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Stavo
sognando di lei. Non accadeva di frequente. Non sono una persona che sogna
facilmente o con regolarità. Al contrario, sogno soltanto se i sogni sono
suscitati da un’emozione intensa, come quando avevo visto gli schiavi celti.
Ma, di tanto in tanto, sia che fossi preoccupata o no, lei mi appariva in
sogno. La mia bambina.
Nel mio
sogno non era più una neonata, ma una bimbetta vivace di due o tre anni. Aveva
neri capelli ondulati e luminosi occhi verdazzurri, e la sua risata era come il
suono d’un campanellino. Eravamo entrambe a piedi nudi, sporche, stanche e
felici. Stavamo giocando in un campo e la sua tunica era imbrattata e sul suo
nasino c’era uno schizzo di fango. Io non ero più pulita di lei, ma il mio
cuore era leggero e la mia risata echeggiava nelle mie stesse orecchie. E
quando la presi in braccio e la strinsi al mio petto, ella mi avvolse le
braccine attorno al collo e mi guardò negli occhi con la genuina fiducia che
solo i bambini riescono ad avere. E io mi sentii gonfiare il cuore, perché era
Massimo che mi stava guardando attraverso gli occhi di nostra figlia. Ella
sorrise ed il suo sorriso era quello di lui… disarmante, accecante, pieno di
gioventù, innocenza e vita… perché di lui erano la sua bella bocca scolpita e
le fossette sul mento.
Le baciai
la punta del nasino e mia figlia ridacchiò come faceva sempre quando la baciavo
lì, poi scalciò e si contorse finché la misi giù. Non appena i suoi piedini
infangati toccarono l’erba, ella corse verso il vicino ruscello e io le corsi
dietro, il sole che scaldava i campi di frumento dietro di noi. Potevo udire il
fruscio degli steli che oscillavano nella brezza, come il bisbiglìo di
altrettanti spiriti e per un momento credetti di udir bisbigliare il mio
nome...
Eravamo
solite giocare in quel ruscello, spruzzando e ridacchiando come se non fossimo
altro che bimbette anziché madre e figlia. Quando ci stancavamo troppo per
continuare a giocare, mi sedevo su una roccia grande e piatta, la prendevo tra
le mie braccia e rimanevo là, cullandola, raccontandole storie di cavalli e
gatti e di un affascinante generale vestito d’una corazza cesellata e due
pellicce di lupo argentato che gli ricadevano dalle ampie spalle. E quando ella
stava per addormentarsi, la mettevo a cavalcioni della mia anca e la riportavo
a casa, alla villa di campagna riparata dalle colline.
Ma quel
giorno la vidi fermarsi sui suoi passi quando arrivò al ruscello e io mi
affrettai, per vedere che cosa aveva fatto trasalire mia figlia, dato che lei
non era mai timorosa né si spaventava facilmente.
C’era
un bambino nel ruscello.
Un
ragazzino.
Era di
tre o quattro anni più grande di mia figlia, un bel ragazzino robusto, con
lunghe gambe e folti capelli castani. Si era tolto i sandali e stava in piedi
con le ginocchia nell’acqua, sembrava sorpreso della nostra improvvisa comparsa
quanto noi lo eravamo dalla sua presenza. Non lo avevo mai visto prima, ma
c’era qualcosa di stranamente familiare in lui, anche se non riuscivo a vedergli
chiaramente il viso perché era rivolto verso il tardo sole pomeridiano.
Improvvisamente, in un gesto inconscio, si passò una mano tra i capelli
scostando dalla fronte una ciocca ricciuta. Per un breve momento il ciuffo
sembrò obbedire, poi esso tornò risolutamente al suo posto, roteando e
avvolgendosi di vita propria. Poi il ragazzo si spostò leggermente ed io
riuscii a vedere il suo viso.
Era il
viso di mia figlia.
La sua
pelle era abbronzata anziché candida ed il suo volto aveva perso la morbidezza
dell’infanzia, i lineamenti più intensi e definiti rispetto a quelli di mia
figlia, per quanto privi del grasso d’un bambino. Cionondimeno era il suo
volto.
Era il
volto di Massimo.
Un viso
ampio ed espressivo, arguto, con un naso lungo ed elegante, una bocca scolpita
alla perfezione e una fossetta nel mento volitivo. Ma ciò che catturò la mia
attenzione furono i suoi occhi, perché non erano verdazzurri come quelli di mia
figlia e di suo padre, ma della più stupefacente tonalità di verde, come
ardenti smeraldi posati su oro scuro.
Il mio
primo pensiero fu che Massimo si era sbagliato.
Che
Marco non era stato ucciso.
Poi
capii - come si può capire soltanto nei sogni - che il ragazzo non era Marco.
Perché nella mia mente Marco somigliava a sua madre, soltanto un’ombra senza volto,
e questo ragazzo era pura sostanza. No, non era Marco, perché Marco era morto e
questo ragazzo era assolutamente vivo e pieno di vita.
C’era
fuoco in lui, così come ce n’era in mia figlia. Egli sembrava bruciare come
lei, due bambini vivaci e selvaggiamente belli che mi facevano venire in mente
due cuccioli di leone vivaci e selvaggiamente belli.
Un
enorme cane nero balzò fuori dei cespugli e corse verso il ruscello, gli
orecchi appiattiti e la lunga coda ondeggiante dietro di lui mentre correva proprio
verso il ragazzo; il suo pelo folto e lucente non lasciava alcun dubbio sul
fatto che uno dei suoi antenati era stato un lupo. Il cane saltò nel torrente e
si fermò vicino al ragazzo, vigile e pronto a difenderlo, ma anche curioso
riguardo noi. Riguardo la donna e la bambina che si tenevano per mano sulla
sponda, guardando il ragazzo tanto intensamente quanto lui guardava noi, tutti
e tre noi riconoscendoci silenziosamente per quello che eravamo, ciò che
rimaneva della famiglia di un uomo straordinario.
Improvvisamente,
giunse un rumore di zoccoli da qualche parte dietro di me.
Il
ragazzo sollevò il viso e si illuminò alla vista dell’uomo a cavallo che veniva
verso il ruscello. Sorrise, ed il suo sorriso era fanciullesco, dolce e
giovanile, una noncurante versione in miniatura del sorriso abbagliante di
Massimo.
Gli
zoccoli si avvicinarono.
Mia
figlia mi stava tirando la mano, ridacchiando e saltando come faceva sempre quando
era felice ed eccitata, ed il ragazzo mi superò, correndo verso l’uomo a cavallo,
spruzzando e ridendo, mentre il grosso cane nero abbaiava pazzamente e correva
dietro di lui... Ma a me sembrava di aver messo
radici, incapace di muovermi, incapace perfino di voltarmi. Un soffio di
profumo mi giunse e sommerse quello polveroso del frumento cotto dal sole. Era
un odore che conoscevo molto bene, una combinazione unica, muschiata e virile,
di cuoio e sudore, terra e uomo. Un odore che avevo respirato in questo stesso
campo ed in una tenda militare in Mesia e nel buio rovente della mia camera da
letto. Gli zoccoli si fermarono dietro di me...
I miei
occhi si spalancarono e mi levai a sedere, ansimando, con il cuore che mi
batteva selvaggiamente in petto, l’odore di Massimo nelle narici e gli zoccoli
del suo cavallo che martellavano nella mia mente...
Ma non
erano zoccoli.
Qualcuno
stava bussando alla porta della mia camera da letto.
Qualcuno
lo stava facendo da un certo tempo.
Con i
capelli arruffati, sbattendo le palpebre e sentendomi disorientata, mi guardai
intorno. Che ora era? Primo mattino, ma più tardi dell’ora in cui mi svegliavo
di solito. Avevo dormito troppo.
Chiunque
stesse bussando alla porta lo fece di nuovo.
- Intra[1]!
- gridai prima di ricordarmi delle circostanze in cui ero andata a dormire
quella notte.
La porta si aprì e comparve la mia domestica
personale, tutta guance rosee e capelli grigi ordinatamente raccolti, i vestiti
che come sempre odoravano di sole, amido e verbena.
- Buon
giorno, domina. E che bella giornata! - Se Nicia fosse sorpresa di trovarmi nel
mio letto nuda e sola, non lo diede a vedere. Invece, la bassa donna paffuta
rimase sulla porta con una bracciata di vestiti appena stirati[2],
i miei sandali egizi che le penzolavano dalle dita richiuse e mi porse il suo
sorriso più gioviale, continuando a parlare. - Non hai lasciato istruzioni
riguardo l’ora in cui svegliarti, domina, ma Apollinario mi ha detto che ha
bisogno che gli firmi alcuni documenti prima di recarsi al porto. Inoltre, la
tua colazione è pronta. - Mentre parlava, Nicia evitava attentamente di
guardare al di sotto delle mie spalle. - Farai il bagno qui o devo scortarti
alla casa da bagno?
-
Q-qui... Qui andrà bene, Nicia... - dissi armeggiando con le lenzuola, non per
coprire la mia nudità, ma per nascondere la tunica da schiavo di Massimo dagli
occhi della donna greca, ben consapevole che pochissimo sfuggiva loro.
- Come
desideri, domina. Sarà pronto in un attimo. - Prima di andare nella stanza da
bagno, Nicia lasciò i miei vestiti su un divano e posò i sandali accanto ad
esso. Facendolo, notò la mia camicia da notte abbandonata e la raccolse dal
pavimento, dove l’avevo lasciata cadere la notte precedente. Senza una parola,
la posò con cura su una sedia vicina e soggiunse: - Apollinario mi ha detto
anche di informarti che il tuo ospite si è alzato e ti sta aspettando.
Mi
rivolse la schiena ed il suo tono era assolutamente pratico, come se avere il
gladiatore più famoso di Roma che divideva l’appartamento della sua padrona ed
il tavolo della colazione… se non il suo letto… fosse stata la cosa più
naturale del mondo.
Arrossii
intensamente.
Nicia
andò verso la stanza da bagno senza voltarsi.
Non
appena la porta si chiuse dietro di lei, saltai fuori del letto, ghermii la tunica di Massimo e la
piegai in fretta, quindi la misi nella cassapanca ai piedi del letto,
nascondendola sotto un mucchio di camicie da notte ed abiti ordinatamente
stirati. Ciò fatto, afferrai il primo abito della pigna… un bel capo di seta
verde scuro adornato da un ricamo dorato… legai la fusciacca e mi affrettai
verso l’arcata che conduceva alla terrazza.
Un
suono di voci, tutte maschili, mi fermò sui miei passi. Distinsi chiaramente
quella stentorea di Atenodoro. Due decadi prima era stato il soprintendente del
cantiere navale ed ancora parlava come se cercasse di farsi sentire al di sopra
del rumore incessante di martelli e seghe.
- ... è
il meglio che sono riuscito a trovare...
La voce
del mio sovrintendente svanì nella brezza, coperta da un acciottolio di piatti.
Si
trovavano sul lato opposto del terrazzo, vicino alla copertura di tende e agli
alberi in vaso, troppo lontani da me per poter osservarli senza uscire
all’aperto. E non potevo uscire prima di vestirmi. Scandalizzare il capo della
mia servitù aggirandomi con i capelli sciolti era una cosa, ma comparire anche
alla sua presenza a piedi nudi e vestita a malapena d’un abito di seta era
un’altra, ben diversa.
Mi
sforzai di capire che cosa stava succedendo.
-
...Domine... guarda...
Corrugai
la fronte. Domine?
Nessuno
aveva usato quella parola in casa mia dalla morte di Mario Servilio. Il mio ex
precettore era stato sempre "Apollinario", un modo rispettoso di
rivolgersi ad un uomo che non era servo ma neanche membro della famiglia.
Domine.
I miei
occhi si spalancarono con sospetto. Atenodoro si stava rivolgendo a Massimo?
Ero sul
punto di scostare da una parte i tendaggi, anche a rischio di essere scoperta,
quando Nicia parlò alla mia schiena.
- Il tuo bagno ti aspetta, domina.
Trasalii
alla sua voce, mi ricomposi rapidamente e mi voltai.
- Grazie, Nicia, - dissi e mi diressi a passo di carica verso la stanza da
bagno, con la determinazione di una nave romana da battaglia, riuscendo a
raggiungere il mio rifugio prima che la mia sconvolta domestica potesse reagire. Così,
quando si riprese abbastanza per dar voce alla frase d’obbligo: "Domina,
devo...?" io dissi "NO!" e le chiusi la porta in faccia.
Mario
Servilio non era stato il proprietario originale della villa, ma era a lui che
l’edificio doveva il suo sereno splendore e le rigorose comodità. I bagni negli
appartamenti del padrone e della padrona al secondo piano erano l’ultimo
tributo al genio costruttore romano. Erano spaziosi, ariosi, ben illuminati e
lussuosi, ognuno fornito di toletta, bacile per lavarsi e vasca da bagno.
Quando il clima era freddo, i pavimenti erano riscaldati grazie ad un sistema
di hypocaustum[3]
e tramite un qualche misterioso gioco di prestigio dell’ingegneria, acqua calda
sprizzava dai tubi celati sotto la testa feroce di un leone ruggente. Non era
né calda né abbondante come quella che si poteva godere nella casa da bagno al
primo piano, ma più che sufficiente per gestire decorosamente l’igiene personale
quando non ci sentivamo di attraversare la casa per un trattamento più
completo. Ero vagamente consapevole che avere acqua calda corrente in un
secondo piano non era né comune né semplice e tanto meno a buon mercato, perché
avevo udito a sufficienza commenti invidiosi durante i banchetti che mio marito
offriva, ma il mio interesse nell’ingegneria era in qualche modo limitato. Le
stanze da bagno erano l’orgoglio e la gioia di Nicassio, il soprintendente
della villa, un uomo dall’aspetto da passero con una vera passione per
qualsiasi cosa relativa a costruzioni o meccanica, come altri uomini la
riservano al collezionare sculture o all’accumulare denaro. Se qualcuno
riusciva a coinvolgere mio marito in una conversazione lunga ore che non riguardava
il commercio o le navi, quello era Nicassio. Mario Servilio capiva le navi come
alcuni uomini capiscono i cavalli, le preferiva agli edifici e spesso persino
alle persone. Ma capiva anche un uomo con una passione... Ed apparentemente una
donna, dato che aveva sposato me, che avevo una passione ben nota per la
lettura ed un’altra segreta, ma che non ero riuscita a celargli, per un uomo...
Lasciando
cadere la veste di seta, mi adagiai nell’acqua calda profumata di loto e, come
facevo sempre quando mi godevo le comodità della villa, benedii mentalmente
Nicassio. Se soltanto il suo sacchetto dei trucchi, così utile quando si
trattava di tubi, fontane e riscaldamento avesse contenuto qualcosa che avesse potuto
aiutarmi con il mio attuale compito. Perforare le difese militari del generale
Massimo Decimo Meridio doveva essere stato arduo in sé. Perforare le sue difese
personali correndo anche contro il calendario ed il suo stesso desiderio di
morte sembrava semplicemente impossibile. Tuttavia, mentre cominciavo a
strofinarmi, mi venne in mente all’improvviso che, se l’ingegneria non poteva
aiutarmi, forse l’agricoltura ed i cavalli avrebbero funzionato.
Subito
dopo emersi dalla stanza da bagno, lavata e ancora bagnata, mi asciugai in
fretta e più che impaziente andai a cercare Massimo. Nicia mi stava aspettando
con un assortimento di pettini e spazzole già disposti sul ripiano del mio
tavolino da toletta ed il suo sguardo di rimprovero mi disse che dopo avere
aperto un varco nell’etichetta tra padrona e serva ed averle impedito di
aiutarmi a fare il bagno, io non ero esattamente nelle sue buone grazie.
Riluttante,
ma bisognosa d’aiuto, con i capelli lunghi fino alla vita tutti arruffati, mi
sedetti e Nicia cominciò dapprima a toglierne i nodi, poi a pettinarli ed
infine a spazzolarli. Fra sonno e vapore del bagno, la mia chioma era un
disastro ed ella lavorava con feroce concentrazione e la precisione meticolosa
di un gioielliere. A mala pena riuscii ad impedirmi di battere il piede per
terra con impazienza.
- La
tunica che ho scelto per te va bene, domina?
Il mio
sguardo vacuo si riflesse nello specchio lucido e disse a Nicia che non avevo
la minima idea di che cosa stesse parlando.
- E’
sul divano, domina, - aggiunse lei e io mi volsi a guardarla. Non potei fare a
meno di corrugare la fronte. L’abito era fatto di uno dei tessuti più
straordinari che avessi mai visto, del cotone egiziano più fine, intessuto con
seta pura e tinto in una scura tonalità di verdazzurro molto simile a quella
delle piume del pavone. Era leggero e soffice, e non somigliava a nulla che
avessi visto o posseduto prima. L’avevo veduto tre anni prima al Mercato
Traiano durante una delle mie usuali passeggiate per botteghe e l’avevo
comprato d’impulso perché era semplicemente straordinario, ma soprattutto perché
il suo colore simile ad un gioiello mi ricordava gli occhi di Massimo. La mia
cucitrice era solita aggrondarsi quando le chiedevo abiti di cotone o lino
dicendo che, non importa quanto questi fossero eleganti e costosi, la seta era il tessuto per me. Ma era
rimasta stupefatta quando aveva visto il mio costoso tesoro ed aveva protestato
animatamente quando le avevo chiesto una tunica molto semplice, rifiutando
ripetutamente le sue proposte di qualcosa di più elaborato. Il risultato era
stato un capo insolitamente elegante, le cui pieghe si muovevano, turbinavano e
galleggiavano intorno a me, per ricadere con l’assoluta perfezione che si vede
soltanto nelle statue. Avevo fatto tingere dal mio calzolaio un certo cuoio
morbido nella stessa tonalità e fatto fare un paio di sandali assortiti.
Però
non avevo mai indossato né l’uno né gli altri, sostenendo che il colore era
troppo bizzarro per il lutto, ma in verità per la stessa ragione per la quale
avevo comprato il tessuto: ogni volta che lo guardavo, era come guardare negli
occhi di Massimo.
Nicia
mi si affaccendava attorno da troppo tempo per non sapere che non faceva nulla
solo per farlo. Era troppo greca. Le dardeggiai un’occhiata dura attraverso lo
specchio, tuttavia ella continuò placidamente a spazzolarmi i capelli, il viso
una maschera illeggibile.
- Va
benissimo, - dissi e, incapace di resistere oltre all’impulso, battei il piede
sotto il tavolo da toletta. La mia domestica ignorò deliberatamente la mia
impazienza. Io deliberatamente ignorai lei.
Ma
quando aprì una scatola smaltata per prendere qualche forcina e pettine
d’avorio e d’oro, la fermai.
- No, - scattai. - Lasciali sciolti. - Nicia alzò un sopracciglio. - E non mi
dire che non è appropriato.
- Con
il dovuto rispetto, domina, ciò che stavo per suggerire era che, per quanto
possano essere comodi e ovviamente belli, i capelli non legati non sono né
adeguati né
comodi per la spiaggia...
Socchiusi
gli occhi nello stesso modo in cui faceva Rubia quando sospettava un gioco
scorretto. Il volto di Nicia rimase insondabile.
- La
spiaggia? - chiesi. - Non ho intenzione di andare alla spiaggia.
- Oh.
Oltre
ad essere entrambi greci, Apollinario e Nicia avevano molte cose in comune. Per
esempio, il modo in cui la dicevano lunga usando i monosillabi.
Rifiutai
di abboccare.
Nicia
continuò a spazzolarmi i capelli, intenzionata a
restare sulle sue.
Io
restai sulle mie… inutilmente.
- Perché la spiaggia? - chiesi bruscamente.
- E’
una giornata bella e piena di sole...
- Ed ogni
volta che faccio un passo al sole, cominci a protestare su quanto sono
trascurata e quante lentiggini sto per procurarmi.
Nicia
strinse le labbra. Come Apollinario, poteva essere estremamente testarda.
Ma
almeno in quell’area, eravamo pari. Sollevai il mento e, senza batter ciglio, la guardai
dallo specchio.
-
Dovresti andare alla spiaggia, - disse con aria carica di significato.
-
Perché?
Nicia
sembrò perdere un po’ della sua compostezza.
-
Perché il tuo… il…
Le mie
sopracciglia si arcuarono verso l’alto e quasi di loro propria volontà. Nicia
non esitava mai. Come se mi avesse letto nella mente, la mia domestica
addivenne ad una decisione linguistica.
- Perché LUI sta facendo domande riguardo alla SPIAGGIA.
- CHE
COSA?
Nicia
non era l’unica a padroneggiare l’arte di parlare a lettere maiuscole.
La
donna greca mi offrì un sorriso raggiante. Mi sforzai di calmarmi, anche se il
battere del piede divenne più insistente e il mio cuore martellava
furiosamente.
- Come
lo sai?
- Ecco,
quando siamo venuti qui per cominciare a preparare tutto per la colazione,
abbiamo trovato LUI in terrazza che guardava il mare. Atenodoro ha chiesto a
LUI se desiderava o avesse bisogno di qualcosa, mentre LUI aspettava te per la
colazione, ma LUI ha detto di no, che LUI avrebbe aspettato te, e invece ha
cominciato a fare domande sul MARE e
Rimasi
a bocca aperta.
Massimo
era in terrazza. Era là quando Atenodoro e Nicia erano venuti al mio
appartamento per preparare la nostra prima colazione. Aveva chiesto loro del
mare e della spiaggia…
Vedendo
allo specchio il mio riflesso dall’aria sconvolta, chiusi la bocca e cercai invano
di ritrovare la voce. Arrossii ancora.
Furiosamente.
-
Dovresti andare alla spiaggia, - consigliò Nicia servizievole.
Mi
morsi il labbro inferiore.
- Stavo pensando di andare a cavallo fino alla fattoria, - dissi prima di
riuscire a fermarmi. Che cosa stavo facendo? Finché era stata la mia domestica,
avevo tenuto Nicia a distanza allo stesso modo di chiunque altro, a parte
Apollinario. I tentativi di lei di viziarmi opportunamente deviati e scoraggiati, avevamo sviluppato un
rapporto lineare basato su rispetto reciproco ed efficienza non invadente. Ed
ora stavo discutendo con lei su dove portare Massimo. Dovevo essere impazzita...
Alle
mie parole, Nicia roteò gli occhi.
Mi
morsi il labbro inferiore ancora più forte.
- Così, tu pensi che dovrei andare alla spiaggia? - chiesi debolmente.
Il
sorriso feroce della mia domestica suggeriva quanto fosse insensato sfidare la
saggezza di una donna che aveva tirato su sei figli maschi fino ad età da
matrimonio e trattato con successo con un marito per più di trent’anni.
Probabilmente
aveva ragione.
Più
probabilmente che no.
- Va bene, - dissi. - Ma non voglio i capelli raccolti!
Il
sorriso nello specchio lucido passò dalla ferocia all’assoluta delizia.
- Lascia tutto a me, domina, - disse allegramente. - Non devi far altro che
andare a firmare i documenti e goderti la gustosa colazione che Atenodoro ha
preparato per te! Mi prenderò io cura di tutto!
Mentre
parlava, Nicia mi picchiettò la spalla, quindi riprese a spazzolarmi i capelli.
I miei occhi si spalancarono per la sorpresa per la seconda volta in pochi
minuti. Era la mia domestica personale da oltre cinque anni e i suoi doveri la portavano
a toccarmi molte volte al giorno mentre mi spazzolava i capelli o mi aiutava a
fare il bagno o a vestirmi. Ma il suo tocco era sempre stato quello di una
domestica personale, senza alcuna traccia di familiarità. Picchiettarmi la
spalla era stato un gesto che implicava calore e affetto e complicità
femminile. Era stato stranamente sorprendente. Leggermente snervante. E
inaspettatamente benvenuto.
Fu con
una certa trepidazione che infine andai in terrazza, le osservazioni di Nicia
su Massimo non esattamente ideali per la mia pace mentale, dopo esser stata testimone
del di lui disagio quale riluttante oggetto di attenzione da parte dei miei
famigli.
La
prima cosa che notai fu Atenodoro che si affaccendava intorno al tavolo della
prima colazione. Poi notai il tavolo della prima colazione. Gemeva sotto il
peso di piatti sufficienti ad alimentare un generale romano ed il suo intero
stato maggiore dopo una marcia forzata in armatura completa, la mia solita
colazione a base di frutta e cereali cotti integrata da un ampio assortimento
di pani, carni fredde, formaggi, torte di frutta, burro, conserve, miele, panna
e latte. E, al centro dell’esposizione, un vaso di vetro colorato con due rose.
Due
rose color rosso sangue.
Due rose
color rosso sangue intrecciate.
Girai
sui talloni ma, prima di riuscire a scoccare un’occhiataccia al mio
amministratore, Apollinario mi scoprì.
- Giulia! Eccoti qui! - Il mio ex precettore, in piedi vicino alla balaustra di
marmo, imbracciava una pigna di papiri e apparentemente stava cercando di
coinvolgere Massimo in una qualche sorta di conversazione. A giudicare dalla tensione
nella postura di Massimo e dalla sua mascella serrata, chiaramente non stava
avendo successo. Alle parole di Apollinario, Massimo si voltò e il suo volto si
illuminò. Prima che egli riuscisse a padroneggiare i suoi lineamenti, vi intravvidi
contentezza ed aperta ammirazione, ma anche sollievo. Immediatamente si allontanò
dalla balaustra di marmo e fece due o tre passi verso di me, poi si fermò con
fare esitante. Era evidente che lo aveva fatto non soltanto per avvicinarsi a
me, ma anche per mettere una certa distanza fra lui ed Apollinario.
Sospirai.
Non importa quanto temessi di sapere che cosa fosse accaduto fra loro la notte
dell’arrivo di Massimo o quanto poco propensa mi sentissi a scoprire la verità,
era chiaro che avrei dovuto fare qualcosa al riguardo. E avrei dovuto farlo
presto. Fra le molte cose che erano andate male nel mio piano di salvare
Massimo, quello era l’argomento più rilevante.
- E
guardati! - continuò Apollinario. - Sei semplicemente mozzafiato con quel
colore, mia cara!
Massimo
arcuò le sopracciglia all’uso delle parole "mia cara" da parte di
Apollinario, ma qualunque commento avessi potuto suggerire mi morì in gola nell’attimo
in cui lo guardai. Aveva sostituito la tunica color sabbia a favore di quella leggera
di lana bianca. La nuova tunica gli stava alla perfezione ed il suo colore lo faceva
sembrare assurdamente giovane ed ancor più attraente di quanto già fosse. Il
tessuto gli aderiva ai muscoli scolpiti del torace, mettendoli ancor più in mostra
invece di coprirli, come si suppone debbano fare i vestiti. Sapevo di essere incantevole
nella mia tunica verdazzurra. Ma se qualcuno sulla terrazza era "mozzafiato",
quello era Massimo. La mia aperta ammirazione doveva essersi rivelata sul mio
viso perché Massimo sbatté rapidamente la palpebre ed arrossì leggermente sotto
l’abbronzatura. Apollinario era trionfante.
-
Vieni! Vieni, mia cara! Ho bisogno che firmi questi documenti in modo che possa
andare al porto e lasciare te ed il generale a godervi la vostra prima
colazione! - disse indicando sia a Massimo che a me la tavola apparecchiata
sotto la tenda da sole.
Il mio
sguardo sfrecciò da lui alla tavola, a Massimo.
- Buongiorno, - gli proposi e la mia voce suonò rauca anche alle mie stesse
orecchie. Egli si rilassò visibilmente e mi offrì un sorriso timido.
- Buongiorno,
- bisbigliò e mi fece cenno verso la tavola.
Ci
sedemmo sulle sedie, Apollinario invece prese uno sgabello e mi passò le
lettere da firmare, mentre Atenodoro si muoveva intorno a noi emettendo suoni
borbottanti, molto simili a quelli di una gallina meditabonda alla cova. Per la seconda volta in pochi minuti, gli scoccai un’occhiataccia,
ma lui non stava guardando nella mia direzione. Invece
stava versando qualcosa nel calice di Massimo. Lui
guardò il liquido con aria dubbiosa.
- Acqua
e miele con succo di limone, domine, - tuonò il mio sovrintendente con fare servizievole. Massimo bofonchiò qualcosa che io non riuscii a capire, ma a
giudicare dal sorriso raggiante di Atenodoro, doveva essere un complimento.
Seppellii
il naso nei documenti, pronta a fare la mia parte e spedir via Apollinario il
più presto possibile.
Poi mi
sarei occupata di Atenodoro...
- C’è
qualcosa che dovrei sapere? - chiesi ad Apollinario mentre brevemente scorrevo
le lettere prima di firmarle.
-
Null’altro che il solito.
Massimo
annuì insondabile. Io affrettai lo scorrere delle lettere e il firmarle.
Apollinario continuò vivacemente.
- Emilio Trebuzio Flacco manda i suoi saluti e chiede se prenderesti in considerazione
l’idea di accordare un passaggio a suo nipote Calpurnio Flacco, sulla Focena. - Deciso a coinvolgere Massimo
nella già inesistente conversazione, il mio ex precettore si rivolse di nuovo a lui. - Le navi di Giulia di solito non
portano passeggeri, perché fondamentalmente sono da carico. Ma Emilio Trebuzio
Flacco è uno dei suoi banchieri, - spiegò. - La Focena è diretta ad Alessandria e il giovane Calpurnio Flacco è
ansioso di arrivare in tempo per il matrimonio di suo fratello…
Questa
volta Massimo si
limitò a grugnire.
- Di’
ad Emilio Trebuzio Flacco che suo nipote è il benvenuto a bordo della Focena a condizione che riesca a non disturbare e a tenersi lontano
dall’equipaggio, - dissi senza alzare lo sguardo dalla lettera che stavo
controllando. - E digli di assicurarsi di scoraggiare Calpurnio Flacco da
qualsiasi idea di ringraziarmi personalmente...
C’era
uno spigolo nella
mia voce ed io sentii, più che vedere, Massimo divenire vigile. Sorrisi
interiormente. Calpurnio Flacco era stato uno dei miei indesiderati
pretendenti. Suo fratello maggiore, Cecilio Flacco, era sposato a quel tempo,
ma la cosa non gli aveva impedito di rivaleggiare con il giovane Calpurnio: si
era offerto di divorziare dalla sua seconda moglie se io l’avessi preso come
marito. Dopo il mio colorito rifiuto, i suoi debiti di gioco l’avevano spedito
ad Alessandria in una sorta di malcelato esilio. Ora stava per sposarsi per la
terza volta ed io paventavo di chiedere cosa fosse accaduto alla sua seconda
moglie. Interiormente, compatii la sfortunata ragazza ricca che era stata gravata
non di uno solo degli inutili nipoti del banchiere, ma di due: la sua dote avrebbe pagato
i loro debiti di gioco congiunti perché, nonostante le apparenze e ovvie debolezze, i Flacci non
mancavano del tutto di fraterna lealtà.
-
Andrai in città dopo aver finito al porto? - chiesi mentre riconsegnavo ad
Apollinario un’altra lettera firmata.
-
Pensavo di far visita al mio libraio. Hai bisogno che ti svolga qualche
commissione?
- Sì.
Troverai una lettera sulla mia scrivania. E’ già firmata e sigillata. Sii così
gentile da consegnarla al tempio di Iside. - La mia regolare corrispondenza con
Merith era l’unico carteggio personale in cui indulgevo, e i misteriosi collegamenti
col tempio della dea egizia più volte si erano provati più efficaci del servizio
postale e delle mie stesse navi messi insieme.
- C’è
altro? - chiesi esaminando l’ultima lettera.
- Hai
preso una decisione riguardo a Bauli[4]?
Prima che
potessi rispondere, Apollinario si rivolse a Massimo.
- Giulia ha una seconda villa a Bauli, - spiegò. - Non è bella o grande come
questa, ma più rustica e agreste. Era di suo marito, ma lei non ci va mai.
Adesso c’è qualcuno interessato a prenderla in affitto...
- Non è
da affittare, - dissi io in tono che non ammetteva repliche.
-
Dovresti riconsiderare la tua decisione, - insistette Apollinario. - Non ci vai
mai. In tutti questi anni sei stata a Bauli soltanto una volta e per due
settimane.
Apollinario
aveva ragione. Bella com’era, Bauli non mi attraeva; la quiete della mia
seconda villa e dei suoi dintorni mi turbavano.
- Ci
sto perdendo denaro? - chiesi. - Non mi pareva, dopo aver letto il rapporto...
- Mm...
no. Fondamentalmente, no. La villa si sostiene da sola e produce perfino denaro
extra per finanziare le necessarie riparazioni...
- Come
supponevo.
- Ma
tenerla vuota anno dopo anno non ha senso. Perché non affittarla?
-
Perché è mia e io non affitto mai qualcosa che è mio.
Ecco. Avevo
una marcata avversione nell’affittare qualcosa di mia proprietà, nel permettere
ad altri di usare qualcosa che era mio anche se non ne facevo uso. Mi ricordava
troppo la prostituzione.
-
Allora, se non la vuoi affittare, vendila.
- Non
sono ancora pronta a venderla, - dissi in tono definitivo e cambiai argomento
prima che Apollinario avesse il tempo di continuare a insistere. - Avevi
ragione su questo giovane, Brenno. Il suo rapporto su Bauli non solo è completo,
ma anche acuto. Voglio che faccia il rapporto su Melita[5].
Apollinario
annuì e prima che potessi impedirglielo, si rivolse ancora una volta a Massimo.
- Giulia ha una terza villa ed è nell’isola di Melita. Lei non l’ha mai vista e
neanch’io. La ottenne in pagamento da un cliente che aveva avuto un rovescio
finanziario...
Sollevai
le sopracciglia all’eufemismo di Apollinario. Il mio cliente aveva avuto un
rovescio finanziario, sì. Ma la sua cattiva fortuna aveva avuto un nome ed
anche un serto di lauro d’oro sulla giovane testa: Commodo.
Come
molti altri della sua classe sociale, il senatore Capito aveva condotto i suoi
affari con l’intermediazione di un abile liberto che aveva usato la mia flotta
per trasportare i suoi carichi, principalmente buon olio d’oliva del suo
appezzamento di terreno in Betica[6]
e vino dei suoi vigneti in Gallia. Era stato un uomo rispettabile per i criteri
senatoriali, ma aveva commesso l’errore di non riuscire a notare che la marea
era cambiata con l’arrivo del nuovo imperatore. Aveva fatto un discorso nell’aula
del Senato contro la decisione di Commodo di abbandonare le conquiste di suo
padre - che in realtà erano le conquiste di Massimo - in Germania. Il giovane
imperatore aveva sostenuto la propria decisione argomentando che troppo denaro
era stato speso in operazioni militari al confine settentrionale, senza aver realizzato
nulla di concreto. Ma il senatore aveva attaccato il suo discorso dicendo che
troppo denaro stava per essere speso per i giochi per realizzare ancor meno.
Una settimana dopo gli schiavi della sua casa erano morti per una qualche
misteriosa indisposizione che aveva preso anche la sorella più giovane, vedova, del
senatore. Poco tempo dopo, i suoi magazzini romani erano bruciati fino alle fondamenta, seguiti dalla
sua villa di campagna. Meno d’un mese dopo il suo discorso, nel mezzo della
notte, guardie pretoriane dai neri mantelli avevano bussato rumorosamente alle
porte della sua casa di città per arrestarlo con l’accusa di tradimento. Ma il
senatore non si trovava là e nemmeno il suo liberto e sua moglie.
Emilio
Trebuzio Flacco era venuto alla mia villa non annunciato, una cosa estremamente
insolita, perché il banchiere lasciava Roma solamente per trascorrere l’estate
alla sua villa di Neapolis[7].
Ci eravamo scambiati le cortesie d’uso e poi lui mi aveva teso in silenzio il documento che teneva
celato tra le pieghe del vestito. Era l’atto che trasferiva a me la villa di
Melita del senatore Capito. Era datato due mesi prima del famoso discorso ed
Emilio Trebuzio Flacco era uno dei testimoni firmatari. Quando sollevai lo
sguardo da esso, il banchiere scrollò le spalle e suggerì che gli sarebbe
piaciuto dare un’occhiata ai miei giardini che, aveva sentito dire, erano
"i più belli di Ostia".
Avevamo
camminato in silenzio per qualche tempo, fermandoci qua e là per ammirare una
statua o il colore di una rosa. Poi, Emilio Trebuzio Flacco si voltò verso di
me.
- Conosco il senatore Capito da molti anni, domina. Un uomo rispettabile ma,
sfortunatamente, il nuovo imperatore non è riuscito ad apprezzarlo, - disse, con
un tono austero in cui era assente la sua solita cattiveria. - Egli ha deciso
di correre il rischio di lasciare Roma prima che venissero a prenderlo, ma prima di andarsene ha
voluto onorare i suoi debiti nei tuoi confronti. Noi abbiamo dovuto...
manipolare certi dettagli per impedire all’imperatore di contestare un giorno la
transazione ed impadronirsi della proprietà. Capito mi ha chiesto di dirti che
gli dispiaceva doverti opprimere con la vecchia villa, ma era il suo unico bene
abbastanza lontano da Roma da essere in qualche modo difficile da sequestrare..
Il robusto
banchiere si fermò un momento e guardò verso gli alberi. Poi riprese a parlare.
- In altre circostanze, ti consiglierei di venderla, domina. Ma considerando la
presente situazione, non sarebbe una cattiva idea tenere una proprietà fuori
dell’Italia...
Io rabbrividii
nonostante il caldo sole primaverile. C’era un tono di malaugurio nella voce di Emilio
Trebuzio Flacco.
- Vuoi
dire... ci possono essere... problemi?
-
Domina, tu sei una donna intelligente perciò sarò schietto, - disse ed io non potei fare a meno di
pensare che c’era una punta di sollievo nel suo tono. Come se il banchiere fosse stato
grato dell’opportunità di condividere qualcosa che gli stava rodendo le viscere
da qualche tempo. - Io ammiravo il defunto imperatore. Qualsiasi uomo d’affari
ammira un governante che porta stabilità al suo paese. Ma temo che sia finita.
Marco Aurelio era un grande governante, ma fu costretto a combattere molte
guerre e le guerre costano all’impero molto denaro. La tesoreria di stato è vuota.
Oh, è vuota da anni. Ma Marco Aurelio
era abile e sapeva come tenere a galla lo stato. Temo che suo figlio non sia
altrettanto abile. E quel che è peggio, non è interessato...
Emilio
Trebuzio Flacco fece una pausa. Dopo che da sei anni avevo regolarmente a che
fare con lui anche socialmente, ero abituata al suo modo di discorrere e alle
pause di sospensione che usava per aggiungere peso alle sue rivelazioni. Ma
questa volta era diverso. Non aveva bisogno di aggiungere effetto alle sue
parole perché stava parlando di questioni molto serie.
- E’
interessato solamente ad intrattenere la folla… e se stesso. Devo ammettere che
Marco Aurelio mi ha deluso nella scelta del suo erede. Commodo è il suo unico
figlio in vita ma... - il banchiere fece un gesto di impotenza cercando le
parole, poi sospirò e proseguì. - Roma ha bisogno di un uomo austero, forte,
morale, che possa trattare con l’esercito ed il Senato ed impedire la disintegrazione
dell’impero. Abbiamo bisogno di un altro Vespasiano. Un altro Traiano. Ma siamo
stati gravati d’un giovincello imprudente che pensa che essere imperatore voglia
dire indossare costumi fantasiosi e presiedere ai giochi...
- Ho
sentito dire che sua sorella è una donna assennata e che ha anche una certa
influenza su di lui... - suggerii cautamente, incerta ancora su dove Emilio Trebuzio Flacco voleva
andare a parare, su quale fosse il suo ruolo nella partenza del senatore Capito
e nella mia improvvisa proprietà della villa nella lontana isola di Melita.
Al
nominare la sorella imperiale, il viso cupo del banchiere in qualche modo si
illuminò.
- Ho avuto l’onore di incontrare l’Augusta Lucilla e non solo ella è una donna assennata,
ma anche una statista nata. Se fosse stata un uomo, sarebbe stata un Cesare
straordinario, - disse. - Ma è nata donna, per cui... Inoltre, l’Augusta
Lucilla ha qualche altro più urgente... problema personale che può avere la
precedenza sui suoi tentativi di guidare il fratello nelle questioni di
politica romana...
Le mie
sopracciglia si arcuarono in un’espressione confusa. Emilio Trebuzio Flacco
sospirò ed abbassò la voce ancora di più.
- Domina, non trovi strano che il giovane imperatore non sia sposato né abbia in
progetto di sposarsi? O che essendo ora lui il capofamiglia non abbia fatto
alcun passo per assicurarsi la fedeltà di qualche potente famiglia senatoriale
facendo sposare la sorella vedova? - bisbigliò con urgenza e nelle sue parole
non v’era traccia della sua solita predilezione per il pettegolezzo. - Per un
governante in una situazione precaria come quella di Commodo, una sorella come
l’Augusta Lucilla, bella, ricca di suo e che si è dimostrata fertile, è un bene
inestimabile. Tuttavia, egli si rifiuta di usare il potenziale di lei...
Io
rabbrividii di nuovo alle implicazioni delle parole del banchiere. Avevo udito
quelle voci, naturalmente. Esse sono come la peste: non puoi evitarle
semplicemente chiudendoti in casa tua. Io avevo sentito le voci ed ero anche
venuta a sapere dello scandalo dell’ingresso dell’imperatore a Roma, con la sorella
maggiore che divideva spensieratamente il carro di lui e gli onori della sua
ascesa al trono quando avrebbe dovuto essere in lutto per il padre. Ma le voci
avevano circondato Commodo da quando era nella culla. O, più propriamente, le
voci erano cominciate quando lui era nella culla perché si diceva con
insistenza che non lo avesse generato Marco Aurelio, ma uno dei gladiatori che
usavano intrattenere assiduamente l’imperatrice nelle celle del Colosseo. Mentre
lui cresceva, c’erano state chiacchiere sul suo carattere astioso, la sua
intelligenza limitata,
la sua crudeltà indifferente e sul disgusto malcelato di suo padre per tutto
questo. Poi, improvvisamente, Commodo era tornato dalla Germania da imperatore,
in parata come un conquistatore proprio prima di rinunciare alle conquiste
romane...
- Se la
tesoreria statale è svuotata, - chiesi articolando attentamente ogni parola, -
come fa l’imperatore a finanziare i suoi giochi?
Emilio
Trebuzio Flacco sorrise debolmente.
- Come ho detto, sei una donna intelligente, domina. La procedura usuale
sarebbe di elevare le tasse, ma il giovane Commodo è troppo preoccupato di
compiacere la folla per prendere tale... misura impopolare. Così tiene di mira
il Senato e ogni critica minore viene trattata come un tradimento e le fortune
del senatore o del cavaliere in disgrazia vengono confiscate. Come hai già
notato, il nuovo imperatore non prende le critiche alla leggera...
Un
giardiniere ci superò, gli attrezzi ordinatamente disposti in cima all’erba
tagliata che riempiva il carretto trainato da un asino. L’uomo si tolse il
cappello di paglia e rispettosamente si inchinò verso di noi prima di
proseguire il suo cammino. Il banchiere aspettò che si fosse allontanato prima
di continuare a parlare.
- Ma
questo non è abbastanza. Davvero, non abbastanza. La svalutazione della moneta
romana non è bastata, così egli ha cominciato a vendere le riserve statali di
grano...
Io sussultai.
Le riserve statali di grano erano usate per alimentare i poveri quando i tempi si
facevano duri per Roma. Più di cento anni erano passati ed i genitori romani
ancora spaventavano i loro bambini con storie orrende dei tempi in cui il pazzo
imperatore Caligola aveva legato con catene i granai pubblici ed affamato il
popolo solo perché egli era scontento della mancanza di entusiasmo ai giochi
che aveva progettato.
Ed ora
Commodo stava vendendo le riserve statali di grano per pagare i suoi.
- Spero
che quegli sporchi bastardi si stiano godendo i loro giochi, perché pagheranno
per essi con le loro vite e con quelle dei loro bambini, - proruppe Emilio
Trebuzio Flacco ed io trasalii alla sua insolita
manifestazione di emozioni. Il banchiere si
moderò ed aggiunse: - Quindi, domina, il mio consiglio è che tu tenga la villa.
Agisci come se l’avessi comprata e manda laggiù il tuo uomo, Apollinario, o
qualcun altro, a darvi un’occhiata e a sorvegliare i custodi. Forse dovresti
andarvi tu stessa... Melita è un bel luogo. Ti piaceranno le rose. La villa è
vecchia, ma piacevole e confortevole. A tempo debito, se deciderai di non
volerla tenere, io sarò onorato di comprarla da te. Ti farò il miglior prezzo.
E’ il minimo che io possa fare per Capito. Era un bravuomo...
- Era?
Il
banchiere sorrise addolorato.
- Gli imperatori possono essere inefficienti, domina, ma i comandanti
pretoriani non lo sono mai. E Commodo se n’è preso uno particolarmente
efficiente, l’ex legato del miglior esercito romano. Le possibilità di Capito erano
bassissime...
Il
tossire discreto di Apollinario mi restituì alla realtà. Il mio ex precettore
mi guardò con divertiti occhi nocciola. Io aggrottai la fronte.
- Cosa?
- Ho
detto che sto per andare al porto, Giulia.
- Oh,
sì. Vai. Vai. - Lo congedai con un gesto ed egli ridacchiò sfacciato, si alzò e
s’inchinò leggermente. - Giulia. Generale, - disse, poi girò sui talloni e andò
verso l’arcata, evitando appena di urtare Nicia che entrava in terrazza in quel
preciso momento, portando un cestino coperto da un tovagliolo. La mia domestica
personale compì una piroetta notevolmente agile
per una donna della sua età e floridezza e
riuscì a salvare il cesto, che portò a tavola dopo avere scambiato col mio ex
precettore una miriade di scuse e cordialità in greco vernacolare. Erano sempre stati amici e, più d’una
volta, in combutta. Qualcosa mi diceva che questo era uno di quei casi.
- Il
cuoco ti manda questo, domina, - disse Nicia spostando le ciotole e i piatti
sulla tavola ingombra per fare spazio a quella nuova aggiunta alla già
abbondante colazione. Qualcosa nel paniere mandava un profumo delizioso. Nicia tolse
il tovagliolo scoprendo una dozzina di biscotti appena sfornati. Io aggrottai
di nuovo la fronte. Anche se non amo troppo i
dolci, conoscevo molto bene quei biscotti.
Erano fatti con pinoli, uvette e miele e il mio cuoco li preparava solo in
occasioni speciali, come i Saturnalia,[8]
quando io distribuivo a tutti i bambini della villa un cestino come quello di
fronte a me.
Sospirai
profondamente, costringendomi vanamente a rilassarmi, poi tamburellai le dita
sul ginocchio. Un dolore sordo mi si stava insinuando dietro la testa. Mi
rifiutai di prestarvi attenzione. Nicia si accorse della mia malcelata irritazione
e discretamente allontanò suo marito dalla tavola e, misericordiosamente, anche
dalla terrazza, riuscendo nel frattempo a farmi un cenno significativo con il
capo.
Il mal
di testa aumentò, rendendo impossibile ignorarlo.
Chiusi
gli occhi, mi strinsi tra pollice ed indice la
radice del naso e in silenzio contai a rovescio a partire da dieci, in greco.
Quando
aprii gli occhi, vidi che Phoenion si era materializzato come dal nulla ed ora
si era appollaiato sullo sgabello che Apollinario aveva occupato, guardando la
tavola con dorati occhi pieni di speranza.
- Non
ci pensare nemmeno, - lo avvisai ed i baffi del gatto abissino si mossero con
così sottile disdegno che non c’era alcun possibile dubbio riguardo ciò che
Phoenion pensava di guastafeste come me.
Tenuto
sotto controllo il gatto per il momento, mi voltai verso Massimo e scoprii che
mi guardava con sopracciglia corrugate.
- Che
c’è? - chiesi un poco più aspra di quanto intendessi.
- Saresti
stata un questore militare sorprendente, Giulia, - disse, il suo tono un misto
di divertimento e aperta ammirazione.
Ero stupefatta.
Vanamente cercai di rispondere, poi scoppiai a ridere.
Riuscivo
ad udire il sollievo nelle mie stesse risa, ma anche una punta di isteria.
Massimo
mi offrì un sorriso molto simile a quello del bambino dagli occhi verdi del mio
sogno, poi prese un biscotto e lo addentò. Il suo volto riflesse un’immediata
espressione di sorpresa e piacere, ed il suo sorriso si allargò.
Per un
breve, fugace momento non sembrò più vecchio di quel ragazzino al ruscello.
Presi
un biscotto e cominciai a masticare con gusto.
[1] In latino: “Avanti” (N.d.A.).
[2] Per stirare, i Romani utilizzavano piastre di bronzo con lunghi manici che venivano riscaldate e poi passate su toghe e tuniche. Esistevano anche le lavanderie, botteghe in cui i romani portavano i vestiti a lavare e stirare, e dove veniva praticata la stiratura a freddo o “lisciatura” (N.d.T.).
[3] In latino: “scaldato da sotto”. Un sistema di canali scavati in muri e pavimenti e connessi ad una fornace, che permetteva di riscaldare le stanze nei bagni pubblici e nelle case dei ricchi, facendo circolare l’aria calda. La stessa rete di canali permetteva l’espulsione dei gas tossici tramite aperture nei muri esterni e nei tetti. Era molto costoso, così persino nel palazzo imperiale soltanto alcune stanze avevano questo tipo di riscaldamento mentre nelle altre si usavano i bracieri (N.d.A.).
[4] Bacoli (NA). Secondo la tradizione il nome deriva dal greco Boualia o Bualia (stalla), in riferimento alle stalle create da Ercole per i buoi portati dalla Spagna. (N.d.T.).
[5] L’isola di Malta (N.d.A.).
[6] Hispania Baetica: fu una delle province
romane in cui venne suddiviso il territorio della penisola iberica (Hispania) a partire dalla riforma
augustea del
[7] Napoli (N.d.T.)
[8] Saturnalia: Festa romana in onore del dio Saturno. Cominciava il 17 dicembre e durava una settimana, durante la quale i romani si incontravano con i loro parenti per banchettare, celebrare e scambiare doni allo stesso modo in cui noi facciamo oggi a Natale e Capodanno (N.d.A.).