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Cinque
giorni dopo, l’imperatore giunse in Moesia. Le trombe che annunciavano l’avvicinarsi
della processione imperiale colse di sorpresa Massimo ed egli ebbe a malapena
il tempo di organizzare sia la legione che i suoi stessi uomini per salutare
Cesare in modo adeguato, prima che le aquile dorate e gli stendardi porpora
comparissero ai cancelli. Poco dopo, il Divino Imperatore Cesare Marco Aurelio
Antonino Augusto entrò nell’accampamento, scese da cavallo e andò direttamente
da Massimo, che si inginocchiò in segno di rispetto. Ma l’imperatore lo tirò in piedi
e lo chiuse in uno stretto abbraccio davanti a quindicimila soldati acclamanti.
Dalla mia posizione, nascosta dietro il lembo della tenda di Marcello, vidi i
due uomini parlarsi a voce bassa. Quindi, l’imperatore fece un passo indietro e
afferrò la mano di Massimo, sollevandola in alto nell’aria a dimostrazione del
suo consenso. Le ovazioni furono assordanti. Alla magnifica vista del
generale al quale venivano resi gli onori sia dal suo imperatore che dal suo
esercito, il mio cuore si gonfiò dolorosamente.
Era
la prima volta che vedevo Massimo da quando mi ero svegliata dal mio vivido
sogno scoprendo che lui se n’era andato. Nei successivi cinque giorni né egli
era venuto alla tenda né io l’avevo lasciata, sebbene mandasse Gallieno, che
stava operando come suo legato, almeno due volte al giorno ad informarsi sulla
mia salute o a chiedere se avevo bisogno di qualcosa. Mandò anche Rufa a
tenermi compagnia e a prendersi cura delle mie necessità, mentre io rimanevo
nell’isolamento che impediva alla nostra sciarada di essere scoperta prima che
l’imperatore giungesse con i rinforzi. Trascorrevo la maggior parte del tempo
sdraiata sul divano, lo sguardo fisso sulla parete di canapa, una parete il cui
vuoto rispecchiava perfettamente il mio. Su mio ordine e nonostante la calura
estiva, il lembo della tenda rimaneva chiuso per tutto il giorno, bandendo la
luce. Di sera, Rufa accendeva parecchie lampade ad olio, ma la loro luce non
era sufficiente a disperdere una tetraggine che non aveva
nulla a che fare con le ombre e l’oscurità e tutto a che vedere con il tormento
e la disperazione. Il cibo che lei mi portava rimaneva intoccato sul tavolino
vicino al divano. Lo stesso accadeva alle tuniche che sciorinava per me sulle
sedie. Rufa rimaneva seduta nelle ombre per ore, gli occhi rotondi fissi su di
me e di quando in quando, senza che le fosse ordinato, prendeva una spazzola e
pazientemente districava i miei capelli lunghi fino alla vita. Mi portava anche
l’acqua calda profumata e mi aiutava a lavarmi. In altre circostanze mi sarei
commossa per la sua infantile manifestazione di preoccupazione per una donna
che non era meno serva di lei, ma la
mia mente ed il mio cuore erano così annichiliti dal dolore, che
non vi era rimasto spazio per nient’altro che la mia stessa angoscia ed io mi limitavo
a lasciarla fare mentre inconsapevolmente seguivo i suoi movimenti.
Durante
il giorno scivolavo dentro e fuori dal sonno, svegliandomi solo per essere
ancora una volta dolorosamente consapevole che Massimo non c’era, che Massimo
non sarebbe venuto. Era curioso che, sebbene avessi vissuto per più di un anno
in un accampamento di legionari, non mi fossi mai resa conto di che luogo
movimentato e rumoroso fosse. Ma in quei cinque giorni, sdraiata sul divano,
guardando la parete di canapa, scivolando dentro e fuori dal sonno, mi
accorgevo del trascorrere del tempo solo attraverso i rumori. Malgrado il buio,
riuscivo a distinguere la metà mattina dal mezzogiorno ed il primo pomeriggio
dal crepuscolo semplicemente ascoltando le voci dei soldati, l’acciottolio dei
piatti o il nitrire dei cavalli.
Dopo
il pasto della sera, l’accampamento diveniva sempre più silenzioso, finché il
silenzio lo avvolgeva completamente e gli unici suoni erano quelli degli
insetti, il fruscio del vento e i passi pesanti delle guardie di turno. Era in
quei momenti, quando ombre e silenzio ammantavano l’accampamento, che mi alzavo
dal divano e andavo all’entrata della tenda, aprivo il lembo e guardavo fuori,
attraverso il pretorio, fino alla tenda di Massimo, dove notte dopo notte le
lanterne rimanevano accese fino a tardi. Rimanevo là per ore, osservando
intenta la sua tenda e talvolta la mia veglia veniva ricompensata da
un’apparizione fugace dell’ombra di lui. Mi chiedevo che cosa stesse facendo,
che cosa stesse pensando, che cosa lo tenesse sveglio tanto tardi nella notte…
Morivo dalla voglia di attraversare il pretorio, di andare da lui, di prenderlo
tra le mie braccia e offrirgli qualunque tipo di conforto potessi dargli.
Tuttavia non mi muovevo perché sapevo che mi avrebbe respinta e che io non
avrei voluto… né potuto… sopravvivere al suo rifiuto un’altra volta. E sapevo
anche che se avessi avuto successo nell’eccitarlo tanto da fargli perdere il
suo ferreo controllo e prendermi, l’avrei perduto per sempre perché dopo la
passione avrebbe finito con l’odiare sia me che se stesso. Per questo rimanevo
radicata al mio posto e quando le luci si spegnevano nella sua tenda, io
silenziosamente tornavo al divano per un’altra solitaria notte insonne.
L’entusiasmo
creato dall’arrivo dell’imperatore tenne sveglio l’accampamento più a lungo del
solito. Stranamente, il pretorio, dove Marco Aurelio e Massimo alloggiavano,
rimase un luogo tranquillo, perché i due uomini non avevano celebrato il loro
successo per aver impedito a Cassio di usurpare il trono, ma avevano avuto
un incontro privato, sicuramente per
discutere affari di stato. Poco dopo l’arrivo di Marco Aurelio, avevo visto lui
e Massimo camminare insieme e parlare, la mano dell’alto, magro imperatore dai
capelli lunghi sul braccio del giovane, robusto, un poco più basso generale e
io ero commossa dall’intimità della scena. Perché nel vederli insieme era
chiaro che erano più che un imperatore e il suo leale, fidato comandante: i
capricci del fato avevano reso più padre e figlio un patrizio romano divenuto
imperatore ed un contadino ispanico divenuto generale, che qualunque uomo ed il suo vero genitore.
Io
spiai a lungo la tenda dell’imperatore mentre il colloquio di Massimo con
l’imperatore continuò per ore. Era tardi quando finalmente vidi Massimo uscirne
ed entrare nella sua. I suoi passi erano più energici di quanto erano stati da
quando era venuto a cercar rifugio nei quartieri degli schiavi, come se un
grande peso gli fosse stato tolto dalle ampie spalle. Quella notte, le lanterne
nella sua tenda si spensero subito dopo che vi entrò e il pretorio cadde
nell’oscurità.
Sentendomi
irrequieta, invece di tornare al divano camminai avanti e indietro nella tenda
di Marcello. L’imperatore era arrivato, il pericolo era finito e, secondo
Massimo, Marco Aurelio avrebbe liberato me e le altre donne. Il giorno si
avvicinava promettendo notizie e pericoli. Marco Aurelio ci avrebbe
davvero liberate? Completata la sua missione, che cosa avrebbe fatto Massimo?
Sarebbe tornato alla sua legione, ovunque essa fosse? Sarebbe rimasto in Moesia
con l’imperatore? Che ne sarebbe stato di me?
Le
mie riflessioni furono interrotte dall’entrata poco cerimoniosa di
due pretoriani. Sobbalzai alla vista delle loro uniformi nere, la vista delle
guardie dell’imperatore essendo sempre inquietante.
Rufa
stava dormendo in una brandina sul retro della tenda e si svegliò al suono dei
loro passi e delle loro spade tintinnanti, un familiare sguardo impaurito sul
suo viso d’ebano. Prima che potessi andare a calmarla, una delle guardie parlò
con voce tonante seppure educata.
- Signora, - disse. - Devi venire con noi. L’imperatore richiede la tua
presenza.
Signora?
Io? L’imperatore richiedeva la mia presenza? Che cosa sapeva di me? Che cosa
voleva da me? Massimo gli aveva parlato del nostro particolare asservimento e
Cesare voleva un assaggio di quel che il suo generale aveva rifiutato? Marco
Aurelio non era mai stato famoso per i suoi appetiti, ma per la sua sete di
conoscenza. Mi sentivo completamente paralizzata.
Tutti
i soldati romani, siano legionari, pretoriani o semplici ausiliari, dominano
l’arte di far marciare le persone dove vogliono che vadano senza nemmeno
toccarle. E’ questione di atteggiamento, probabilmente radicato nel fatto che
generazione dopo generazione di soldati romani hanno conosciuto o una morte
gloriosa o un glorioso congedo, la sconfitta sconosciuta agli eserciti
dell’imperatore da oltre un secolo. Questi pretoriani non facevano eccezione e
prima che potessi reagire mi ritrovai ad attraversare il cortile coperto di
ghiaia del pretorio diretta verso la tenda imperiale.
Gentilmente
ma con fermezza, le guardie mi condussero fino ad un’anticamera dove un gruppo
di servitori era occupato a fare preparazioni per la notte. Lì c’era un altro
pretoriano, un ufficiale, che mi prese in consegna dalle guardie e mi fece
cenno di seguirlo all’interno dell’alcova imperiale. Malgrado quella non fosse
la tenda che il corteo imperiale trasportava ovunque, ma la tenda di Cassio
riarredata in fretta per offrire a Cesare alloggi adeguati, era difficile
credere che poco tempo prima fosse stata un luogo completamente differente.
Arazzi di seta, tappeti, comode sedie e divani, casse, tavoli, un
letto e uno scrittoio riccamente decorati avevano preso il posto degli
effetti personali di Cassio. E sebbene i suoi gusti fossero stati raffinati e
costosi, quelli di Marco Aurelio erano semplicemente regali. La stanza era
scarsamente illuminata, le ombre si concentravano agli angoli, e sembrava
essere vuota. Ma l’ufficiale pretoriano con deferenza premette il pugno destro
al petto e parlò alle ombre:
- La donna è qui, Cesare.
Un suono frusciante attrasse la mia
attenzione verso la parte più lontana della tenda.
- Lasciaci, - disse una bassa voce rauca. - Il pretoriano fece di nuovo il
saluto, girò sui talloni e lasciò la stanza, lasciandomi sola con l’invisibile
presenza imperiale.
Marco
Aurelio emerse dalle ombre, un uomo alto, magro, con lunghi, fluenti capelli
grigi. Indossava un sontuoso abito porpora profusamente decorato d’oro. Il suo
viso era quello di un uomo che non aveva regnato standosene comodamente chiuso
nel palazzo imperiale, ma attraversando in lungo e in largo il suo vasto impero
e combattendo se necessario. Sembrava più vecchio della sua età e, come
Massimo, mostrava le rughe imposte ai suoi lineamenti da anni di preoccupazioni
e responsabilità. E, come quelle di Massimo, quelle rughe non sminuivano il suo
fascino ma lo accrescevano, le fiere decorazioni di un uomo che era tanto uomo
da accettare i suoi pesanti doveri.
Per
tutta la mia vita avevo avuto familiarità con potere e ricchezze. Cassio non
era stato soltanto un uomo benestante, ma anche un potente generale, un uomo
uso al proprio potere e ad usarlo. Massimo trasudava potere. Il suo non aveva
nulla a che fare con ricchezze o rango, sebbene fosse il comandante di un
enorme esercito e il prediletto dell’imperatore. Il suo potere gli veniva da
dentro, era primevo come le forze della natura e aveva molto a che fare con la
sua irriducibile mascolinità.
Ma
il potere di Marco Aurelio era qualcosa di completamente differente. Sembrava
circondarlo come un alone dorato, qualcosa allo stesso tempo intangibile e
palpabile. Qualcosa che esigeva riconoscimento ed omaggio.
Egli
era semplicemente, puramente, un imperatore.
Mi
inginocchiai.
-
In piedi, bambina, in piedi, - ridacchiò Cesare mentre gentilmente mi toccava
la spalla con mano calda e asciutta.
Lentamente,
con reverenza alzai lo sguardo e mi ritrovai a guardare in quello azzurrissimo di
Marco Aurelio.
-
In piedi, - ripeté e io mi alzai, sentendomi goffa e timida, tanto inadeguata
alla presenza dell’imperiale persona
quant’è possibile sentirsi.
L’imperatore
sorrise.
- Vieni, siediti, - disse, indicando un paio di sedie.
Esitai,
la testa china per la soggezione e il timore, i lunghi capelli rosso-oro che mi
ricadevano sul viso come una cortina. L’imperatore sedette su una delle sedie,
poi mi indicò ancora di prender posto sull’altra. Obbedii, tenendo lo sguardo
sul grembo.
-
Bambina, guardami.
Timidamente
sollevai lo sguardo e guardai il suo attraente viso maturo.
-
Così va meglio, - disse. - Mi piace che una persona mi guardi negli occhi
mentre le parlo. E noi dobbiamo parlare, tu e io… - I suoi lunghi capelli e la
barba erano più bianchi che grigi e aveva l’aria stanca, ma i suoi occhi
mantenevano il fuoco della gioventù. I suoi erano gli occhi di un uomo abituato
a leggere sia libri che uomini con la stessa facilità e accuratezza.
-
Ti chiami Giulia, vero?
-
Sì, Cesare, - mormorai.
-
Il generale Massimo mi ha parlato di te, Giulia. Mi ha detto tutto.
Tutto?
Che cosa voleva dire l’imperatore? Che Massimo gli aveva detto che io ero una
delle puttane di Cassio? O che ero una schiava che aveva commesso l’abominevole
crimine di assassinare il proprio padrone?
Marco
Aurelio sorrise e mi diede un buffetto sulla mano.
-
Sì, Giulia. Mi ha detto tutto. E non hai nulla da temere. Sarà il nostro
piccolo segreto. Un segreto tra noi tre.
Mi
diede di nuovo un colpetto sulla mano, sorridendomi gentilmente. Io inghiottii
e mi sforzai di continuare a guardarlo negli occhi.
-
Ecco, a dire il vero, il generale Massimo non mi ha detto tutto di te, Giulia,
- continuò l’imperatore. - Si è dimenticato di dire che eri così bella. Ha
detto che eri intelligente e coraggiosa e che non hai esitato ad aiutarlo,
sebbene facendolo ti sei messa in mortale pericolo. - Marco Aurelio alzò la
testa e mi guardò con aria interrogativa per un lungo istante.
Come
ho detto, ero sempre stata lodata per la mia bellezza e avevo visto i suoi
effetti sugli uomini tanto frequentemente che non ci facevo quasi più caso.
Tuttavia, dopo averli visti su Massimo, in qualche modo mi feriva che lui si
fosse rifiutato di riconoscerla. Mi feriva moltissimo.
L’imperatore
sorrise ancora.
- Lo so che il generale non è un uomo raffinato, ma dubito che non abbia notato
una bellezza come te, - aggiunse come se mi avesse letto nel pensiero. Come ho
detto, era un uomo uso a leggere gli altri con facilità e accuratezza.
Mi
sentivo sempre più a disagio. Che intenzioni aveva Marco Aurelio? Non potevo
fare a meno di pensare al senatore anziano. Sebbene questi sembrasse più
giovane di Marco Aurelio, aveva avuto circa l’età dell’imperatore e anche lui
mi aveva lodata… Cesare doveva aver notato la mia angoscia perché cambiò
argomento.
-
Giulia, il generale Massimo mi ha anche detto quello che Cassio ha fatto a te e
alle donne.
Malgrado
il desiderio dell’imperatore che io lo guardassi negli occhi, il suo accenno
alla mia degradazione era più di quel che potessi sopportare e abbassai lo
sguardo in grembo.
-
Come Cesare, si suppone che io non debba mettere in discussione Roma e i suoi
costumi perché io sono Roma e tutto
ciò che essa significa, - disse, poi agitò la mano come per scacciare quelle
pompose nozioni su se stesso e la potenza di Roma. - Come Cesare, si
suppone anche che io non possa parlare liberamente tranne che con gli dei.
Tuttavia, trovo singolare parlare a dei pezzi di marmo non importa quanto siano
belli e invece trovo grande piacere nel parlare con alcune persone, come il
generale Massimo. - L’imperatore rimase in silenzio per un istante, poi
riprese. - Giulia, si suppone che questa conversazione non abbia mai avuto
luogo perciò ti parlerò liberamente e manterremo il nostro piccolo segreto.
Nemmeno il generale Massimo deve venirne a conoscenza.
Alzai
la testa e lo guardai di nuovo nel viso attraente e saggio. Non era l’idolo
remoto che si può immaginare sia un imperatore, ma un uomo stanco, gentile,
pensieroso seduto nella penombra di una tenda vicino al Mar Nero. Tuttavia, era
l’imperatore di Roma e quindi il centro del mondo. Ma era ovvio che preferiva
essere semplicemente un uomo. Sentii scaldarmi il cuore e cominciai a capire
perché Massimo lo amasse tanto. E perché Marco Aurelio amasse tanto Massimo.
-
Giulia, come Cesare ho potere di vita e di morte su ogni persona che vive
nell’impero. Possiedo anche molti schiavi, migliaia di schiavi a dire il vero.
Ma devi sapere che la semplice idea della schiavitù mi angustia tanto quanto i
giochi così cari sia al popolo che alle classi agiate. - Rise asciutto.
- Mi chiedo che cosa direbbero i senatori se sapessero che l’imperatore di Roma
disprezza istituzioni romane quali la schiavitù e i giochi.
-
Non lo so, Cesare.
Solo
quando Marco Aurelio sorrise mi accorsi che avevo dato voce ai miei pensieri.
Arrossii violentemente.
L’imperatore
si pizzicò la punta del naso e proseguì.
- Sii certa che io so quello che
penserebbero e so anche che cosa farebbero,
- ridacchiò. - Purtroppo, la schiavitù è così consolidata nella società romana
che l’impero collasserebbe sia finanziariamente che socialmente senza di essa.
Ma questa non è una scusa per fare cose come quelle che il generale Avidio
Cassio ha fatto a te e alle altre donne. Come imperatore di Roma, è colpa mia
che sia accaduto perché avrei dovuto essere in grado di impedire ai miei
subordinati di commettere un tale abuso. - Marco Aurelio sospirò gravemente. -
Secondo la legge romana, io ora sono il tuo padrone perché Avidio Cassio è
morto da traditore e le sue proprietà e ricchezze devono essere confiscate. -
Cesare si girò verso un tavolo posto alla sua destra e prese da esso un rotolo
sigillato. Poi me lo porse. - Questo è tuo, bambina. - Io esitai e Cesare mi
incoraggiò. - Prendilo, Giulia. Aprilo e leggilo.
Le mie mani tremavano forte mentre prendevo il rotolo e fallii due volte nel cercare di rompere il sigillo. Quando lo srotolai, le parole elegantemente scritte con inchiostro nero danzarono davanti ai miei occhi. Le guardai in silenzio, poi rivolsi il mio sguardo smarrito all’imperatore.
Un’aria preoccupata comparve sui lineamenti anziani di Marco Aurelio.
- Sai leggere, Giulia? - chiese con dolcezza. Sentii che arrossivo di nuovo, in qualche modo l’ammettere il mio analfabetismo perfino più imbarazzante dell’ammettere la mia degradazione.
- Un po’, Cesare, - mormorai.
- Mi dispiace, bambina. Ho la tendenza a dimenticare che non tutti a Roma hanno mezzi o una vita agiata, - disse in tono di genuina tristezza mentre scuoteva la testa. - Suppongo sia la prova che sto diventando vecchio… e che non sono quel bravo imperatore che credo di essere. - Io rimasi in silenzio, i miei occhi fissi su di lui. Egli sospirò ancora e quando parlò la sua voce rauca era gentile e suadente. - Come tuo imperatore e padrone, ho il diritto di renderti una donna libera e questo è quello che sarai da questo momento in poi, - disse Marco Aurelio. - Siccome sono pressato dal tempo, ti dispenserò dalle formalità e dalla cerimonia di manomissione[1] per ciò che concerne il documento che hai in mano. Sei libera, Giulia. Libera di andare dove vuoi andare, di sposare chi vorrai tra gli uomini ai quali la legge di Roma permette di sposare una liberta[2]. Sei libera di fare quel che ti piace e non quel che ti è ordinato. E, più importante, i tuoi bambini nasceranno liberi e cittadini romani.
Ero esterrefatta. Libera. Una liberta. Libera di andare dove volevo. Di fare quel che mi piaceva. Di sposare… Massimo mi aveva promesso la libertà, ma in qualche modo non avevo creduto che sarebbe accaduto. Come un animale in cattività usato per essere crudelmente schernito e rifiutato, avevo rinunciato a credere che la libertà fosse possibile. E ora, il documento che tenevo in mano, il documento che potevo a malapena leggere e definitivamente non comprendere proclamava al mondo che io, Giulia, non ero più una schiava e una prostituta ma una liberta… qualunque cosa significasse.
- Gr-grazie, Cesare, - balbettai, troppo sopraffatta per fare di più. Marco Aurelio mi diede di nuovo un buffetto sulla mano.
- Quante altre donne ci sono nei quartieri degli schiavi?
- Quattordici, Cesare, me compresa.
Marco Aurelio
rabbrividì alle dimensioni del bordello privato di Cassio.
- Il generale Massimo ha richiesto che siano liberate e lo saranno. Ho
incaricato un questore che farà quanto necessario. Credo che ci siano anche
alcune schiave inferiori che ti fanno da ancelle, è corretto?
- Sì, Cesare. Sono molto giovani, alcune non hanno più di dieci o dodici anni.
- Sono troppo giovani per essere liberate e lasciate a se stesse. Queste ragazze rimarranno al mio servizio fino a quando verranno sistemate nelle tenute dei miei parenti. - Mi accigliai e Marco Aurelio alzò la testa e mi guardò. - Non ti fa piacere, Giulia?
Sussultando, inghiottii a fatica. Ero appena stata liberata e il mio primo atto di donna libera era stato osare mostrare dissenso all’imperatore di Roma. Tuttavia, invece d’essere arrabbiato, l’uomo mi stava dando l’occasione di dar voce alle mie ragioni per tale dissenso.
-
S-sì, Cesare. Ma… - Mi bloccai e Marco Aurelio mi incoraggiò con un cenno a
continuare a parlare. Respirai a fondo. - C’è una bambina, Cesare. Si chiama
Rufa. E’ numida, credo, ha dieci anni scarsi. E’… è molto timida ed è talmente
spaventata… sembra aver sofferto molto nelle mani dei commercianti di schiavi…
Io… è stata la mia cameriera personale da quando il generale Cassio la comprò…
-
Vuoi che la dia a te, Giulia? Si può disporre senza difficoltà.
Scossi
la testa.
- No, Cesare. Io… ti ringrazio, Cesare, ma non vorrò mai possedere una
schiava. Non posso possedere una schiava… è solo che lei è così timida
e… ha difficoltà nel comprendere e parlare la nostra lingua. Temo che i suoi
nuovi padroni potrebbero non essere pazienti…
Marco
Aurelio annuì, poi avvicinò la sua testa alla mia e abbassò la voce come un
cospiratore.
- Ti dirò quel che farò, Giulia. La sistemerò con mia figlia, l’Augusta
Lucilla. Ha un grande possedimento, ma ha sempre bisogno di più aiuto. Sono
certo che potrà adibire la ragazza a prendersi cura del suo guardaroba o forse
a farsi aiutare con il suo figlioletto. Mia figlia sarà una buona padrona per
lei. Va bene per te?
Lacrime
roventi mi offuscarono la vista e io le combattei furiosamente mentre annuivo
il mio consenso e ringraziamento al potente e compassionevole uomo seduto di
fronte a me.
-
Allora, questo è sistemato, - disse l’imperatore. - Adesso, parliamo delle
altre ragazze. Il generale Massimo mi ha detto che Cassio si vantava di avere
altre schiave come te da qualche parte a Roma. Che cosa sai di loro?
-
Si trovano in una villa vicino Roma, Cesare. E’… è dove sono nata e cresciuta.
- Esitai e Marco Aurelio mi incoraggiò a continuare. - E’ dove Cassio… ci
allevava… e addestrava …
L’imperatore
rabbrividì con evidente repulsione.
-
Alcune ragazze sono molto giovani, Cesare. Sono state istruite per rimpiazzare
le più grandi quando non sono più attraenti… - Era il mio turno di rabbrividire
al semplice pensiero del fato che mi aveva atteso appena pochi giorni prima.
Respirai a fondo e continuai. - Ci sono anche altre che... che sono state
rimosse… sono là per… generare, Cesare. Il generale Cassio usava schiavi belli
e forti e affittava anche dei gladiatori per metterle incinte. Alcune di loro
possono essere incinte adesso.
-
Ho ragione di supporre che Cassio era interessato solo alle bambine femmine?
-
Sì, Cesare.
-
E che cosa accadeva quando nascevano i maschietti?
Pensai
ad Eugenia e sentii un dolore sordo nel cuore.
-
Non lo so , Cesare. Se… semplicemente… scomparivano.
Marco
Aurelio sollevò una mano per fermarmi. Poi chiuse gli occhi e li stropicciò con
cautela, il suo gesto così simile a quello di Massimo che mi sentii
il cuore gonfio e dovetti frenarmi dal prendergli la mano per cercare di
confortarlo. Con un sospiro, riaprì gli occchi.
-
Giulia, darai tutte le informazioni necessarie al questore incaricato di liberare
le tue amiche ed egli si prenderà cura anche di queste ragazze, poi mi
informerà personalmente. Il suo nome è Cornelio Crasso ed è uno dei miei uomini
più fidati in Roma. Stai tranquilla che farà tutto il necessario.
-
Grazie, Cesare, - dissi umilmente, ancora una volta sopraffatta dalla bontà e
compassione dell’imperatore.
Marco
Aurelio si alzò. Il rispetto per l’imperiale persona richiedeva che anch’io mi
alzassi, ma Cesare mi fece cenno di rimanere seduta. Percorse la tenda come un
uomo che nonostante fosse chiaramente stanco non poteva rimanere tranquillo a
lungo. Poi, tornò di fronte a me.
-
Giulia, la libertà è la cosa più preziosa che un uomo o una donna possa mai
avere o perdere. Ma per uno che è stato schiavo, la libertà non è abbastanza
per cominciare una nuova vita. Il generale Massimo e io siamo d’accordo su
questo e ogni schiava di Cassio tranne te riceverà cinquemila sesterzi al suo
arrivo in Roma perché sia in grado di cominciare una nuova… E’ più che
sufficiente per una vita semplice, ma confortevole. - Scosse la testa e
aggiunse, come parlando a se stesso. - Non mi piace l’idea di liberare quelle
donne solo per vederle vendere i loro corpi nelle strade di Roma. Gli dei sanno
che ci sono troppe ragazze sfortunate che lo fanno per vivere.
Cesare
tornò al tavolo e prese un secondo rotolo.
-
In quanto a te, non ho dubbi che tu sia intelligente e abbastanza forte da non
dover ricorrere a una cosa del genere. E so anche che hai corso rischi tremendi
per aiutare il generale Massimo.
La
voce dell’imperatore si scaldò quando menzionò il nome di Massimo. Era evidente
che l’anziano uomo amava caramente l’ispanico figlio di contadini che era
divenuto il suo più fidato generale. Non potei fare a meno di pensare che due
persone tanto differenti come Marco Aurelio e me potessero avere in comune
questo. Perché egli era l’uomo più potente del mondo e io soltanto una
diciottenne che era stata solo una schiava per tutta la vita, tuttavia entrambi
amavamo lo stesso, straordinario uomo.
La
voce rauca di Marco Aurelio mi riportò indietro dalle mie
riflessioni.
- Giulia, ci si aspetta da una schiava che sia leale al suo padrone o alla sua
padrona e che lo serva o la serva bene. Ma da nessuna schiava ci si aspetta che
prenda parte a una missione per liberare Roma da un usurpatore. Va oltre il
dovere di qualunque schiavo ed è un dovere riservato a cittadini privilegiati,
quali senatori e ufficiali dell’esercito di grado elevato come il generale
Massimo, uomini che sono stati onorati da Roma. Tuttavia, nonostante fossi solo
una schiava, non hai esitato e hai aiutato il generale Massimo a compiere il
suo dovere verso Roma e, grazie al tuo aiuto, egli ha impedito una sanguinosa
guerra civile. Se non fosse stato per te e per lui, non saremmo qui a parlare,
ma su schieramenti differenti, mentre Romani uccidono Romani.
Cesare arrotolava il rotolo nelle sue mani mentre parlava.
-
Non vi sono in Roma molti uomini tanto coraggiosi da fare quel che tu hai
fatto, Giulia. Roma non ti ha dato altro che sottomissione e umiliazione, ma tu
c’eri quando l’impero aveva disperato bisogno d’aiuto. Ciò non rimarrà non
ricompensato. Al tuo arrivo in Roma, riceverai venticinquemila sesterzi come
ricompensa per il tuo altruistico servizio. Cornelio Crasso ti accompagnerà da
uno dei miei banchieri e tu gli darai questa lettera sigillata. L’uomo farà i
necessari accomodamenti e ti aiuterà a stabilirti nella città e a cominciare
una nuova vita. Puoi fidarti completamente di lui perché sa che sei sotto la
mia personale protezione.
Venticinquemila
sesterzi? Anche se ero solita maneggiare del denaro quando dirigevo i quartieri
delle schiave erano sempre piccole somme, dal momento che le nostre forniture
erano addebitate da Cassio sul bilancio della legione. Non avevo nemmeno idea
di quanto fosse il denaro in più che mi veniva dato rispetto alle altre donne,
ma il tono dell’imperatore implicava che era molto. Prima che potessi parlare,
Cesare sollevò le mani per fermarmi.
-
Giulia, si sta facendo tardi. Sono stanco e un pochino ubriaco, - sorrise
debolmente e, come quello di Massimo, il suo sorriso gli diede un’aria molto
più giovane e spensierata. Per un breve istante, riuscii a vedere il giovane
attraente, vibrante che era stato non molto tempo prima. Il giovane attraente,
vibrante che ancora viveva dentro l’anziano, stanco imperatore.
Cesare
sedette di nuovo, non sulla sua sedia, ma sul divano di fronte alla mia.
- Ho un’altra cosa da dirti, qualcosa di molto, molto importante, - disse
adagiandosi sui cuscini. - Domattina rimanderò a Roma una delle legioni e tu e
le altre donne viaggerete sotto la sua protezione. Cornelio Crasso verrà con
voi e si prenderà cura di tutto.
Mi
sentii come se fossi stata colpita a tradimento. Roma? Cesare ci stava mandando
a Roma sotto la protezione di una legione? Quale legione? Non quella di Massimo
perché egli era venuto in Moesia scortato solo dalla cavalleria della Felix
III… Io non volevo andare a Roma! Non potevo andare a Roma! Volevo solo
rimanere dove c’era Massimo… anche se lui rifiutava di avermi.
L’imperatore
continuava a parlare, la luce tremolante delle lampade ad olio formando un
alone sui suoi lunghi capelli bianchi e facendo danzare ombre sopra il suo
volto patrizio barbuto.
-
Come ho detto, Giulia, tu hai reso un grande servizio a Roma e sarai
adeguatamente ricompensata. Ma tu hai reso a me un servizio ancora più grande e
per questo ti sarò grato per sempre, tuttavia io non sarò mai in grado di
ripagarti, non importa quanto oro ti darò…
Stupefatta,
rivolsi la mia attenzione a Marco Aurelio. Di che cosa stava parlando
l’imperatore?