Diario di Giulia – Capitolo V

La notte nella sua tenda

I singhiozzi squassarono il mio corpo con la stessa forza con cui lo avevano scosso gli spasmi dell’orgasmo. Questo tipo di dolore era tanto nuovo e intenso quanto lo era il piacere che avevo provato poco prima. Non so per quanto tempo piansi. Potevano essere minuti oppure ore o giorni. Mi sembrava di scoppiare, come se il mio cuore stesse per esplodere. Mi sembrava di rincorrere Massimo, lo imploravo di non lasciarmi lì, di non lasciarmi sola, di farmi soltanto rimanere accanto a lui e di potermi abbeverare alla sua gentilezza e forza. Disperatamente, inghiottii l’aria come farebbe un uomo che stia per affogare. Perché io stavo affogando… affogando di dolore, lacrime e crepacuore. Col viso ancora sepolto nelle mani, mi dondolai come una bimba angosciata, cercando di confortare me stessa e fallendo ripetutamente.

Alla fine mi calmai. Il mio respiro si placò e l’angoscioso martellare del mio cuore fu sostituito da deboli tonfi dolorosi. Non potevo rimanere per sempre in quell’alcova. C’erano domande a cui rispondere, un messaggio da consegnare e la sicurezza di Massimo da tenere in considerazione. Concessi a me stessa ancora un po’ di tempo per ricompormi, tuttavia sapevo che con i miei occhi gonfi e arrossati non avrei ingannato nessuno, men che meno Marcello o Cassio.

Mi alzai e barcollai, le gambe quasi venendomi meno. Ma cercai di farmi forza contro lo stordimento, contro il desiderio di sdraiarmi sul divano, appallottolarmi e piangere fino all’incoscienza del sonno. Cercai di farmi forza contro il bisogno impellente di mettermi giù, chiudere gli occhi e restar lì fino a che la morte venisse a me… perché sapevo da lunga esperienza che la morte non sarebbe venuta, non importa quanto la invitassi.

Con un respiro profondo, aprii la cortina ed entrai nella sala principale, scoprendo che molti ufficiali erano già andati via e i pochi rimasti erano sdraiati scompostamente sui divani o svenuti o addormentati. Sperai che il loro russare fosse stato abbastanza sonoro da attutire i miei singhiozzi. Non vi era segno di Massimo o Marcello o Cassio e la maggior parte delle donne era tornata ai quartieri degli schiavi. Tenni la testa china per celare le lacrime nei miei occhi e mi affrettai ad uscire dalla tenda.

La notte era calda e umida come lo erano molte notti d’estate in Moesia. Avevo fatto solo pochi passi verso gli alloggi delle donne, che il mio braccio destro fu preso in una morsa d’acciaio e io fui fatta voltare rapidamente. L’impeto mi mandò a cozzare contro il largo petto di Marcello. Trasalii e distolsi il viso.


- Perché ci hai messo tanto, Giulia? - domandò sottovoce. - Il generale Massimo ha lasciato la festa già da molto tempo.

- Io… mi dispiace, - balbettai, sempre nascondendogli il viso. - Io… avevo bisogno di un po’ di riposo. Mi sento poco bene.

Marcello non era certo comprensivo. Non era quel tipo d’uomo.
- Hai fatto come ti ho detto? - mi chiese bruscamente. Annuii. - E? Che cosa ha detto? - Inspirai a fondo e ripetei il messaggio di Massimo. Quel che dissi sembrò fargli piacere perché allentò la sua stretta. - Sei sicura? - volle sapere.

- Sì. Ha detto che devi fargli sapere quando hai intenzione di fare la cosa, mandandogli un messaggio tramite Claudio, - sussurrai.

Marcello mi lasciò andare il braccio e io barcollai di nuovo. Mi guardò con aria interrogativa, poi mi prese il mento con la mano e mi costrinse a guardarlo.
- Che c’è, Giulia? - chiese, gli occhi scuri che mi esaminavano attentamente il viso. - Hai pianto?

Cercai ancora di allontanare il viso ma non ero forte come lui.
- Ti ho detto che non mi sento bene… Ho fatto quel che mi hai chiesto. Ora, ti prego, lasciami andare.

Lo fece e io mi voltai e mi diressi ai quartieri degli schiavi, ma non abbastanza in fretta da evitare di udire la sua risata e il suo ultimo commento.
- Uno di questi giorni mi dovrai dire che cosa ti ha fatto, da scombussolarti tanto. Credevo che avessi superato da molto la vergogna e le lacrime, Giulia! Forse ti ha insegnato qualche nuovo giochetto?

Strofinare il sale su una ferita aperta è la forma più comune di tortura e so che è anche molto efficace. Le parole di Marcello furono molto più dolorose di grani di sale strofinati sul mio cuore sanguinante… Corsi verso gli alloggi delle donne. Attraversai di corsa il pretorio e ne superai i cancelli, cogliendo di sorpresa le guardie assonnate. Inciampai e caddi, mi rialzai e continuai a correre. Corsi superando file di tende bianche e attraversai le porte dei nostri alloggi, una costruzione confortevole di pietra e legno che includeva i nostri dormitori e bagni e anche i quartieri delle giovani schiave che ci prestavano assistenza. Irruppi dalla porta e mi fermai bruscamente quando la mezza dozzina di donne che erano rimaste nella sala comune chiacchierando e facendo pettegolezzi, si voltarono a guardarmi.

Non tralasciava mai di sorprendermi, il fatto che amassero tanto chiacchierare, che sembrava avessero tanto di cui parlare. Io raramente cercavo la compagnia umana, desiderando invece la solitudine e la pace, rifiutando di condividere con loro i pochi momenti che avevo per me stessa. Le altre donne lo sapevano e accettavano la mia decisione, come accettavano il mio giudizio quando riguardava la conduzione dei nostri quartieri. La nostra era una strana amicizia.

Adesso, tutte mi stavano guardando con espressioni sorprese, gli occhi spalancati, le bocche socchiuse. Io rimasi sulla porta, le mani strette al petto, il respiro irregolare. Poi, Eugenia venne da me. Era una straordinaria brunetta, di quattro o cinque anni pù vecchia di me, gli occhi come splendidi smeraldi, la pelle di seta di un piacevole tono bronzeo.
- Giulia… - chiese esitante. - Giulia, che c’è? Che succede? Stai bene?

Feci di no con la testa, poi mi morsi il labbro e alzai una mano per non farla avvicinare. Arianna interloquì.
- Che le succede? L’ultima volta che l’ho vista sembrava tutta felice e contenta con quel bel generale ispanico.

Era più di quanto potessi sopportare. Con un singhiozzo strozzato andai verso la mia stanza. Eugenia cercò di fermarmi. Era un donnone e mi afferrò facilmente per le spalle, scuotendomi leggermente.
- Giulia, - mi esortò, - che cosa c’è? - Io guardai nei suoi occhi di smeraldo, con occhi che sapevo dovevano essere selvaggi e di nuovo scossi la testa. - Giulia… - insisté lei con voce bassa e pressante.

Qualcosa si ruppe dentro di me. Mi liberai con una scrollata e urlai:
- Lasciatemi stare! - Corsi via ancora urlando. - Lasciatemi stare!

Entrai nella mia stanza e chiusi la porta, appoggiandomii contro di essa. Le altre donne dovevano condividere ogni stanza in due o tre ma, essendo la signora della casa delle schiave e la favorita di Cassio, mi godevo il raro lusso di averne una tutta per me. Era piccola ma confortevole, ammobiliata con un divano, un tavolo, una sedia e uno sgabello, uno stipo e un armadio e le mie cassepanche. Avevo persino uno specchio, un foglio di bronzo lucidato montato sul tavolo dove ardevano due lampade.

- Padrona Giulia? - La vocina mi fece trasalire. Mi voltai e vidi la ragazzina che mi faceva da governante. Non aveva più di dieci anni ed era nera come l’ebano, con una profusione di riccioli in cima alla testa, Aveva grandi occhi rotondi e una bocca imbronciata che avrebbe potuto essere bella se non fosse stato per la brutta cicatrice provocata dal colpo di un insensibile mercante di schiavi. Si chiamava Rufa e dal suo aspetto era probabilmente una numidiana.

- Padrona Giulia, - ripeté nel suo esitante latino gutturale. - Stai bene?

Annuii e mi sforzai di sorridere, consapevole della timidezza di una ragazzina troppo giovane per servire una prostituta e, se tutto va bene, anche troppo giovane per capire che cosa succedeva attorno a lei.
- Sì, piccola, - dissi, con la voce che suonava strana alle mie stesse orecchie. - Che fai qui? E’ tardi… - Parlavo lentamente, perché aveva ancora problemi a capire la lingua dei suoi carcerieri.

- Ti aspettavo per aiutarti, padrona Giulia, - rispose esitante, gli occhi spalancati dall’aria spaventata che sempre li tormentava, malgrado tutte le volte che avevo cercato di convincerla che non aveva nulla da temere da me.
- Non avrò bisogno del tuo aiuto, stanotte, piccola. E non chiamarmi “padrona Giulia” perché non sono tua padrona, ma tua sorella. Ti ho detto e ripetuto che sono una schiava come te.

Rufa si accigliò, confusa dalle mie parole, parole che non avevano alcun senso per lei. Sospirai.
- Vai a dormire, Rufa, - dissi, ansiosa di esser lasciata sola.

- Ma, padrona Giulia, ho portato l’acqua profumata per te per… - Si bloccò a metà della frase, chiaramente scossa dalla mia espressione.

- Vattene! - dissi con voce strozzata. Quando non si mosse, ringhiai, - Via! Adesso!

Corse fuori dalla stanza. Rimasta sola, mi avvicinai lentamente al tavolo e mi sedetti sullo sgabello di fronte ad esso, come facevo sempre quando mi preparavo per andare dagli uomini da cui venivo mandata. Evitai di guardare il mio riflesso nello specchio, sapendo che il mio viso doveva essere pallido, i miei lineamenti tesi, il mio sguardo selvaggio. Al contrario, abbassai gli occhi sulla mia fine tunica di seta e vidi che era sporca di terra. Immediatamente pensai a Turia e a come fosse solita sgridarmi quando ero piccola e mi sporcavo gli abiti eleganti nascondendomi nei giardini della villa di Cassio. Turia… L’ultima volta che la vidi, trascorreva i suoi giorni sdraiata su un divano, tossendo tutto il tempo, mentre lentamente moriva di consunzione, sola e dimenticata in una stanza sul retro della villa. Era una schiava liberata ed era stata l’“amica” diligente di Cassio. Aveva provato per lui quello che io adesso stavo provando per Massimo? Anche lei era stata rifiutata alla fine, come lo ero stata io? Scossi la testa. Non pensavo a Turia da molto tempo. Improvvisamente, desiderai che fosse lì. Desiderai poterle chiedere…

Mi alzai e cominciai a spogliarmi. Rufa mi aveva portato un bacile d’acqua profumata, una pezzuola da bagno ed un telo, come l’avevo istruita di fare ogni volta che lasciavo i quartieri per andare da un uomo. Acqua profumata, pezzuola da bagno ed un telo per ripulire i ricordi dell’accoppiamento. Tuttavia quella notte non vi erano ricordi da cancellare, ma da tener cari: l’odore muschiato e mascolino di Massimo, la sua calda bocca rovente, la sua voce sensuale, le sue braccia intorno al mio corpo, il suo ampio petto ed i suoi muscoli saldi, la sua carne dura come roccia che premeva contro di me…

Finii di svestirmi e indossai la sottile camicia da notte che Rufa aveva lasciato per me sul divano. Poi andai ad una delle cassapanche in cerca di una veste, perché nonostante il caldo, io avevo freddo. Quando rovistai, le mie dita sfiorarono lo stiletto ivi nascosto e lo estrassi, tornando a sedermi al mio tavolo. Girai e rigirai il pugnale tra le mani, affascinata dal luccichio del metallo freddo sotto la luce dorata delle lampade ad olio.

Da schiava bambina cresciuta nella villa di Cassio, non avevo mai avuto una bambola. Ne desideravo una tanto intensamente quanto desideravo una madre, ma le schiave non hanno né infanzia né giocattoli. Una volta mi feci una bambola con erba e fiori presi dai giardini e pezzi di stoffa presi dai miei stessi indumenti. La nascondevo sotto un cespuglio fitto e correvo là a giocarci appena potevo. Ma l’erba e i fiori avvizzirono e la mia bambola cadde a pezzi. La riparai molte volte, ma un giorno arrivai al nascondiglio solo per scoprire che non c’era più per sempre, il giardiniere probabilmente l’aveva trovata e l’aveva gettata via con i rifiuti. Quella sera piansi fino a cadere addormentata.

Negli anni a venire avevo tenuto cara una cosa soltanto con la stessa passione con cui avevo tenuta cara la mia bambola d’erba, ed era il pugnale d’argento che ora avevo in mano. Si trovava là, sul tavolo, vicino al letto in cui il senatore mi aveva usato violenza. Lo aveva usato per sbucciare la frutta che mi aveva imboccato e poi mi aveva dato una bambola, una bambola bella come non ne avevo mai viste. Era un bell’uomo, i ricci capelli castani macchiati d’argento, gli occhi nocciola sorridenti e benevoli. Eppure aveva accettato il regalo di Cassio, il primo di una lunga lista.

Ero stata istruita di andarmene mentre dormiva e silenziosamente scivolai dal suo letto e dalla camera, trasalendo quando il mio corpo dolorante mi ricordò quello che quell’uomo mi aveva fatto… ma non prima di prendere il pugnale e nasconderlo negli abiti della bambola. Quella notte non piansi e la mattina dopo gettai la bambola in un canale di scarico. Non avevo più pianto, non fino a questa notte, quando le mie difese erano crollate e il mio corpo si era librato in uno sconosciuto regno di piacere. Rigirai ancora lo stiletto tra le mani, sempre stregata dal suo luccichio. Poi lo presi nella mano destra e posai la sinistra sul tavolo, voltandola per esporre il mio polso. Le vene blu pulsavano uniformemente sotto la pelle quasi trasparente… Tagliarsi le vene era sempre stato il metodo romano preferito per suicidarsi, sebbene alcuni preferissero bere pozioni avvelenate e gli ufficiali d’alto rango spesso scegliessero di pugnalarsi. Ho sentito dire che tagliarsi i polsi, morendo così dissanguati non è una morte dolorosa, ma serena… come lo sono tutte le forme di morte, una volta che le accetti. Come in sogno, vidi la mia mano destra avvicinare la lama al mio polso e delicatamente posare la punta sulla tenera pelle. Poi, vi tracciai una linea attraverso, e piccole gocce di sangue si formarono immediatamente lungo una sottile linea rossa. Stranamente distaccata, pensai che non v’era dolore in ciò che stavo facendo, e ovviamente nessun male. Posizionai di nuovo il pugnale e questa volta premetti un pochino. Il sangue fuoriuscì in un rivoletto e scorse lungo il polso e sopra il tavolo… ancora nessun dolore e ancora nessun serio danno. Mi feci forza per tagliarmi il polso in un sol colpo.

La porta si spalancò con uno schianto.

- Giulia! - Eugenia era senza fiato, il petto ansimante.

In silenzio alzai la testa e lasciai andare lo stiletto. Cadde sul pavimento, e il tappeto attutì il rumore.
- Cosa…?

- Giulia, c’è una guardia che chiede di te! Abbiamo cercato di fermarla ma dice che ha l’ordine di portarti da… - Eugenia fu spinta rudemente da parte dall’uomo armato in uniforme, che aveva trovato la mia stanza.

- Tu! - disse con la voce tonante che si addice ad un  soldato romano. - Vieni con me!

Mi alzai e mi avvolsi in fretta il telo da bagno attorno alla vita.

- Dove la porti? - indagò Eugenia.

L’uomo si limitò a ringhiare.
- Sta’ zitta! - e mi tirò per il braccio sinistro, trascinandomi con sé mentre io mi stringevo la veste sui seni.

Mi trascinò per l’accampamento e dentro il pretorio. Sebbene fossi abituata a ricevere ordini da tutti, non ero mai stata trattata in quel modo. Pensai che Cassio avesse scoperto la verità su Marcello e sul mio ruolo nel complotto. Non gli sarebbe importato che mi fosse stato ordinato dal suo legato. Era un uomo implacabile e mi avrebbe messa a morte senza badare alle mie dichiarazioni d’innocenza. Non avevo paura di morire… solo ero delusa che la guardia non fosse arrivata qualche minuto dopo: almeno avrei potuto privare Cassio dell’opportunità di uccidermi, io che ero sempre stata costretta a sottomettermi alla sua volontà.

Ma la guardia non mi portò alla tenda di Cassio. Invece, mi trascinò oltre di essa e in un’altra. I miei occhi si spalancarono quando vidi Massimo in piedi vicino all’entrata, chiaramente in attesa del mio arrivo. La guardia mi gettò rudemente nelle sue braccia ed egli annuì al soldato in segno di ringraziamento, poi mi sollevò agevolmente da terra passandomi un braccio sotto i seni, portandomi attraverso l’ingresso vicino al suo letto, prima di mettermi giù, tenendomi ancora fermamente nella sua stretta.

Non mi ero spaventata pensando di essere portata da Cassio, ma ora, guardando il viso di Massimo, ero più atterrita di quanto lo fossi mai stata in vita mia.
- Massimo… - Le parole mi si strozzarono in gola quando sentii la punta acuminata di un coltello sotto l’orecchio. I suoi occhi non erano più gentili, ma pozze di ghiaccio azzurro. Ma ancor più agghiacciante era il suono della sua voce quando mi ringhiò nell’orecchio.

- Bella interpretazione, stasera, Giulia.

- Massimo, non capisco. - Tutto il mio corpo tremava.

- Abbassa la voce o ti taglio questa gola graziosa.

Cercai disperatamente di mitigare il suo atteggiamento.

- Sapevo che ti saresti sentito frustrato, ma questo...

- Sta’ zitta e fai come ti dico. Descrivimi Claudio.

Claudio? Di che cosa stava parlando? Lo guardai negli occhi ma non mi dissero nulla, Siccome esitavo, premette un poco la lama del coltello e io trasalii.
- Non l’ho mai visto.

Con la coda dell’occhio, vidi una delle guardie tirare un poco da parte la pesante cortina e far capolino, evidentemente interessato a guardare le prodezze sessuali del generale… o forse quelle della sua puttana.

- Fuori! - abbaiò Massimo senza nemmeno voltarsi, senza che gli occhi duri freddi lasciassero i miei. Il tono della sua voce era tagliente come la lama del coltello che mi premeva contro la carne e io trasalii come se lui mi avesse colpita. La cortina ricadde al suo posto e Massimo continuò l’interrogatorio. - Chi ha disposto che ti incontrassi con me stasera?

- Marcello.

- Marcello. E’ davvero un tribuno, Giulia?

Piansi sommessamente, terrorizzata dall’improvvisa brutalità di Massimo. Non era più l’uomo appassionato che mi aveva baciata alla festa di Cassio e nemmeno l’uomo che aveva condiviso con me l’oscurità rovente dell’alcova. Quest’uomo era un pericoloso e completo estraneo, un uomo che senza dubbio riusciva a minacciare, infliggere dolore e uccidere. Un uomo che non avrebbe esitato a fare ognuna di queste cose.

- Sì, sì. E’ uno dei consiglieri più vicini a Cassio.

- E ti ha suggerito lui che cosa dire?

- Io ti ho solo ripetuto esattamente quello che lui mi ha detto di dirti. Generale, che cosa c'è che non va?

Il petto di Massimo si gonfiò di rabbia e il suo respiro suonò aspro nel mio orecchio. Ruggì:
- Claudio non è Claudio.

- Che cosa?

- Conosco Claudio dalla Germania e l’uomo che afferma di essere lui non gli assomiglia per niente. Claudio è... era... di media corporatura e biondo. Quest’uomo è tozzo e senza capelli.

Riconobbi immediatamente l’ufficiale che stava descrivendo.
- E’ Balbino, - dissi. - E’ un tribuno amico fedele di Marcello. Massimo... che cosa sta succedendo?

- Non lo so. Ma tu ne fai parte.

Parte di cosa?

A poco a poco i tasselli del mosaico andarono a posto. C’era qualcosa che non andava nel messaggio che mi era stato ordinato di riferire. Massimo aveva scoperto un complotto nel complotto… e sospettava che io ne facessi parte. Lo guardai negli occhi, proclamando silenziosamente la mia innocenza… ma i suoi occhi non mi restituirono altro che un cipiglio di gelido odio che mi diede i brividi, tanto quanto me li aveva dati il suo sguardo eccitato poco tempo prima. I miei occhi si offuscarono di nuovo. Era una buona cosa. A causa del coltello non potevo allontanare il viso senza ferirmi, ma non riuscivo nemmeno a continuare a guardare il suo viso infuriato.
- Ti prego... Io ho solo trasmesso il messaggio, Massimo. Non faccio parte di alcuna cospirazione contro di te. - Stavo piangendo in silenzio, adesso, come si piange quando si è troppo sfiniti per implorare o sperare. - Credi che potrei farti questo?

- Credo che tu possa fare qualunque cosa voglia. Che bella recita hai messo su per me, stasera, - disse aspramente, con un pericoloso tono ringhioso.

Volevo protestare, affermare la mia innocenza… a che scopo? Mi conosceva per quella che ero, una schiava ed esperta puttana, e le schiave e le puttane sono note per essere bugiarde. Eppure sentivo il bisogno di convincerlo che non avevo nulla a che fare con qualsiasi complotto ma avevo solo riferito il messaggio che mi era stato detto. Gli posai una mano tremante sul pugno che mi teneva il coltello alla gola e gli offrii quel poco che potevo offrirgli: la verità, la più dolorosa intima verità che avevo mai dovuto affrontare o rivelare.
- Non era una recita, Massimo, - sussurrai, gli occhi offuscati dalle lacrime non versate.

Egli lasciò che la mia mano allontanasse il coltello e non si mosse quando arretrai e mi voltai ad affrontarlo, stringendomi le braccia attorno al corpo e cercando di reprimere i singhiozzi che mi sfuggivano dalla gola nonostante tutti i miei sforzi di soffocarli. Chinai la testa e i miei lunghi capelli ramati mi nascosero il viso abbassato.
- Non volevo... non... io... - balbettai tra i singhiozzi.

Massimo sospirò con impazienza, infilò il coltello nella cintura dietro la schiena e cercò di prendermi tra le sue braccia, mentre io mi opponevo e mi contorcevo per allontanarmi da lui. Ma Massimo non accolse il mio rifiuto; insistette e io gradualmente mi lasciai andare contro di lui, mentre lacrime di sollievo ed angoscia e struggimento fluivano liberamente. Posai la testa sulla sua spalla e piansi finché le mie lacrime gli bagnarono la tunica color vino, mentre mi accarezzava e mi calmava come se fossi sia la bimba spaventata che non aveva mai avuto una bambola, sia la donna adulta disperatamente sola. Ed ero stata entrambe, e quella che ero in quel momento trovava calore, conforto e sicurezza nelle sue forti braccia.

Per un lungo momento, l’unico suono nella tenda fu il mio singhiozzare. Poi, Massimo mi sussurrò nei capelli, con tono di scusa:
- Mi dispiace. Ti ho fatto piangere molto, stasera. Non so di chi io possa fidarmi, Giulia, o chi stia cercando di tendermi una trappola. E non so qual è il tuo ruolo in questo piano.

La sua bella voce profonda mi cullava e io mi sentivo sciogliere contro il suo corpo.
- Nessuno si fida di me, Massimo. Io vengo semplicemente usata... come messaggero, come strumento di piacere. Io non faccio altro che servire i bisogni degli uomini. Nient’altro. - Mi ritrassi  per guardarlo negli occhi. - Se pensassi di aver fatto qualcosa che possa averti nuociuto... anche inavvertitamente... non potrei vivere con una tale colpa.

 

- Non l’hai fatto. Vieni qui e siediti. - Massimo mi prese per mano e mi portò fino al letto, dove sedemmo fianco a fianco, vicini ma senza toccarci. - Non ti avrei mai fatto del male con quel coltello, - disse con un piccolo sorriso.

 

Non potei fare a meno di restituirgli il sorriso attraverso le lacrime.
- Be’, sembravi molto convincente, - dissi. - Sai essere terrificante, quando vuoi.

 

- Lo so. Talvolta si rivela utile. - Abbassò la voce ad un bisbiglio. - Giulia, ho bisogno del tuo aiuto.

 

- Come ti posso aiutare?

 

- Devo uccidere Cassio e fare in modo che sembri che sia stato uno dei suoi uomini a farlo.

 

- Perché uno dei suoi uomini?

 

- Perché se lo uccidessi io, non uscirei vivo da qui, e nemmeno i miei uomini. Ma se i soldati di questa legione credessero che è stato uno di loro a ucciderlo, ciò li getterebbe in una confusione tale da permettere ai sostenitori di Marco Aurelio di raccogliere le forze per poter prendere il controllo... con il mio aiuto, naturalmente.

Egli fece una pausa mentre io mi accigliavo, e mi lasciò il tempo di comprendere quello che aveva detto, prima di aggiungere:
- Mi aiuterai?

 

Io annuii.
- Sai che lo farò. - Feci una pausa, poi chiesi. - Ti fiderai di me?

 

- Sì.

 

- Ne sei sicuro? Non voglio più essere trascinata qui con un coltello alla gola.

 

Massimo sorrise al mio tono scherzoso e io mi chiesi fugacemente che cosa c’era in lui che perfino di fronte al pericolo mi rendeva allegra e vivace come non ero stata mai.
- Non posso darti torto, - disse, contrito come un ragazzino colto sul fatto.

 

- E riguardo il complotto contro di te? Anche tu sei in pericolo, ricordi? - chiesi.

 

- Balbino mi ha avvisato di non andare a cavallo fuori dell’accampamento più tardi. Forse Cassio intende lasciare l’accampamento, dopo avermi spaventato per farmi rimanere qui, dove io sarò convenientemente morto, per quando lui sarà rientrato, così che le sue mani resteranno impeccabilmente pulite.

 

Rabbrividii alla sola idea della sua morte. Massimo si accorse della mia preoccupazione.
- Devo solo ostacolare i suoi piani, - disse Massimo con disinvoltura, posando la sua grande mano coperta dai calli prodotti dalla spada sopra le mie, coprendole completamente. - Hai familiarità con le abitudini di Cassio?

 

Giulia annuì. - Fin troppa...

 

- Descrivimele affinché io possa decidere quando e dove farlo. - Io sospirai. Non potevo sottrarmi.

 

Massimo m’interrogò per più di un’ora facendomi ripetere più volte ciò che sapevo delle abitudini di Cassio. Era un inquisitore impietoso e io provai compassione per i suoi nemici. Più di una volta distolsi i miei occhi dai suoi, quando le informazioni che gli stavo dando non lasciarono alcun dubbio sul grado d’intimità che avevo con l’uomo che voleva uccidere. Quando ciò avveniva, Massimo distrattamente mi tirava indietro un ricciolo di capelli e io mi chiesi ancora se almeno si accorgeva che mi stava toccando… che sembrava incapace di controllare il suo desiderio di toccarmi… Quando finii, Massimo rimase in silenzio per un momento poi si passò la mano sugli occhi stanchi e dietro il collo, un gesto che ormai mi era molto familiare anche se lo conoscevo solo da poche ore.

 

- Giulia, - disse. - Devo uscire da questa tenda e parlare con i miei uomini e devo farlo prima che albeggi. Credo che potrei strisciare fuori, ma ho bisogno di un nascondiglio fino al momento d’agire e non posso restare con la mia cavalleria perché non appena si accorgeranno che non ci sono più mi cercheranno nei loro quartieri. E devo stare all’interno dell’accampamento per poter agire. C’è qualche posto in cui possa nascondermi?

 

Mi accigliai e strinsi le labbra mentre pensavo alla richiesta di Massimo, il suo sguardo fisso sul mio volto. C’era un solo luogo in cui potevo nasconderlo e che allo stesso tempo era abbastanza vicino da aiutarlo.
- I quertieri delle donne, - dissi. - I nostri alloggi sono nell’estremità posteriore dell’accampamento, una grossa costruzione di pietra e legno. C’è una porticina sul retro usata dalle schiave per andare a lavare la biancheria al fiume. La troverai facilmente. E’ sbarrata dall’interno, ma la terrò aperta aspettandoti là.

 

Massimo annuì.
- C’è qualche posto all’interno in cui io possa nascondermi? Una cantina forse? - chiese.

 

- No, - dissi. - Solo i nostri dormitori e bagni e gli alloggi delle schiave inferiori.

 

Egli sospirò.
- Dovrà bastare. Che mi dici delle altre donne?

 

- Lasciale a me. Faranno come dirò loro… odiano tutte Cassio.

 

Massimo annuì ancora.

- Sarò lì un’ora dopo che te ne sarai andata. Penseranno che stia dormendo troppo e non si accorgeranno per ore della mia assenza. Aspettami alla porta sul retro.

 

Annuii, la mente che galoppava al pensiero delle implicazioni di quel che stavo per fare. Di quel che dovevo fare.

 

- Giulia, - Massimo mi sfiorò gentilmente la guancia. - Voglio che tu capisca quanto questo sia pericoloso. Le cose possono andar storte e potrei non riuscire a proteggerti.

 

Proteggermi? L’unica volta in cui ero stata protetta era stato quando Cassio aveva negato ai suoi amici il permesso di deflorarmi ad uno dei suoi festini.
- Lo so, Massimo. E non devi preoccuparti per me. Mi andrà bene, - sussurrai.

 

Massimo sorrise e gentilmente mi prese le mani nelle sue, quelle grandi, calde mani, capaci di dare sia morte che conforto, di far scorrere sangue e di accarezzare. Poi, si portò le mie mani alle labbra e dolcemente mi baciò le dita, le sue labbra calde, la barba che leggermente mi sfregava la pelle. Era il mio turno di sorridere, ma le mie labbra tremarono e inghiottii rumorosamente. Massimo alzò la testa e mi guardò negli occhi, sempre tenendomi le mani, i pollici che mi accarezzavano distrattamente i polsi. Si fermò di colpo e portò a sé la mia mano sinistra, girandola per esaminare la fasciatura.

 

- Massimo… - cominciai, cercando di sottrarre la mano. Ma non me lo permise e spinse via la mia veste per esaminare la fasciatura che non c’era quando mi aveva vista la prima volta: era macchiata di sangue. Massimo alzò la testa per guardarmi direttamente negli occhi.

 

- Che cos’è questa? - scattò in tono per niente gentile. Io mi feci forza per affrontare la sua collera.

 

- Niente, - dissi. - Un incidente…

 

- Che cos’è questa? - ripeté, la voce bassa, il tono mortale. Quando non riuscii a rispondere, mi strappò la fasciatura e avvicinò il mio polso alla luce per esaminarlo meglio. Trattenni il respiro. La sottile linea rossa infiammata sulla mia carne parlava da sé. Il suo rude trattamento aveva riaperto più in profondità la ferita che mi ero inflitta un po’ più in basso. Il sangue fluì in un rivoletto, imbrattandogli le dita callose.

 

Massimo girò verso di me il viso ora incollerito.
- Per l’Ade, che stavi cercando di fare? - ringhiò. Cercai di nuovo di sottrarre la mano ma con lui era impossibile. - Che stavi cercando di fare? - ripeté. Era furioso, gli occhi azzurri scintillanti d’ira letale… E anch’io stavo cominciando ad infuriarmi. Ad infuriarmi amaramente.

 

- Che te ne importa di quel che stavo cercando di fare? - risposi seccamente. - Non sei il mio padrone! Se mi uccido, non ti derubo di un costoso pezzo di proprietà! Che te ne importa se vivo o muoio?

 

Egli trasalì come se lo avessi colpito, ma si riprese subito. Mi afferrò gli avambracci, le mani come morse d’acciaio e mi avvicinò di più a sé, i nostri petti che si toccavano.

 

- Volevi morire, Giulia? - sibilò, scuotendomi finché i miei denti sbatterono, mentre i capelli mi ricadevano sul viso. - Volevi morire? - ripeté.

 

Era troppo. Non potevo sopportare di più. Non quella notte. Non da lui. Scossi il viso per spostare i ciuffi che mi oscuravano la vista e gli sibilai in risposta. - Sì! Sì, volevo morire! Voglio morire da più tempo di quanto io possa ricordare, ma non lo sapevo! Non fino a questa notte! Voglio morire, generale Massimo! Che te ne importa, a te?

 

- Che me ne importa, a me? - ruggì, il tono che si alzava pericolosamente. - Osi chiedermi che me ne importa se tu vivi o muori?

 

- Sì, - sibilai, adesso senza provare alcuna paura come poco prima non avevo provato alcuna vergogna.

 

Massimo mi scosse ancora.
- Lo sai quante persone ho visto morire? Lo sai quanti uomini e ragazzini ho visto implorare gli dei e i medici di non farli morire? - ruggì. - Lo sai quante persone ho ucciso o fatto morire? Lo sai che cosa fanno all’anima di un uomo tutto quel sangue e quelle morti?

 

Si bloccò. Il suo sguardo sconcertato mi disse che aveva detto troppo, che aveva dato voce a qualcosa sepolto nelle profondità della sua anima, qualcosa che lo tormentava. Che non aveva mai confessato ciò a nessuno prima… nemmeno a se stesso. Le sue mani si strinsero dolorosamente sui miei avambracci. Quell’attimo sembrò prolungarsi all’infinito, i nostri sguardi fissi l’uno nell’altro, entrambi trattenevamo il respiro. Massimo abbassò la testa e la sua bocca schiacciò la mia in un bacio duro e punitivo. Risposi al suo bacio con una passione rovente che non avrei mai immaginato fosse possibile. Con un sospiro, socchiusi le labbra invitandolo a entrare nella mia bocca mentre lottavo contro la sua presa d’acciao, col desiderio disperato di toccarlo, di sentire il suo corpo.

 

Bruscamente Massimo strappò la bocca dalla mia e si alzò. Si allontanò, rivolgendomi la schiena. Io mi raddrizzai e mi abbracciai, cercando di fermare il tremito che già era cominciato. Il respiro di Massimo era ansimante quanto il mio. Nella luce fioca, lo vidi stringere le mani a pugno.

 

- Massimo, - mormorai.

 

Egli aprì i pugni e premette sul tavolo vicino le mani distese, con le braccia spalancate e la testa china.

 

- Massimo…

 

- Vattene, - disse con voce piatta.

 

Mi alzai in piedi ma non riuscii a obbligarmi ad andarmene. Non dopo il suo bacio. Non dopo aver saputo che soffriva dentro tanto quanto soffrivo io. Non dopo aver saputo che ci teneva a me. Che quello che ci era successo nell’alcova celata… malgrado il suo diniego… non era stata pura lussuria, ma ciò che tutti desideriamo ardentemente e che pochi ottengono. Cominciai a muovermi verso di lui, ma lui mi fermò di colpo.

 

- Vattene! - ripeté con voce tesa. - Sarò là come stabilito.

 

Distolsi gli occhi da lui.
- Chiama le guardie, che mi riportino ai quartieri delle schiave, - dissi con voce soprendentemente ferma. - Vuoi che sappiano che eri qui prima dell’alba.

 

Massimo annuì in silenzio, poi lentamente alzò la testa, sempre dandomi le spalle.

 

Prima che potesse parlare io aggiunsi:
- Spostati dov’è buio… Si presume che dovessi darti piacere per tutta la notte… Non far loro vedere che non ti sei nemmeno tolto i vestiti.

 

Massimo si raddrizzò e andò in un angolo buio della tenda. Io inspirai a fondo e chiusi gli occhi, preparandomi ad affrontare quel che doveva succedere.

 

- Guardie! - gridò lui nel suo tono di comando migliore. - Abbiamo finito qui!

 

Ma sapevamo entrambi che non era così.

 

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