Diario di Giulia – Capitolo VII

Uccidendo Cassio

Senza farmi annunciare entrai nella tenda di Cassio, e lo trovai seduto al suo scrittoio grande e decorato, intento a scrivere in un registro, come avevo detto a Massimo che avrebbe fatto. Scriveva velocemente e con efficienza come faceva ogni cosa, fosse condurre le legioni, sbrigare la corrispondenza o dilettarsi a letto. In quei giorni in Moesia passava ore nella sua tenda a scrivere, e messaggeri partivano dall’accampamento parecchie volte al giorno, portando le sue lettere e i suoi messaggi a coloro che lo spalleggiavano nel suo complotto per usurpare il trono, fossero essi a Roma o in altre regioni dell’impero. Cassio apprezzava la velocità e l’efficienza quanto apprezzava la comodità e la bellezza e io avevo sempre sospettato che la sua preferenza per me fosse sostenuta non solo dalla mia bellezza e dalle mie capacità nel compiacerlo, ma anche dal modo in cui sapevo facilmente occuparmi di cose come una tenuta e amministrarle con efficienza. Soleva dire che ero unica, un gioiello raro, la sola donna che avesse mai conosciuto che riusciva a prostituirsi e a gestire le noiose, insignificanti cose della vita quotidiana con la stessa sicurezza e gli stessi soddisfacenti risultati.

Come Balbino aveva detto a Massimo impersonando lo sfortunato Claudio, Cassio era uscito dall’accampamento, tornando solo appena prima del crepuscolo ed era rientrato direttamente nella sua tenda, dove aveva ricominciato a scrivere. Cassio si sentiva al sicuro nella sua tenda, circondato dai suoi seguaci e dai suoi pretoriani scelti, e quando colse un movimento con la coda dell’occhio, si limitò ad alzare lo sguardo su di me, quindi abbassò di nuovo la testa sul suo lavoro. Senza guardarmi chiese con voce piatta:

- Che cosa vuoi?

- Volevo solo vederti. Mi manchi, quando lavori tanto, - dissi dolcemente avvicinandomi a lui, mentre la veste semitrasparente che mi ero messa seguendo i bruschi ordini di Massimo di indossare “qualcosa di seducente” mi fluttuava intorno. Era di seta verdemare e talmente impalpabile che non c’era posto per le sottovesti e non lasciava nulla all’immaginazione, tranne che per la fascia d’un verde più scuro avvolta intorno alla mia vita. Massimo aveva trattenuto il fiato quando mi aveva vista uscire dalla mia camera vestita in quella che sembrava una manciata di spuma marina e aveva aperto la bocca probabilmente per protestare, ma aveva rinunciato subito. Nondimeno, quando aveva lasciato i quartieri delle schiave insieme a me aveva insistito che mettessi un mantello per coprire la mia virtuale nudità mentre camminavo tra le file di tende. Il gesto era stato così impetuoso e tuttavia così ingenuamente protettivo che mi aveva fatto quasi ridere. Il mantello giaceva ora dove io l’avevo scartato, nell’anticamera di Cassio, lo stesso luogo dove Massimo si nascondeva in attesa d’entrare in azione, vestito dell’uniforme nera del pretoriano che aveva avuto la sfortuna di essere di guardia alla tenda di Cassio. L’uomo era legato e nascosto dentro un armadio.

Girai attorno alla scrivania e feci scorrere le dita sulla mano di Cassio, poi lungo il braccio e su fino alla spalla, dove usai entrambe le mani per massaggiargli i muscoli tesi del collo. Dopo qualche istante la sua velocità nello scrivere diminuì considerevolmente, fino a fermarsi del tutto quando chiuse gli occhi e cedette alle mie attenzioni.

- Ah, Giulia, - sospirò con tono felicemente rilassato. - Tu sei la migliore che io abbia mai allevato.

Eccola. La sua frase preferita quando parlava di me. Non sembrava contento se non la diceva, sia che avessi diretto i suoi cuochi o lo avessi soddisfatto a letto. Non che importasse ancora. Cassio non avrebbe lasciato vivo la tenda e in un modo o nell’altro la mia vita era finita. Ma mi bruciava, come sempre.

Ciò nonostante riuscii a mantenere costante e uniforme il ritmo delle dita, mentre Cassio continuava a parlare.

- Ho due delle tue sorelline, sai... pronte a seguire le tue orme. Quando andremo a Roma ti incaricherò di istruirle. Saranno dei grandi doni, penso, per gli uomini della cui alleanza ho bisogno.

Cassio aveva accennato più e più volte al fatto che io avrei ereditato il ruolo di Turia alla villa, quando avessimo fatto ritorno a Roma. E aveva anche menzionato quelle due bambine: un gruppo di loro cresceva in una sezione separata della villa e ogni giorno che passava le avvicinava al loro fato. Quando parlava di loro, Cassio le chiamava sempre “le tue sorelline”, ma io non seppi mai se parlava della fratellanza creata dalla schiavitù e dalla prostituzione o della mia stessa carne e del mio stesso sangue. La mia povera, sconosciuta madre gli aveva generato non solo me, ma anche altre bellissime bambine per scaldare il suo letto e quelli dei suoi amici e sostenitori? Anche lei glielo aveva scaldato? Ogni volta che una nuova bambina veniva mandata nella sezione della villa occupata dalle prostitute iniziate avevo paura di scoprire che avesse capelli ramati, pelle bianca come panna e occhi azzurri. Avevo una paura enorme di scoprire nel viso di una ragazza più giovane, abbastanza sfortunata da essermi sorella, gli stessi lineamenti che vedevo ogni giorno quando controllavo il mio riflesso negli specchi lucidi. Ma anche questo stava per finire e quella notte saremmo state tutte vendicate: mia madre, il figlio di Eugenia, perfino Turia e naturalmente, io stessa.

Provando lo stesso distacco che avevo sperimentato sin dal mio ritorno dalla tenda di Massimo ai quartieri delle schiave, continuai a lavorare i suoi muscoli e dissi:

- Farò qualsiasi cosa ti faccia piacere, Cesare, - la voce ferma come le mie dita. Ma ero acutamente consapevole del pugnale celato proprio sotto la fascia della tunica, il pugnale che nessuno, nemmeno Massimo sapeva che possedevo. Il pugnale che una bambina dodicenne abusata aveva rubato dalla casa di un anziano senatore, il pugnale che la donna che ella era divenuta aveva sempre saputo di dover usare. E quella notte non v’era dubbio su chi ci sarebbe stato dal lato della punta della lama.

Quando Cassio si rilassò di più, il mento gli cadde contro il petto e io con calma  spostai la mano destra ad afferrare l’impugnatura d’argento, estraendola lentamente dal suo nascondiglio...

Marcello si precipitò nella stanza. Il legato sembrava in preda al panico e mi fece  trasalire così violentemente che quasi feci cadere il pugnale. Riuscii in qualche modo a mantenere la presa e anche a nasconderlo a Marcello, usando il corpo di Cassio come scudo.

- Cassio! - gridò. - C’è qualcosa che non va. Due degli uomini che sorvegliavano Massimo sono fuggiti dall’accampamento questa sera... - Si fermò bruscamente quando mi vide in piedi dietro Cassio. - Bene, bene... forse qui c’è qualcuno che ci può dire cosa sta succedendo. Massimo, sembra, non è ancora stato visto oggi, e ho udito che tu eri con lui la scorsa notte, nella sua tenda.

Cassio fece per girarsi verso di me, ma io fui più svelta e gli affondai il pugnale nella giugulare, fino all’impugnatura, producendo una nauseante, sonora vibrazione che percorse la lunghezza del mio braccio, la spalla e il collo. Il sangue sprizzò con un ampio arco e inzuppò le carte sotto le mani di Cassio, e imbrattò anche le mie mani e le mie braccia, le gocce cremisi brucianti sulla mia pelle fredda. Poi la testa gli cadde sulla scrivania con un tonfo.

Marcello era troppo stupito per muoversi, e mi guardava con occhi spalancati, la bocca inerte. Poi balbettò qualcosa, poteva essere una preghiera, una bestemmia o un grido d’aiuto, ma si perse nel momento in cui la sua testa venne fatta girare con rapido gesto ed il suo collo fu spezzato dal pretoriano ammantato di nero che si materializzò dietro di lui. Le sue ossa si spezzarono con lo stesso suono con cui si rompe un ramo secco. Massimo lasciò scivolare lentamente sul pavimento il corpo del legato, gli occhi azzurri su di me, ancora ferma dietro la scrivania di Cassio, e con calma restituii il suo sguardo.

Ci guardammo per un momento. Poi, con semplice inevitabilità, parlai.

- E’ morto.

- Lo vedo, - disse Massimo scavalcando Marcello e lentamente, cautamente, si mosse verso di me, pronto a saltarmi addosso se fossi impazzita. - Non è andata esattamente come progettato, - soggiunse, senza mai distogliere i suoi occhi dai miei.

- Dovevo farlo.

Massimo annuì.

- Lo capisco. Ma adesso abbiamo un problema. Dobbiamo fare in modo che sembri che sia stato Marcello.

Lo capiva?

Per l’Ade, che cosa capiva lui?

La schiavitù? Era il figlio di un umile contadino ispanico eppure non aveva conosciuto altro che la libertà. Si era liberamente arruolato nell’esercito invece di lavorare la terra come suo padre e suo nonno, e aveva fatto carriera dai ranghi più umili al suo alto comando, aveva beneficiato della cittadinanza romana, dell’adozione in una famiglia senatoriale e del favore del suo imperatore.

La prostituzione?

Era un uomo e gli uomini governano il mondo. Senza di loro, quelle come me non sarebbero esistite. Gli uomini vanno in guerra a beneficio loro o di quello dei loro governanti e rendono schiavi quelli che non massacrano. Sono coloro che stuprano le mogli, le figlie e le sorelle dei loro nemici sconfitti o che le prendono come concubine e generano su di esse i loro bambini, solo per abbandonare le une e gli altri a seconda degli ordini e delle nuove postazioni militari o perché cadono in battaglia. Sono coloro che impongono le loro attenzioni alle donne che comprano al mercato degli schiavi o attirano nei loro letti ragazze mezze morte di fame con la promessa del loro oro. O, come Cassio, hanno i loro bordelli privati per il loro uso personale o per quello dei loro amici.

La solitudine?

Aveva una moglie che lo amava e un figlio che perpetuava il suo nome ed era abbastanza giovane da generarne molti altri. Aveva l’amore del suo imperatore e la fiera lealtà dei suoi uomini. Conosceva la felicità... la semplice, umana felicità e aveva altri con cui condividerla.

L’uccidere?

Naturalmente aveva ucciso, e lo aveva fatto molte volte, probabilmente molte più di quante ne potessi immaginare. Ma uccideva nemici senza volto, i nemici del suo imperatore, i nemici di Roma e di tutto ciò che Roma rappresentava.

Io, invece, ero nata schiava, ero stata obbligata a prostituirmi, per tutta la vita ero stata sola quanto è possibile esserlo, e avevo ucciso l’uomo che mi aveva condannata alla schiavitù e alla prostituzione e alla solitudine... e che, per quanto ne sapevo, poteva essere il mio stesso padre.

Che cosa poteva capire il generale Massimo Decimo Meridio?

Sospirai.

- Tu puoi andartene, Massimo. Dirò che ho visto Marcello uccidere Cassio, così io ho ucciso Marcello.

Massimo guardò il corpo contorto del legato che giaceva scomposto ai suoi piedi.

- Non penso che qualcuno crederà che tu possa spezzare il collo di un uomo, Giulia, - disse con calma, la voce gentile rilassante, come se temesse che qualcosa si spezzasse dentro di me e che impazzissi. Cercai di mormorare una rassicurazione, di dirgli che stavo bene, ma invece ondeggiai leggermente. Il viso di Massimo mostrò più che un po’ di preoccupazione. - Gulia, non svenirmi adesso, - sussurrò in fretta. - Dobbiamo finire questa cosa. Sii forte.

Forte?

Non ero forse stata nient’altro che forte da che ricordassi?

Deglutii a fatica e annuii.

- Ecco, passa da qui, stai molto attenta ad evitare il sangue sul pavimento. Non toccarlo coi piedi o con la tunica, - disse Massimo allungando la mano verso di me.

Feci come lui chiedeva, lasciando che assumesse il controllo e concentrandomi solo sull’eseguire i suoi ordini, non osando guardare il cadavere scomposto sulla scrivania, col sangue che copriva il legno e andava ad inzuppare il sottostante tappeto intarsiato.

Per un breve istante pensai come sarebbe stato oltraggiato il senso dell’ordine di Cassio se avesse visto il suo tappeto rovinato senza speranza. Ma era troppo tardi per i rimpianti, così come per lo stesso Cassio non c’era più speranza. Avevo voglia di ridacchiare scioccamente, ma mi obbligai a rimanere calma, non volendo allarmare Massimo che mi stava parlando di nuovo.

- Siediti su questa seggiola mentre io insceno un assassinio, - disse usando il suo mantello per detergermi con delicatezza il sangue dalle dita e dalle braccia, mentre mi guidava alla sedia sul lato opposto della stanza. Appena mi sedetti, entrò in azione.

 Trascinò per i piedi il corpo senza vita di Marcello, quindi se lo issò sulle spalle, passando dietro la scrivania con attenzione. Poi Massimo strinse la mano floscia del tribuno e la usò per estrarre il coltello dal collo di Cassio, assicurandosi che nel procedimento le dita e le braccia di Marcello si coprissero di sangue. Il pugnale si liberò con un suono gorgogliante mentre l’aria soffiava attraverso il buco aperto. In qualche modo, questo suono era peggiore di quello prodotto affondando lo stiletto nel corpo in vita di Cassio. Ansimai, la bile salendomi in bocca così violentemente che pensai di stare per vomitare. Massimo mi lanciò un’occhiata. Sapevo che dovevo essere pallida come una morta, il mio corpo in un bagno di gelido sudore, il sangue rombante nelle mie orecchie.

- Piegati, metti la testa in mezzo alle ginocchia e respira attraverso la bocca, - mi istruì. - Respira lentamente e profondamente. Non svenirmi adesso.

Obbedii divaricando le ginocchia e chinando la testa fino a metterla tra di esse, i miei  capelli lunghi fino alla vita mi ricoprirono il viso e ricaddero sul pavimento, ma io cercai ancora di seguire i movimenti di Massimo, il concentrarmi su di lui rendendomi più facile respirare profondamente e lentamente come mi aveva detto di fare.

Massimo fece cadere il mio pugnale sul pavimento e usò la mano di Marcello per raccogliere il tagliacarte dalla scrivania e inserirlo nell’apertura lasciata libera dalla mia arma. Poi fece cadere Marcello sul pavimento nella vischiosa pozza di sangue e diede al corpo piccole spinte con il piede per assicurarsi che il petto del cadavere ne fosse coperto.

Massimo lanciò una rapida occhiata nella mia direzione per vedere se ero svenuta, ma sebbene la nausea non fosse ancora passata, mi sentivo un po’ meglio, seduta di nuovo eretta. I miei occhi erano ancora su di lui, ma la mia mente andava alla deriva. Stavo pensando a quanto facile, ridicolmente facile, era stato prendere la vita di Cassio. C’era voluto soltanto un pugnale e un semplice movimento della mia mano… e un’intera vita di odio.

Massimo si spogliò in fretta dell’uniforme pretoriana, mostrando al di sotto la sua tunica rossovino umida e sgualcita. Tirò fuori dell’armadio la guardia, che non aveva ancora ripreso conoscenza, e goffamente le rimise addosso l’uniforme, imprecando sottovoce. Poi usò la spada della guardia per squarciare con un taglio profondo il collo di Marcello. Si fermò per un momento prima di gemere con ripugnanza e mormorare:

- Almeno morirai da eroe. - Con un movimento rapido nato da lunga pratica, affondò la spada della guardia nel suo stesso ventre, poi fece cadere l’uomo sopra Marcello, la spada schiacciata tra di loro. Le sue mani erano tinte di sangue e macchie rosse gli striavano la tunica sgualcita. Massimo la usò per pulirsi accuratamente le mani, poi indietreggiò e contemplò la scena, recuperò il mio pugnale, lo pulì e se lo infilò nella cintura prima di afferrare un mantello pesante che Cassio aveva lasciato su una sedia e avvolgerselo intorno al corpo.

Si accovacciò davanti a me e prese le mie gelide mani nelle proprie.

- Giulia, ascoltami, - disse calmo. - Devo andare a lavare via questo sangue e a mettermi una tunica pulita. Aspetta il mio ritorno prima di dare l’allarme, ma se nel frattempo entra qualcuno devi fingere di esserti appena imbattuta nella scena del delitto e di essere svenuta prima di rianimarti abbastanza da riuscire a sederti. Non spiegare niente a nessuno, mi hai capito?

Sentii che un po’ di colore mi era tornato alle guance e le sue mani forte e callose avevano riscaldato un po’ le mie. Non fidandomi della mia voce, annuii e mantenni lo sguardo su Massimo, mentre lui si alzava e si dirigeva verso l’entrata della tenda, per poi scomparire nella notte lasciandomi sola con tre uomini morti.

Rimasi seduta a lungo, semplicemente guardando, i miei occhi fissi su Cassio, le mie mani garbatamente ripiegate. Il silenzio nella tenda era innaturale, le luci delle  lampade ad olio guizzavano creando una danza impazzita di ombre sulle pareti di canapa. Poi, sorrisi. Ma il mio sorriso non era quello falso e mellifluo che avevo imparato ad applicarmi sul viso fin dall’infanzia. Non era il sorriso genuino, giocoso, amorevole che avevo rivolto a Massimo all’ultimo, fatidico festino di Cassio. Era duro e freddo e crudele e non avevo bisogno di uno specchio per sapere che era anche terrificante. Brevemente pensai che la dea Diana doveva sorridere così quando, dopo averli trasformati in cervi, aveva abbattuto con i suoi dardi d’argento quegli uomini tanto sfrontati da osare bramarla nonostante la sua divina verginità.

E poi, parlai. La mia voce era così ferma e calma e la mia mente così lucida che sapevo di essere pazza.

- Lo sai, Cassio? - dissi in tono colloquiale. - Avevi ragione: sono la migliore che tu abbia mai allevata. Che peccato che tu non abbia mai capito di che cosa stessi parlando.

Mi alzai e lentamente mi guardai in giro per esaminare la scena e accertarmi che tutto fosse in ordine. Massimo si era aspettato che diventassi isterica e si era sorpreso che non lo facessi. Mi aveva anche ordinato di dare l’allarme, fornendogli così il pretesto per entrare in azione. Era tempo per entrambe le cose.

Respirai a fondo, aprii la bocca e urlai.

 

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