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Le
mie grida salirono a spirale come uno stormo di pipistrelli liberati dallo
spalancarsi improvviso dei cancelli dell’Ade. La mia voce è stata più volte
descritta come roca… una voce bassa e gutturale estremamente insolita in una
donna, ed era stata elogiata, così come la mia bellezza, da coloro che per gli
stessi motivi non la trovavano sconvolgente. Sono stata istruita fin
dall’infanzia ad usare la mia voce come un’altra arma di seduzione,
mantenendola bassa, usando i suoi toni ricchi e profondi per infondere nelle
mie parole una calda promessa di piacere inenarrabile. Turia trovava sconcertante
la mia voce e si lamentava con Cassio che il mio unico difetto era la mia
incapacità di cantare. Ma Cassio liquidava le sue lamentele dicendo che
preferiva una donna capace di gemere durante l’accoppiamento in modo tanto
gutturale e bello come facevo io, a tutti i cantanti perfettamente addestrati
dell’impero. Turia e Cassio, gli amanti di un tempo che avevano così a lungo
tenuto la mia vita nelle loro mani, ed ora entrambi morti.
Non
riesco a ricordare di aver gridato, in tutta la mia vita, a parte la notte
nella casa del senatore anziano, quando gridai invano aiuto affinché qualcuno
mi salvasse dall’uomo che teneva immobilizzato il mio
corpo dodicenne sotto il suo. Le mie grida mi avevano condotto soltanto ad
essere brutalmente schiaffeggiata, una lezione imparata nel modo più duro,
perché a quell’uomo piaceva la mia resistenza e la stava bramando, lo stupro
più piacevole del semplice prendermi. Gli schiaffi del senatore mi avevano
rinsavita e la ragazza abusata che aveva lasciato la casa con un pugnale
d’argento rubato nascosto sotto i vestiti di una costosa bambola non aveva mai
più gridato, perché non vi era aiuto che mi si potesse dare. Non fino a quella
notte, quando lo stesso pugnale aveva finalmente messo fine sia alla
sottomisssione che a quel poco che restava della mia innocenza.
Non
so per quanto tempo gridai, ma improvvisamente un gruppo di pretoriani e
ufficiali irruppe nella tenda, bloccandosi interdetti davanti alla scena
sanguinosa. Si guardarono l’un l’altro, scossi e disorientati, senza sapere
assolutamente cosa fare. Marzio, un giovane tribuno, si riprese più rapidamente
degli altri e li aggirò per piazzarsi davanti a me. Mi ero ritirata
all’estremità più lontana della tenda, ansiosa di mettere distanza fra gli
uomini, sia morti che vivi, e me, le mani premute contro la bocca. Egli venne
da me e mi trascinò per il braccio.
-
Che cosa è accaduto? - urlò, lo sguardo selvaggio. Era uno degli uomini più
fidati di Cassio e sapeva che cosa significasse la sua morte e quella di Marcello:
aveva appoggiato un uomo che aveva tentato di usurpare il trono ed ora
quell’uomo era morto. Era nei guai più neri. Quando non riuscii a rispondere,
mi scosse brutalmente, ma io mi limitai
a guardarlo con occhi che sapevo dovevano essere sbarrati e terrorizzati.
- Stupida cagna! - ruggì. - Dimmi che cosa è accaduto! C’era qualcuno qui?
Rispondimi! - Con lo stesso distacco di quando ero stata quasi sul punto di
tagliarmi i polsi, vidi Marzio alzare la mano. Stava per darmi un manrovescio.
Mi preparai a ricevere il colpo...
-
Che succede qui?
La
voce tonante di Massimo fece trasalire Marzio, raggelandolo a metà del movimento. Massimo entrò nella
tenda armato di tutto punto e con indosso la sua corazza di ottone, seguito dai
suoi due falsi guardiani, e con il suo grado e il suo atteggiamento di comando
ridusse al silenzio gli ufficiali di Cassio. Marzio lasciò cadere la mano pur
senza mollarmi.
Tutti
gli sguardi si fissarono su Massimo, il silenzio così assoluto da essere
minaccioso. Poi, uno dei centurioni si schiarì la voce.
- Sia... siamo venuti quando abbiamo udito le grida della donna ed abbiamo
trovato il... abbiamo trovato il
generale Cassio e Marcello morti, signore...
Massimo
andò verso i cadaveri e li guardò intento.
- Portate i dottori! - ordinò a uno dei pretoriani. Poi si rivolse alle proprie
guardie. - Prendete il corpo del generale Cassio e mettetelo sul suo letto… le
sue azioni verso l’imperatore possono essere discutibili, ma era un buon
soldato e merita rispetto. - Mentre le guardie obbedivano, Massimo venne verso
di me. Stavo ancora premendo le mani contro la bocca ed avevo cominciato a
tremare. - Tribuno, lasciala, - ordinò a Marzio.
-
Generale, era qui quando siamo arrivati! - disse questi, affondando
dolorosamente le dita nel mio avambraccio.
- Dobbiamo interrogarla! Deve aver visto qualcosa... Per quel che ne
sappiamo, potrebbe esser stata proprio lei a uccidere Cassio!
Massimo
rivolse al tribuno un’occhiata di ghiaccio.
- E’ ovvio che può aver visto qualcosa e io
la interrogherò, - disse con voce fredda quanto i suoi occhi. Marzio aprì di
nuovo la bocca, ma le mani delle ‘guardie’ di Massimo corsero alle loro spade
ed il lembo della tenda si riaprì per far entrare due medici della legione, un
uomo che successivamente seppi era Gallieno ed una dozzina di uomini della
cavallleria. - …non credo che sarà utile, - continuò Massimo continuando a
guardare con durezza negli occhi di Marzio. - Non è altro che una donnetta
isterica. In quanto al tuo commento sul fatto che sia lei l’assassina di tre soldati addestrati... fingerò di
non averti udito. Ora, liberala come ti è stato ordinato... ed in avvenire,
tribuno, mi aspetto d’essere obbedito senza ritardo o questioni.
Marzio
scambiò un’occhiata disperata con gli altri ufficiali, ma nessuno reagì o
glielo restituì, tutti più preoccupati del loro immediato futuro. Il tribuno
fece come ordinato ed io vacillai, quasi cadendo. Nessuno allungò la mano per
reggermi. Non gli ufficiali che si stavano scambiando sguardi preoccupati. Non
i medici che stavano esaminando il corpo di Cassio. Non Massimo, la cui
attenzione era fissa sugli altri cadaveri.
Si
accosciò vicino a loro e allontanò i corpi con le proprie mani, senza badare
affatto al sangue che gli imbrattò le mani e gli stivali. Gallieno si spostò di
fianco a lui, ma non si accosciò. Invece, rimase in piedi, la mano sulla spada,
pronto a scattare in azione se uno degli uomini di Cassio avesse tentato di
muoversi verso il suo generale. Non lo fecero. Sapevano perfettamente che le
loro azioni avevano danneggiato le loro carriere oltre ogni speranza e
probabilmente messo le loro vite in pericolo, e non volevano peggiorare la loro
situazione.
-
Dunque, è andata così, - disse Massimo con enfasi dopo aver girato sulla
schiena il corpo del pretoriano. -
Marcello ha attaccato Cassio mentre era distratto perché stava scrivendo, ma
questa coraggiosa guardia deve aver sentito qualcosa e ha cercato di salvare il
suo generale. Hanno lottato ed è riuscito a ferire Marcello, ma anche lui è
rimasto ferito.
Sollevò
la testa e guardò negli occhi degli uomini in attesa, sfidandoli a contraddirlo. Nessuno articolò una sola
parola. Massimo si rialzò in piedi e, prendendo un pezzo di stoffa che uno dei
medici gli offrì, si pulì le mani accuratamente, senza mai lasciare gli
ufficiali con lo sguardo.
-
Gallieno.
Il
mastro di scuderia scattò in azione.
-
Generale?
-
Come ufficiale più alto in grado, non solo in questo accampamento ma
nell’intera frontiera nordica, prendo
il comando di questa legione.
Alcuni
ufficiali ansimarono. Massimo continuò come se non li avesse sentiti.
-
Lo faccio in nome del vero imperatore,
Marco Aurelio, e con l’autorità che egli mi ha dato di agire in suo nome. Voglio
che le guardie ai cancelli e sulle mura siano immediatamente sostituite dai
tuoi uomini.
Gli
ufficiali di Cassio si scambiarono rapide occhiate frenetiche.
-
Sì, signore! - rispose Gallieno.
-
Inoltre ordino che tutti i documenti e le lettere militari in questa tenda e
quelle di tutti gli ufficiali in questo accampamento siano requisiti, messi in
un forziere sigillato e consegnato a me. Voglio che due dei tuoi uomini lo
sorveglino notte e giorno.
Gallieno
annuì e due ufficiali si precipitarono fuori. Massimo andò avanti.
-
Crimini gravi contro Roma e contro l’imperatore sono stati commessi in questo
luogo. Fino a che io non potrò stabilire esattamente che cosa è accaduto qui e
chi è implicato, i cancelli rimarranno chiusi: nessuno entra e nessuno esce.
Inoltre voglio che le guardie alle stalle e all’armeria siano raddoppiate.
-
Sì, signore!
Gli
occhi di Massimo non avevano mai abbandonato le facce degli ufficiali di
Cassio.
- L’imperatore sta per arrivare qui e deciderà che cosa va fatto. Nel
frattempo, tutti gli ufficiali, qui presenti e non, rimarranno sotto arresto.
Suggerisco, signori, che non peggioriate la vostra situazione opponendo
resistenza.
Gli
ufficiali erano pallidi e smarriti.
-
Ordino che anche i questori e i pretori della legione siano messi agli arresti
e i registri confiscati. Questo è tutto per il momento. Gallieno, tu hai i tuoi
ordini.
-
Sì, signore! - Gallieno annuì di nuovo ed i suoi uomini circondarono gli
ufficiali.
-
E la puttana? - scattò Marzio. Tutti gli sguardi si volsero su di me ed io mi
ritrassi, ma non prima di vedere il
cipiglio tempestoso negli occhi di Massimo mentre lanciava un’occhiata al
tribuno. Poi guardò me e per un breve, fugace istante vidi le emozioni
contrastanti, mutevoli che si agitavano nei suoi penetranti occhi azzurri. Vidi
acre rabbia e preoccupazione, colpa e tristezza, furore ardente e tenerezza.
L’intensità bruciante del suo sguardo mi mandò brividi giù per la schiena,
perché era lo sguardo tormentato di un uomo che affronta non soltanto
circostanze pericolose, ma anche i suoi propri demoni. E poi, sparì. Ancora una
volta egli si rimpadronì dei propri sentimenti e fu di nuovo un generale in
tutto e per tutto. L’ira rovente si trasformò in glaciale determinazione, tutta
la premura e la tenerezza cancellate dai suoi occhi. Era di nuovo il generale
in tutto per tutto e io non ero più la donna che aveva suscitato in lui
interesse, dispiacere e tenerezza, ma una garanzia in un piano pericoloso, il
suo obiettivo estremo per compiere la sua missione e adempiere il proprio dovere nei confronti del suo imperatore. Non
ero più la donna che aveva impetuosamente risvegliato la sua passione tanto da
fargli quasi tradire la moglie. Non ero nemmeno più Giulia, ma semplicemente
“la puttana”.
La
puttana.
Stavo
in piedi, vestita soltanto di una tunica trasparente, in una stanza piena di
ufficiali romani, una stanza piena di uomini che talvolta avevano goduto di me
a letto, Massimo l’unico che non si fosse macchiato la reputazione. Massimo,
l’unico che avevo voluto. Massimo, che mi vedeva per ciò che ero realmente.
Sapevo
che tutto… le nostre vite, perfino… dipendevano dalla sciarada che stavamo
giocando e dalla mia parte in essa. Ero più che disposta ad andare avanti, non
importa quanto doloroso fosse, e sarei andata avanti, avrei sopportato tutto,
persino i colpi di Marzio, se non fosse stato per quell’ultima, breve, fugace
emozione che vidi nei suoi occhi d’un azzurro abbagliante,
prima che li distogliesse da me. Perché era il
sentimento più terribile che una persona possa vedere negli occhi di un’altra,
particolarmente una donna negli occhi dell’uomo di cui si è innamorata. Ed era
molto peggio che odio, perché era pietà.
Silenziosamente,
lo supplicai... Lo supplicai di non giudicarmi. Di non disprezzarmi. Ma
soprattutto lo supplicai di non provare pietà per me.
-
Gallieno?
-
Sì, signore?
-
Questa donna è sotto la mia protezione personale. Falla sistemare in una tenda
vicino alla mia e apposta delle sentinelle all’entrata. Nessuno deve parlare
con lei finché io non lo permetterò. Neppure le altre donne. La interrogherò
più tardi.
-
Sì, signore!
Massimo
abbassò la voce, ma non abbastanza perché io non udissi le sue successive
parole.
- E cerca qualcosa per coprirla prima che venga portata fuori. Non voglio che
dia spettacolo per i soldati.
Qualcosa
si spezzò dentro di me.
Grandi
singhiozzi secchi trattenuti eruppero dalla mia gola, le mani premute alla bocca
incapaci di soffocarli, i miei occhi fissi su Massimo. Egli si precipitò da me,
mi afferrò per le spalle e mi costrinse a sedermi.
- Non temere. Nessuno ti farà del male, - disse sommessamente, con
un’espressione ammonitrice negli occhi.
Ma io non ero in grado di capire nessun avvertimento. Tremando in modo
incontrollabile, mi allungai verso di lui farfugliando parole che neppure io
riuscii a capire.
Massimo
fece cenno a Gallieno di far uscire gli ufficiali di Cassio dalla tenda, il
loro arresto interrotto dal mio sfogo emotivo. Quindi si girò ancora verso di
me.
- Sei al sicuro, - disse. L’avvertimento nei suoi occhi fu sostituito
dall’allarme e soltanto allora mi accorsi dei suoni e delle grida selvagge che
stavo facendo. Mi sentivo come se il mio cuore stesse per scoppiare, il dolore
nel mio petto così intenso che non riuscivo a respirare. Spinsi Massimo e
cercai di alzarmi in piedi. Volevo correre via, nascondermi in un lontano
angolo buio, appallottolarmi e morire.
-
Medico!
L’uomo
si precipitò dalla nostra parte e aiutò Massimo a costringermi a sedere di
nuovo mentre io lottavo ciecamente contro entrambi.
-
La devo interrogare, ma non è in sé. Puoi fare qualcosa?
Il
medico mi guardò con aria dubbiosa.
- E’ solo una ragazza, generale, - disse. - Ha avuto un brutto shock.
-
Lo so che è molto scossa, - disse Massimo con una punta d’impazienza nella
voce, senza mai lasciarmi con gli
occhi. - Posso interrogarla più tardi, ma se va in pezzi non sarà una testimone
attendibile... Puoi darle qualcosa per calmarla?
-
Posso darle un po’ di oppio, - disse l’uomo. - La farà dormire e…
-
Daglielo.
Il
medico esitò, poi chiamò il suo assistente e gli diede ordini.
- Sei certo di volerla far tacere,
generale? - chiese a Massimo. - Si sentirà male al risveglio. Devi sapere che
sarà meno che coerente.
Massimo
annuì.
- Sono molto più preoccupato che possa farsi del male. - L’assistente era
tornato con una coppa di qualcosa che sembrava latte e lo diede al medico.
- Per favore, generale, spostati da parte e lascia che il mio assistente la
tenga mentre le faccio bere questo, - indicò. Uno strano odore galleggiò dalla
tazza alle mie narici e io lottai ancora più energicamente contro i due uomini.
-
La terrò io stesso, - disse Massimo. Il medico lo guardò con aria interrogativa
e Massimo aggiunse. - E’ molto spaventata. Non voglio che sopporti altre
manipolazioni e molestie.
Il
medico guardò me, poi di nuovo Massimo e annuì, allontanando con un cenno il
suo assistente. Alzò la coppa alle mie labbra e io allontanai il viso, solo per
trovare quello di Massimo vicinissimo al mio. Guardai nei suoi occhi e sentii
il mio cuore gonfiarsi dolorosamente, perché stavano ardendo con un’espressione
ferocemente protettiva. Che mi persuase. Smisi di lottare e mi accoccolai
contro di lui. Esitante, Massimo allentò la sua stretta e io gli posai la
testa sulla spalla. Il medico ci guardò per un momento, poi mi portò la tazza
alle labbra. Chiusi gli occhi e bevvi.
Ero
immersa nell’oscurità, un’oscurità calda e dolorosamente lancinante che
sembrava aver inghiottito sia me che il mondo circostante. Udivo dei suoni
smorzati, ma non riuscivo a distinguerli. L’oscurità era così fitta da essere
soffocante. Cercavo di muovermi, ma il mio corpo sembrava essersi allontanato
alla deriva dalla mia mente. A poco a poco, l’oscurità fu sostituita da un
cremisi acceso, il colore talmente intenso da ferirmi gli occhi anche se
chiusi. Di nuovo udii gli angosciati suoni soffocati e allora mi resi conto che
stavo gemendo. L’oscurità si ritirò ma il dolore lancinante rimase, solo che ora era
dentro la mia testa e non intorno me. Ansimando, lottai contro la decisione del
mio corpo di tornare in superficie, ma fui sconfitta.
Quando
infine riuscii ad aprire gli occhi, trovai Rufa accanto a me. Vagamente notai
che i suoi occhi rotondi e grandi non mostravano lo sguardo spaventato che in
lei era usuale, ma quello interessato di un bambino incuriosito da qualcosa di
misterioso ed affascinante. La mia emicrania martellante era superata soltanto
da una sete tormentosa. Cercai di parlare, di chiederle un po’ d’acqua, ma le
mie labbra inaridite rifiutarono di
articolare qualunque parola. Ero così
stordita, così confusa, così debole!
-
Padrona Giulia?
La
sua voce tambureggiò nella mia mente annebbiata. Io sussultai e riprovai a
parlare, ma non ci riuscii. Vidi una brocca sul tavolo vicino al divano e feci
un gesto vago a Rufa perché mi desse un po’ d’acqua, ma la ragazza non prestava
attenzione.
-
Devo avvisare, - disse nel suo esitante latino gutturale. - Generale detto
quando ti sveglia io dovevo chiamare. - Ciò detto, Rufa si precipitò fuori,
lasciandomi sola con la mia testa martellante e la gola arsa e secca.
Lentamente,
dolorosamente sollevai la testa e guardai attorno. Ero in una tenda che
sembrava vagamente familiare, tuttavia non riuscivo a ricordare come vi fossi
arrivata. Ero distesa su un divano, coperta da una coltre leggera e qualcuno,
probabilmente il medico, aveva sciolto la mia tunica togliendo la fascia in
vita. La testa mi vorticò e io la lasciai ricadere, chiudendo gli occhi.
Prima
udii i passi, poi il movimento vicino a me. Aprii gli occhi e vidi che Rufa era
ritornata seguita da Massimo.
- Lasciaci, - disse sommessamente alla ragazza e quando se ne fu andata, prese
uno sgabello e si sedette accanto a me.
-
Giulia? - chiese. - Come ti senti?
Inghiottii
faticosamente, poi sospirai, la testa che mi martellava incessantemente.
-
Giulia?
Debolmente,
cercai di sorridere, poi gesticolai indicando che volevo un po’ d’acqua e
Massimo ne versò un po’ in una tazza mentre io mi sforzavo di sedere ritta.
Mise la tazza nelle mie mani e chiuse
le mie dita intorno ad essa, con occhi rabbuiati dalla preoccupazione. Mi
portai la tazza alle labbra, ma le mie mani tremavano tanto che non riuscii a
bere e mi versai invece un po’ d’acqua addosso, inzuppandomi il davanti della
tunica e facendo sì che la trasparente seta verde-mare s’incollasse sui miei
seni. Disgustata con me stessa, non potei evitare un singhiozzo.
Imprecando
sottovoce, Massimo sedette sul divano e mi prese tra le braccia, portandomi la
tazza alle labbra e tenendola mentre bevevo avidamente. Quando fu vuota, posai
la testa sulla sua spalla e mormorai:
-
Grazie… - prima che la mia mente scivolasse via di nuovo. Massimo mi adagiò sul
divano e ritornò allo sgabello, dove rimase in silenzio guardandomi fino a che
riuscii a raccogliere abbastanza forze da riaprire gli occhi.
-
Che cosa è accaduto? - bisbigliai.
-
Le cose sono sotto controllo, ma restiamo in allarme permanente e lo saremo
fino all’arrivo dell’imperatore, - disse. - Il problema principale è che qui ho
pochissimi uomini e non so quanto tempo impiegherà l’imperatore ad arrivare.
Tutti gli ufficiali sono sotto arresto, ma devo ancora chiarire se ci sono
altri traditori fra gli uomini. Il pericolo non è finito.
Anuii
ed egli riprese a parlare.
-
Giulia, mi dispiace per la droga, ma ho dovuto farlo. So che ne hai passate tante,
ma non potevo rischiare che dicessi qualcosa che potesse compromettere i miei
piani, capisci?
Io
sospirai e annuii di nuovo, non sicura di poter padroneggiare la mia voce.
-
Sei stata molto coraggiosa e io non avrei potuto compiere la mia missione senza
il tuo aiuto, Giulia. Ma ho bisogno che tu sia forte e che mi aiuti ancora un
po’. - Mi guardò negli occhi come per valutare se lo stavo seguendo. - Sei
nella tenda di Marcello. E’ nel pretorio, vicino alla mia. Ci sono due guardie
qui fuori ed è stato loro ordinato di non permettere a nessuno di entrare o di
parlare con te, tranne me. Si suppone che io ti debba interrogare e ti tenga
poi sotto la mia protezione finché l’imperatore arriverà e deciderà che cosa
andrà fatto.
I
miei occhi dovevano aver mostrato allarme perché egli sorrise fiaccamente ed
aggiunse:
-
Non hai niente di cui preoccuparti. Quando Marco Aurelio arriverà, gli parlerò
in privato e tutto verrà sistemato. Cassio è morto da traditore, perciò secondo
la legge i suoi possedimenti e proprietà devono essere confiscati
dall’imperatore. Ma Marco Aurelio è un uomo compassionevole e libererà te e le
altre donne. - Mosse la mano come per allontanarmi i capelli dalla fronte ma si
trattenne e, dopo una breve esitazione, continuò a parlare. - Ho bisogno che tu
rimanga qui, sotto custodia, finché arriverà l’imperatore con i rinforzi. Sarà
dura per te, Giulia, perché rimarrai isolata, ma è necessario. Ti rimetterò in
libertà appena possibile. E’ per la tua stessa sicurezza, e per quella dei miei
uomini... e la mia.
Riuscii
a fare un debole sorriso e annuii ancora.
-
Hai bisogno di riposare, Giulia ed io ho molte cose di cui occuparmi, - disse
sommessamente. - Adesso ti lascio. Dormi. Ti sentirai meglio domattina. Faccio entrare
la tua domestica e se hai bisogno di qualcosa, mandala da me. - Osservò com’ero
scarmigliata ed aggiunse: - Ti faccio portare dei vestiti dalla domestica.
Quindi
si alzò e raggiunse velocemente l’entrata.
In
qualche modo trovai la forza di chiamarlo.
-Massimo!
Si
fermò ma non si voltò.
-
Massimo, faresti qualcosa per me?
Lentamente
girò sui talloni e mi guardò circospetto, senza spostarsi dall’entrata,
aspettando che parlassi e probabilmente temendo quello che stavo per dire.
-
Mi stringeresti, per favore? - dissi con la vocina della bambina spaventata che
ancora viveva dentro la donna adulta e la prostituta esperta. - Mi stringeresti
molto forte?
Egli
aprì la bocca per esprimere una protesta o un diniego, ma si trattenne. Poi,
sorrise debolmente e ritornò da me, sedendosi di nuovo sul divano accanto a me
e cercando di prendermi tra le braccia. Ma indossava la corazza e io rifiutai
di appoggiarmi contro quella fredda consistenza, perché ciò che stavo chiedendo
era la calda forza del corpo di lui.
I
nostri sguardi si annodarono, il mio supplice, il suo confuso.
-
Ti prego... - mormorai.
Imprecando
sottovoce, Massimo si alzò di nuovo e armeggiò con le fibbie della sua corazza.
Non era un’operazione facile da compiere senza aiuto e io lo vidi lottare
impaziente con esse fino a che infine riuscì a liberare la corazza, facendola
cadere sul pavimento, dove atterrò con suono attutito.
Tornò
a sedersi sul divano, ma prima che potesse prendermi tra le braccia io
strisciai da sotto la coperta e sul suo grembo, i miei seni quasi straripando
dalla tunica sciolta, che mi s’avvolse intorno alle cosce. Circondandogli la
vita con le braccia, seppellii il viso nel suo collo. Lo sentii irrigidirsi,
sapevo che era più di quanto aveva patteggiato... e sapevo che se mi avesse
respinta sarei morta di solitudine e crepacuore.
Ma
a poco a poco Massimo si rilassò e le sue forti braccia si avvolsero intorno a
me. Piagnucolando, io mi rannicchiai più vicino a lui, respirando il suo aroma
muschiato e mascolino, il calore del suo corpo che mi avvolgeva come un caldo
mantello. Chiusi gli occhi e sospirai con abbandono quando sentii le sue dita
prima sistemare la mia tunica e coprire le mie gambe nude, poi accarezzarmi i
capelli.
Non
so per quanto tempo rimasi così, cullata dal suo calore e dalla sua forza.
Ma
all’improvviso non ero più semplicemente rannicchiata contro di lui. Le mie
mani vagavano su e giù per la sua ampia schiena, seguendo i muscoli ben
definiti sotto la lana leggera della tunica rosso-vino. Gli baciai il collo, la
barba corta che eroticamente mi raschiava le labbra mentre premevo i seni
contro di lui, cercando disperatamente di sentire il suo corpo contro il mio.
Lo
udii ansimare e spostarsi a disagio sotto le mie cosce, cercando di evitare il
contatto fra la nostra carne più intima. Sotto la spumosa tunica di seta io ero
nuda, nuda tra le sue braccia, e la mia pelle sembrava febbricitante come non
mai. Volevo sedermi a cavalcioni su di lui, avvolgermi intorno a lui, per
prenderlo dentro di me il più profondamente possibile. Le mie labbra e la mia
lingua gli accarezzarono il collo, poi
la gola e le mie mani scesero sulla sua schiena, cercando le sue salde natiche
rotonde. Ero ubriaca del suo calore e della sua forza e del suo odore. Mi
sentivo viva, disperatamente, dolorosamente viva. Bruciavo del primario
desiderio di accoppiarmi, di farmi da lui rivendicare come i maschi hanno
rivendicato le loro compagne dall’alba dei tempi e fargli versare il suo seme
dentro di me in un caldo fiotto bianco. Gemetti, sgualcendo la sua tunica nelle
mie mani...
Il
corpo intero di Massimo divenne rigido, le sue mani mi afferrarono
dolorosamente le braccia, i suoi muscoli tesi creando tra di noi una fredda
distanza inaccessibile anche se i nostri corpi erano caldi e si toccavano. Mi
misi in tensione e restammo così per un lungo momento, come due statue
congelate in una parodia senza vita di amorosa intimità.
Poi,
mi curvai contro di lui, sconfitta. Posai la fronte sulla sua spalla,
pregandolo silenziosamente di farmi rimanere tra le sue braccia. Lentamente,
molto lentamente si rilassò di nuovo e io sospirai, pronta a rassegnarmi a quel
poco che mi avrebbe dato piuttosto che perdere il suo calore.
Anche
Massimo sospirò, un lungo sospiro stanco. Poi, sentii le sue dita accarezzarmi
di nuovo i capelli e le mie lacrime silenziosamente cominciarono a scorrere.
-
Massimo? - chiesi. Di nuovo la mia voce risuonò come quella della bambina
spaventata che era cresciuta nella villa di Cassio, la bambina spaventata che
non aveva mai conosciuto sua madre né avuto una bambola, la bambina spaventata
che era cresciuta fino a diventare una bella, sola, triste prostituta.
-
Sì, Giulia? - chiese con la sua profonda voce stentorea.
-
Mi insegnerai, Massimo?
-
Insegnarti cosa, Giulia? - Sembrava disorientato.
-
A nuotare, - mi sentivo così stanca, così disperatamente stanca. In qualche
modo riuscii a continuare a parlare. - Sai, Massimo? L’acqua mi fa paura. Ho
paura di annegare. - Distrattamente, le mie dita gli tirarono la tunica. - Non
mi piace aver paura, Massimo. Non voglio mai più aver paura... Mi insegnerai a
nuotare?
-
Sì, Giulia. Ti insegnerò a nuotare, - disse sommessamente e io sentii il suo
tenero bacio leggero sulla sommità della mia testa, che mi riempì di dolcezza
malgrado la tristezza e la debolezza e la sconfitta. Mi sforzai di sollevare la
testa, avevo bisogno di guardare i suoi magnifici occhi azzurri ancora una
volta... ma la mia testa sembrava pesare troppo. Caddi addormentata.
Uno
dei pochi, piccoli doni del cielo con cui gli dei mi hanno benedetto è il fatto
che, quando dormo, di solito non sogno. E’ una cosa buona perché significa che
non ho incubi. Perché se li avessi, sarebbero così terrificanti che mi sarei felicemente
affogata molto tempo fa.
Ma
quella notte, addormentata nelle braccia di Massimo, sognai. Nel mio sogno non
ero la Giulia spaventata che lo aveva supplicato di non lasciarla sola, ma una
donna fiera e forte. Ero più adulta e indossavo non una trasparente tunica di
seta, ma una dignitosa stola[1] di lana chiara. Ero seduta su una panca di legno,
nel giardino di una proprietà di campagna come non ne avevo mai viste prima,
perché non era una villa sontuosa come quella di Cassio, ma una casa di provincia
semplice e comoda. I miei capelli erano raccolti come si confaceva ad una donna
rispettabile e libera e io ammiravo meravigliata la bellezza selvaggia del
giardino e delle colline circostanti. Ma la mia attenzione era attratta da quel
che stava accadendo all’interno del mio corpo, perché mi sentivo i seni pesanti
e pieni e un dolce e piacevole calore s’irradiava dal mio grembo. Abbassavo lo
sguardo per vedere il mio ventre arrotondato, gonfio e dilatato come lo era
stato quello di Eugenia anni prima. Le mie mani lo accarezzavano con amore e
poi lo premevo come lei mi aveva insegnato e dentro vi sentivo il bambino
rotolare dolcemente e scalciare in risposta. Mi abbracciavo, ma non lo facevo
per la solitudine e la disperazione come ero solita fare, ma con amorevole e
dolce appagamento.
Poi,
la scena cambiava come cambia soltanto nei sogni. Ero nello stesso giardino,
non seduta sulla panca ma in piedi a lato della strada, il mio corpo di nuovo snello,
le mie braccia che cullavano una neonata. Era così piccola e tuttavia così
meravigliosamente perfetta, la sua pelle bianca come la mia. Ma non aveva i
miei capelli d’oro rosso, perché i suoi erano soffici e neri come quelli del
padre. La bambina sbadigliò con il selvaggio abbandono che solo i bambini
possono avere e portò i pugnetti alla boccuccia perfetta come un bocciolo di
rosa. Poi, aprì gli occhi e mi guardò e i suoi occhi erano azzurri, non blu
scuro come i miei, ma quel verdeggiante, sfavillante, singolare
azzurro dell’uomo che l’aveva generata.
Alzai
gli occhi dalla meraviglia vivente che era mia figlia e lo vidi. Stava venendo
da me, risalendo la strada con il suo lungo passo disinvolto e sicuro di sé, le
ampie spalle orgogliosamente erette, coperte dal mantello e dalle pellicce di
lupo argentato che proclamavano il suo alto incarico. Indossava la sua corazza
da battaglia e la spada dondolava al suo fianco, un esperto guerriero che
tornava a casa, che tornava dalla sua donna e dalla figlia che lei gli aveva
dato.
Massimo
si fermò a soli due o tre passi da me e io alzai le braccia, offrendogli il
piccolo, fragile tesoro che avevamo generato e io vidi le sue grandi mani forti
rese callose dalla spada prendere teneramente la piccola e rivendicarla come
sua. Egli mi sorrise, il suo bel sorriso fanciullesco e dolce e io sorrisi in
risposta e ci abbracciammo, cullando delicatamente nostra figlia in mezzo a
noi. Posai la mia testa sulla sua spalla ed egli mi avvolse un braccio intorno,
premendomi con amore contro il suo caldo corpo forte. E durante questo momento
meraviglioso e straordinario, noi tre eravamo un solo essere, come un solo
essere eravamo stati nel meraviglioso, straordinario momento in cui avevamo
concepito nostra figlia. Ed io, Giulia, la schiava e prostituta, seppi com’era
sentirsi veramente amata e felice e completa.
Stavo annegando, ma questa volta era dolce e bello, perché stavo annegando non nelle lacrime e nella tristezza ma nell’amore e nella felicità. Gemetti e cercai di abbracciare Massimo più stretto a me... ma il mio braccio non colse altro che il vuoto. Il sogno cominciò a svanire. Terrorizzata, lottai contro la consapevolezza, contro la solitudine, contro la realtà...
Persi.
Lentamente,
dolorosamente aprii gli occhi. Non ero in un giardino di campagna ma nella
tenda di Marcello. Non c’era alcuna neonata, non c’era calore, non c’era amore,
non c’era felicità... non c’era Massimo. Ero sola, assolutamente sola, perché
mi aveva lasciata mentre dormivo.
Chiusi
gli occhi per evitare i raggi rosati dell’alba, seppellii il viso nel cuscino
che lui mi aveva messo sotto la testa e per l’ultima volta nella mia vita,
piansi.