorno a noi emettendo suoni borbottanti, molto simili a quelli di una gallina meditabonda alla cova. Per la seconda volta in pochi minuti, gli scoccai un’occhiataccia, ma lui non stava guardando nella mia direzione. Invece stava versando qualcosa nel calice di Massimo. Lui guardò il liquido con aria dubbiosa.

- Acqua e miele con succo di limone, domine, - tuonò il mio sovrintendente con fare servizievole. Massimo bofonchiò qualcosa che io non riuscii a capire, ma a giudicare dal sorriso raggiante di Atenodoro, doveva essere un complimento.

Seppellii il naso nei documenti, pronta a fare la mia parte e spedir via Apollinario il più presto possibile.

Poi mi sarei occupata di Atenodoro...

- C’è qualcosa che dovrei sapere? - chiesi ad Apollinario mentre brevemente scorrevo le lettere prima di firmarle.

- Null’altro che il solito. La Naiade è attraccata al riparo e verrà scaricata mentre parliamo. La Spartan sarà pronta in tempo a salpare per Creta nonostante il ritardo nell’arrivo del carico, - Apollinario si rivolse a Massimo. - E’ alta stagione per la navigazione, generale, - spiegò. - Tempi impegnati, di sicuro. Ma gli affari di Giulia sono molto ben organizzati nonostante le dimensioni e molto ben diretti. Ci vuole qualcosa di veramente straordinario per creare problemi...

Massimo annuì insondabile. Io affrettai lo scorrere delle lettere e il firmarle. Apollinario continuò vivacemente.
- Emilio Trebuzio Flacco manda i suoi saluti e chiede se prenderesti in considerazione l’idea di accordare un passaggio a suo nipote Calpurnio Flacco, sulla Focena. - Deciso a coinvolgere Massimo nella già inesistente conversazione, il mio ex precettore si rivolse di  nuovo a lui. - Le navi di Giulia di solito non portano passeggeri, perché fondamentalmente sono da carico. Ma Emilio Trebuzio Flacco è uno dei suoi banchieri, - spiegò. - La Focena è diretta ad Alessandria e il giovane Calpurnio Flacco è ansioso di arrivare in tempo per il matrimonio di suo fratello…

Questa volta Massimo si limitò a grugnire.

- Di’ ad Emilio Trebuzio Flacco che suo nipote è il benvenuto a bordo della Focena a condizione  che riesca a non disturbare e a tenersi lontano dall’equipaggio, - dissi senza alzare lo sguardo dalla lettera che stavo controllando. - E digli di assicurarsi di scoraggiare Calpurnio Flacco da qualsiasi idea di ringraziarmi personalmente...

C’era uno spigolo nella mia voce ed io sentii, più che vedere, Massimo divenire vigile. Sorrisi interiormente. Calpurnio Flacco era stato uno dei miei indesiderati pretendenti. Suo fratello maggiore, Cecilio Flacco, era sposato a quel tempo, ma la cosa non gli aveva impedito di rivaleggiare con il giovane Calpurnio: si era offerto di divorziare dalla sua seconda moglie se io l’avessi preso come marito. Dopo il mio colorito rifiuto, i suoi debiti di gioco l’avevano spedito ad Alessandria in una sorta di malcelato esilio. Ora stava per sposarsi per la terza volta ed io paventavo di chiedere cosa fosse accaduto alla sua seconda moglie. Interiormente, compatii la sfortunata ragazza ricca che era stata gravata non di uno solo degli inutili nipoti del banchiere, ma di due: la sua dote avrebbe pagato i loro debiti di gioco congiunti perché, nonostante le apparenze e ovvie debolezze, i Flacci non mancavano del tutto di fraterna lealtà.

- Andrai in città dopo aver finito al porto? - chiesi mentre riconsegnavo ad Apollinario un’altra lettera firmata.

- Pensavo di far visita al mio libraio. Hai bisogno che ti svolga qualche commissione?

- Sì. Troverai una lettera sulla mia scrivania. E’ già firmata e sigillata. Sii così gentile da consegnarla al tempio di Iside. - La mia regolare corrispondenza con Merith era l’unico carteggio personale in cui indulgevo, e i misteriosi collegamenti col tempio della dea egizia più volte si erano provati più efficaci del servizio postale e delle mie stesse navi messi insieme.

- C’è altro? - chiesi esaminando l’ultima lettera.

- Hai preso una decisione riguardo a Bauli[4]?

Prima che potessi rispondere, Apollinario si rivolse a Massimo.
- Giulia ha una seconda villa a Bauli, - spiegò. - Non è bella o grande come questa, ma più rustica e agreste. Era di suo marito, ma lei non ci va mai. Adesso c’è qualcuno interessato a prenderla in affitto...

- Non è da affittare, - dissi io in tono che non ammetteva repliche.

- Dovresti riconsiderare la tua decisione, - insistette Apollinario. - Non ci vai mai. In tutti questi anni sei stata a Bauli soltanto una volta e per due settimane.

Apollinario aveva ragione. Bella com’era, Bauli non mi attraeva; la quiete della mia seconda villa e dei suoi dintorni mi turbavano.

- Ci sto perdendo denaro? - chiesi. - Non mi pareva, dopo aver letto il rapporto...

- Mm... no. Fondamentalmente, no. La villa si sostiene da sola e produce perfino denaro extra per finanziare le necessarie riparazioni...

- Come supponevo.

- Ma tenerla vuota anno dopo anno non ha senso. Perché non affittarla?

- Perché è mia e io non affitto mai qualcosa che è mio.

Ecco. Avevo una marcata avversione nell’affittare qualcosa di mia proprietà, nel permettere ad altri di usare qualcosa che era mio anche se non ne facevo uso. Mi ricordava troppo la prostituzione.

- Allora, se non la vuoi affittare, vendila.

- Non sono ancora pronta a venderla, - dissi in tono definitivo e cambiai argomento prima che Apollinario avesse il tempo di continuare a insistere. - Avevi ragione su questo giovane, Brenno. Il suo rapporto su Bauli non solo è completo, ma anche acuto. Voglio che faccia il rapporto su Melita[5].

Apollinario annuì e prima che potessi impedirglielo, si rivolse ancora una volta a Massimo.
- Giulia ha una terza villa ed è nell’isola di Melita. Lei non l’ha mai vista e neanch’io. La ottenne in pagamento da un cliente che aveva avuto un rovescio finanziario...

Sollevai le sopracciglia all’eufemismo di Apollinario. Il mio cliente aveva avuto un rovescio finanziario, sì. Ma la sua cattiva fortuna aveva avuto un nome ed anche un serto di lauro d’oro sulla giovane testa: Commodo.

Come molti altri della sua classe sociale, il senatore Capito aveva condotto i suoi affari con l’intermediazione di un abile liberto che aveva usato la mia flotta per trasportare i suoi carichi, principalmente buon olio d’oliva del suo appezzamento di terreno in Betica[6] e vino dei suoi vigneti in Gallia. Era stato un uomo rispettabile per i criteri senatoriali, ma aveva commesso l’errore di non riuscire a notare che la marea era cambiata con l’arrivo del nuovo imperatore. Aveva fatto un discorso nell’aula del Senato contro la decisione di Commodo di abbandonare le conquiste di suo padre - che in realtà erano le conquiste di Massimo - in Germania. Il giovane imperatore aveva sostenuto la propria decisione argomentando che troppo denaro era stato speso in operazioni militari al confine settentrionale, senza aver realizzato nulla di concreto. Ma il senatore aveva attaccato il suo discorso dicendo che troppo denaro stava per essere speso per i giochi per realizzare ancor meno. Una settimana dopo gli schiavi della sua casa erano morti per una qualche misteriosa indisposizione che aveva preso anche la sorella più giovane, vedova, del senatore. Poco tempo dopo, i suoi magazzini romani erano bruciati fino alle fondamenta, seguiti dalla sua villa di campagna. Meno d’un mese dopo il suo discorso, nel mezzo della notte, guardie pretoriane dai neri mantelli avevano bussato rumorosamente alle porte della sua casa di città per arrestarlo con l’accusa di tradimento. Ma il senatore non si trovava là e nemmeno il suo liberto e sua moglie.

Emilio Trebuzio Flacco era venuto alla mia villa non annunciato, una cosa estremamente insolita, perché il banchiere lasciava Roma solamente per trascorrere l’estate alla sua villa di Neapolis[7]. Ci eravamo scambiati le cortesie d’uso e poi lui mi aveva teso in silenzio il documento che teneva celato tra le pieghe del vestito. Era l’atto che trasferiva a me la villa di Melita del senatore Capito. Era datato due mesi prima del famoso discorso ed Emilio Trebuzio Flacco era uno dei testimoni firmatari. Quando sollevai lo sguardo da esso, il banchiere scrollò le spalle e suggerì che gli sarebbe piaciuto dare un’occhiata ai miei giardini che, aveva sentito dire, erano "i più belli di Ostia".

Avevamo camminato in silenzio per qualche tempo, fermandoci qua e là per ammirare una statua o il colore di una rosa. Poi, Emilio Trebuzio Flacco si voltò verso di me.
- Conosco il senatore Capito da molti anni, domina. Un uomo rispettabile ma, sfortunatamente, il nuovo imperatore non è riuscito ad apprezzarlo, - disse, con un tono austero in cui era assente la sua solita cattiveria. - Egli ha deciso di correre il rischio di lasciare Roma prima che venissero a prenderlo,
ma prima di andarsene ha voluto onorare i suoi debiti nei tuoi confronti. Noi abbiamo dovuto... manipolare certi dettagli per impedire all’imperatore di contestare un giorno la transazione ed impadronirsi della proprietà. Capito mi ha chiesto di dirti che gli dispiaceva doverti opprimere con la vecchia villa, ma era il suo unico bene abbastanza lontano da Roma da essere in qualche modo difficile da sequestrare..

Il robusto banchiere si fermò un momento e guardò verso gli alberi. Poi riprese a parlare.
- In altre circostanze, ti consiglierei di venderla, domina. Ma considerando la presente situazione, non sarebbe una cattiva idea tenere una proprietà fuori dell’Italia...

Io rabbrividii nonostante il caldo sole primaverile. C’era un tono di malaugurio nella voce di Emilio Trebuzio Flacco.

- Vuoi dire... ci possono essere... problemi?

- Domina, tu sei una donna intelligente perciò sarò schietto, - disse ed io non potei fare a meno di pensare che c’era una punta di sollievo nel suo tono. Come se il banchiere fosse stato grato dell’opportunità di condividere qualcosa che gli stava rodendo le viscere da qualche tempo. - Io ammiravo il defunto imperatore. Qualsiasi uomo d’affari ammira un governante che porta stabilità al suo paese. Ma temo che sia finita. Marco Aurelio era un grande governante, ma fu costretto a combattere molte guerre e le guerre costano all’impero molto denaro. La tesoreria di stato è vuota.  Oh, è vuota da anni. Ma Marco Aurelio era abile e sapeva come tenere a galla lo stato. Temo che suo figlio non sia altrettanto abile. E quel che è peggio, non è interessato...

Emilio Trebuzio Flacco fece una pausa. Dopo che da sei anni avevo regolarmente a che fare con lui anche socialmente, ero abituata al suo modo di discorrere e alle pause di sospensione che usava per aggiungere peso alle sue rivelazioni. Ma questa volta era diverso. Non aveva bisogno di aggiungere effetto alle sue parole perché stava parlando di questioni molto serie.

- E’ interessato solamente ad intrattenere la folla… e se stesso. Devo ammettere che Marco Aurelio mi ha deluso nella scelta del suo erede. Commodo è il suo unico figlio in vita ma... - il banchiere fece un gesto di impotenza cercando le parole, poi sospirò e proseguì. - Roma ha bisogno di un uomo austero, forte, morale, che possa trattare con l’esercito ed il Senato ed impedire la disintegrazione dell’impero. Abbiamo bisogno di un altro Vespasiano. Un altro Traiano. Ma siamo stati gravati d’un giovincello imprudente che pensa che essere imperatore voglia dire indossare costumi fantasiosi e presiedere ai giochi...

- Ho sentito dire che sua sorella è una donna assennata e che ha anche una certa influenza su di lui... - suggerii cautamente, incerta ancora su dove Emilio Trebuzio Flacco voleva andare a parare, su quale fosse il suo ruolo nella partenza del senatore Capito e nella mia improvvisa proprietà della villa nella lontana isola di Melita.

Al nominare la sorella imperiale, il viso cupo del banchiere in qualche modo si illuminò.
- Ho avuto l’onore di incontrare l’Augusta Lucilla e non solo ella è una donna assennata, ma anche una statista nata. Se fosse stata un uomo, sarebbe stata un Cesare straordinario, - disse. - Ma è nata donna, per cui... Inoltre, l’Augusta Lucilla ha qualche altro più urgente... problema personale che può avere la precedenza sui suoi tentativi di guidare il fratello nelle questioni di politica romana...

Le mie sopracciglia si arcuarono in un’espressione confusa. Emilio Trebuzio Flacco sospirò ed abbassò la voce ancora di più.
- Domina, non trovi strano che il giovane imperatore non sia sposato né abbia in progetto di sposarsi? O che essendo ora lui il capofamiglia non abbia fatto alcun passo per assicurarsi la fedeltà di qualche potente famiglia senatoriale facendo sposare la sorella vedova? - bisbigliò con urgenza e nelle sue parole non v’era traccia della sua solita predilezione per il pettegolezzo. - Per un governante in una situazione precaria come quella di Commodo, una sorella come l’Augusta Lucilla, bella, ricca di suo e che si è dimostrata fertile, è un bene inestimabile. Tuttavia, egli si rifiuta di usare il potenziale di lei...

Io rabbrividii di nuovo alle implicazioni delle parole del banchiere. Avevo udito quelle voci, naturalmente. Esse sono come la peste: non puoi evitarle semplicemente chiudendoti in casa tua. Io avevo sentito le voci ed ero anche venuta a sapere dello scandalo dell’ingresso dell’imperatore a Roma, con la sorella maggiore che divideva spensieratamente il carro di lui e gli onori della sua ascesa al trono quando avrebbe dovuto essere in lutto per il padre. Ma le voci avevano circondato Commodo da quando era nella culla. O, più propriamente, le voci erano cominciate quando lui era nella culla perché si diceva con insistenza che non lo avesse generato Marco Aurelio, ma uno dei gladiatori che usavano intrattenere assiduamente l’imperatrice nelle celle del Colosseo. Mentre lui cresceva, c’erano state chiacchiere sul suo carattere astioso, la sua intelligenza limitata, la sua crudeltà indifferente e sul disgusto malcelato di suo padre per tutto questo. Poi, improvvisamente, Commodo era tornato dalla Germania da imperatore, in parata come un conquistatore proprio prima di rinunciare alle conquiste romane...

- Se la tesoreria statale è svuotata, - chiesi articolando attentamente ogni parola, - come fa l’imperatore a finanziare i suoi giochi?

Emilio Trebuzio Flacco sorrise debolmente.
- Come ho detto, sei una donna intelligente, domina. La procedura usuale sarebbe di elevare le tasse, ma il giovane Commodo è troppo preoccupato di compiacere la folla per prendere tale... misura impopolare. Così tiene di mira il Senato e ogni critica minore viene trattata come un tradimento e le fortune del senatore o del cavaliere in disgrazia vengono confiscate. Come hai già notato, il nuovo imperatore non prende le critiche alla leggera...

Un giardiniere ci superò, gli attrezzi ordinatamente disposti in cima all’erba tagliata che riempiva il carretto trainato da un asino. L’uomo si tolse il cappello di paglia e rispettosamente si inchinò verso di noi prima di proseguire il suo cammino. Il banchiere aspettò che si fosse allontanato prima di continuare a parlare.

- Ma questo non è abbastanza. Davvero, non abbastanza. La svalutazione della moneta romana non è bastata, così egli ha cominciato a vendere le riserve statali di grano...

Io sussultai. Le riserve statali di grano erano usate per alimentare i poveri quando i tempi si facevano duri per Roma. Più di cento anni erano passati ed i genitori romani ancora spaventavano i loro bambini con storie orrende dei tempi in cui il pazzo imperatore Caligola aveva legato con catene i granai pubblici ed affamato il popolo solo perché egli era scontento della mancanza di entusiasmo ai giochi che aveva progettato.

Ed ora Commodo stava vendendo le riserve statali di grano per pagare i suoi.

- Spero che quegli sporchi bastardi si stiano godendo i loro giochi, perché pagheranno per essi con le loro vite e con quelle dei loro bambini, - proruppe Emilio Trebuzio Flacco ed io trasalii alla sua insolita manifestazione di emozioni. Il banchiere si moderò ed aggiunse: - Quindi, domina, il mio consiglio è che tu tenga la villa. Agisci come se l’avessi comprata e manda laggiù il tuo uomo, Apollinario, o qualcun altro, a darvi un’occhiata e a sorvegliare i custodi. Forse dovresti andarvi tu stessa... Melita è un bel luogo. Ti piaceranno le rose. La villa è vecchia, ma piacevole e confortevole. A tempo debito, se deciderai di non volerla tenere, io sarò onorato di comprarla da te. Ti farò il miglior prezzo. E’ il minimo che io possa fare per Capito. Era un bravuomo...

- Era?

Il banchiere sorrise addolorato.
- Gli imperatori possono essere inefficienti, domina, ma i comandanti pretoriani non lo sono mai. E Commodo se n’è preso uno particolarmente efficiente, l’ex legato del miglior esercito romano. Le possibilità di Capito erano bassissime...

 

Il tossire discreto di Apollinario mi restituì alla realtà. Il mio ex precettore mi guardò con divertiti occhi nocciola. Io aggrottai la fronte.

- Cosa?

- Ho detto che sto per andare al porto, Giulia.

- Oh, sì. Vai. Vai. - Lo congedai con un gesto ed egli ridacchiò sfacciato, si alzò e s’inchinò leggermente. - Giulia. Generale, - disse, poi girò sui talloni e andò verso l’arcata, evitando appena di urtare Nicia che entrava in terrazza in quel preciso momento, portando un cestino coperto da un tovagliolo. La mia domestica personale compì una piroetta notevolmente agile per una donna della sua età e floridezza e riuscì a salvare il cesto, che portò a tavola dopo avere scambiato col mio ex precettore una miriade di scuse e cordialità in greco vernacolare. Erano sempre stati amici e, più d’una volta, in combutta. Qualcosa mi diceva che questo era uno di quei casi.

- Il cuoco ti manda questo, domina, - disse Nicia spostando le ciotole e i piatti sulla tavola ingombra per fare spazio a quella nuova aggiunta alla già abbondante colazione. Qualcosa nel paniere mandava un profumo delizioso. Nicia tolse il tovagliolo scoprendo una dozzina di biscotti appena sfornati. Io aggrottai di nuovo la fronte. Anche se non amo troppo i dolci, conoscevo molto bene quei biscotti. Erano fatti con pinoli, uvette e miele e il mio cuoco li preparava solo in occasioni speciali, come i Saturnalia,[8] quando io distribuivo a tutti i bambini della villa un cestino come quello di fronte a me.

Sospirai profondamente, costringendomi vanamente a rilassarmi, poi tamburellai le dita sul ginocchio. Un dolore sordo mi si stava insinuando dietro la testa. Mi rifiutai di prestarvi attenzione. Nicia si accorse della mia malcelata irritazione e discretamente allontanò suo marito dalla tavola e, misericordiosamente, anche dalla terrazza, riuscendo nel frattempo a farmi un cenno significativo con il capo.

Il mal di testa aumentò, rendendo impossibile ignorarlo.

Chiusi gli occhi, mi strinsi tra pollice ed indice la radice del naso e in silenzio contai a rovescio a partire da dieci, in greco.

Quando aprii gli occhi, vidi che Phoenion si era materializzato come dal nulla ed ora si era appollaiato sullo sgabello che Apollinario aveva occupato, guardando la tavola con dorati occhi pieni di speranza.

- Non ci pensare nemmeno, - lo avvisai ed i baffi del gatto abissino si mossero con così sottile disdegno che non c’era alcun possibile dubbio riguardo ciò che Phoenion pensava di guastafeste come me.

Tenuto sotto controllo il gatto per il momento, mi voltai verso Massimo e scoprii che mi guardava con sopracciglia corrugate.

- Che c’è? - chiesi un poco più aspra di quanto intendessi.

- Saresti stata un questore militare sorprendente, Giulia, - disse, il suo tono un misto di divertimento e aperta ammirazione.

Ero stupefatta. Vanamente cercai di rispondere, poi scoppiai a ridere.

Riuscivo ad udire il sollievo nelle mie stesse risa, ma anche una punta di isteria.

Massimo mi offrì un sorriso molto simile a quello del bambino dagli occhi verdi del mio sogno, poi prese un biscotto e lo addentò. Il suo volto riflesse un’immediata espressione di sorpresa e piacere, ed il suo sorriso si allargò.

Per un breve, fugace momento non sembrò più vecchio di quel ragazzino al ruscello.

Presi un biscotto e cominciai a masticare con gusto.

 

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[1] In latino: “Avanti” (N.d.A.).

[2] Per stirare, i Romani utilizzavano piastre di bronzo con lunghi manici che venivano riscaldate e poi passate su toghe e tuniche. Esistevano anche le lavanderie, botteghe in cui i romani portavano i vestiti a lavare e stirare, e dove veniva praticata la stiratura a freddo o “lisciatura” (N.d.T.).

[3] In latino: “scaldato da sotto”. Un sistema di canali scavati in muri e pavimenti e connessi ad una fornace, che permetteva di riscaldare le stanze nei bagni pubblici e nelle case dei ricchi, facendo circolare l’aria calda. La stessa rete di canali permetteva l’espulsione dei gas tossici tramite aperture nei muri esterni e nei tetti. Era molto costoso, così persino nel palazzo imperiale soltanto alcune stanze avevano questo tipo di riscaldamento mentre nelle altre si usavano i bracieri (N.d.A.).

[4] Bacoli (NA). Secondo la tradizione il nome deriva dal greco Boualia o Bualia (stalla), in riferimento alle stalle create da Ercole per i buoi portati dalla Spagna. (N.d.T.).

[5] L’isola di Malta (N.d.A.).

[6] Hispania Baetica: fu una delle province romane in cui venne suddiviso il territorio della penisola iberica (Hispania) a partire dalla riforma augustea del 27 a.C.. La provincia comprendeva la parte meridionale della penisola, in corrispondenza dell’attuale Andalusia, con capitale Corduba. Fu inserita tra le province senatorie e venne governata da un pretore. La provincia prosperava grazie alla sua agricoltura, alla buona navigabilità sul fiume Baetis (Guadalquivir) e alle sue miniere di piombo e argento della Sierra Morena e del Rio Tinto. Esportava grano, vino, salamoie, garum e un olio d’'oliva molto apprezzato, trasportato nelle famose anfore spagnole (cfr http://it.wikipedia.org/wiki/Betica ). (N.d.T.)

[7] Napoli (N.d.T.)

[8] Saturnalia: Festa romana in onore del dio Saturno. Cominciava il 17 dicembre e durava una settimana, durante la quale i romani si incontravano con i loro parenti per banchettare, celebrare e scambiare doni allo stesso modo in cui noi facciamo oggi a Natale e Capodanno (N.d.A.).