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Nacqui nella tenuta del generale
Avidio Cassio, schiava allevata per la bellezza e per il piacere del maschio,
come i cavalli si allevano per la velocità o la resistenza. Non ero l’unica.
Eravamo un gruppo di ragazze e giovani donne segregate nella villa di campagna
del generale, a due ore da Roma. Era abbastanza vicina alla città perché Cassio
ricevesse e intrattenesse senza difficoltà i suoi ospiti, ed abbastanza lontana
dagli occhi della moglie. Non che fosse interessata: come la maggior parte
delle mogli dell’alto ceto, avendo fatto il proprio dovere nei confronti del
marito e datigli gli indispensabili figli maschi, la signora non era
minimamente interessata ai luoghi che egli frequentava, fintanto che non arrecavano
vergogna o disonore al loro casato e alla loro famiglia. E, poichè Cassio era
ricco, potente e discreto, non c’era pericolo. Almeno non in quei giorni...
anche se alla fine le cose si rivelarono molto peggiori di quanto la signora
avesse potuto temere.
La nostra guardiana era Turia, una liberta alta e dai capelli scuri, di circa
trentacinque anni, che in giovinezza era stata la concubina di Cassio e che ora
deteneva il potere assoluto tra le mura della villa ed era direttamente
responsabile di noi. Vivevamo appartate, specialmente le bambine, che non erano
ancora pronte per i loro doveri e per sostenere il loro ruolo nei giochi di
potere di Cassio. Siccome non eravamo schiave comuni, il lavoro duro e lo
sfinimento ci erano estranei. Ci avevano allevate per svolgere mansioni che non
avevano nulla a che fare con il pulire o il cucinare o il lavorare la terra, ma
con il compiacere gli uomini: amici di Cassio, alleati politici e militari di
Cassio, potenziali sostenitori di Cassio, ufficiali di Cassio e, naturalmente,
Cassio stesso.
Come ho detto, Turia era la nostra guardiana, ma anche la nostra insegnante, e
conducevamo una vita molto rigida. Negli anni a venire, avrei imparato che la
disciplina senza amore che controllava la nostra esistenza non era molto
diversa da quella che controllava l’esistenza delle vergini Vestali.
Ma ogni rassomiglianza finiva lì: il nostro asservimento non aveva nulla a che
fare con Vesta ma con Venere; la nostra verginità era stimata solo da coloro
che l’avrebbero presa e quando, e non fino a quando l’avremmo mantenuta, e la
nostra utilità sarebbe stata molto più breve dei trent’anni di servizio
promessi dalle Vestali quando prendevano i loro voti. Almeno esse sapevano fin
dall’inizio la data della loro liberazione e la ricompensa che avrebbero
ricevuto, alcune ancora abbastanza giovani, quando sarebbe venuto il momento,
per trovarsi un buon marito e una famiglia dopo tre decadi nel tempio della
dea. Per noi, la conclusione del nostro servizio significava essere tenute nella
proprietà più a lungo, se ci dimostravamo buone fattrici, dando a Cassio belle
ragazze con cui rimpiazzarci… vale a dire, se non morivamo di parto o aborto.
Alla fine, tutto ciò che potevamo aspettarci era di essere relegate a posti
inferiori, dimenticate o vendute.
La mia vita era innaturale quanto la mia nascita. Non l’amore e nemmeno la
lussuria mi avevano generata dai lombi dei miei sconosciuti genitori, ma la
volontà di un uomo implacabile avvezzo a controllare le vite altrui, ad essere
obbedito e soddisfatto nei suoi desideri. Fin da tenerissima età, imparai ad
essere una donna affascinante, una schiava obbediente, un’esperta cortigiana.
Sotto l’inflessibile tutela di Turia, imparai come accrescere la bellezza con
la quale gli dei mi avevano benedetta, come vestirmi, come profumarmi i capelli
e il corpo, come truccarmi, come muovermi, come sorridere, come essere
aggraziata ed elegante, come parlare e quando rimanere in silenzio e,
soprattutto, come soddisfare qualsiasi fantasia di un uomo, non importa quanto
complicata o innaturale. E, naturalmente, mi fu anche insegnato a fingere,
perché ci si aspettava da noi che non soltanto sopportassimo le attenzioni
degli uomini e li compiacessimo, ma fingessimo anche che ci piacesse, non
importa quanto rozzi, incapaci o ripugnanti fossero. Come diceva Turia, non era
affar nostro giudicare, ma lo era farli sentire come degli dèi che aravano
vogliose donne mortali.
Crebbi ascoltando la gente dire quanto ero bella e quanto più bella sarei stata
quando fossi diventata donna. Gli specchi levigati dei bagni della villa mi
mostravano una ragazza alta e snella con lunghi capelli ondulati rosso-oro,
pelle lattea e grandi occhi azzurri. E le occhiate di Cassio quando visitava la
villa tra una campagna militare e l’altra, mi dicevano che su di me avesse più
mire di quanto fosse bene per la mia serenità.
Quando nasci schiava, impari fin da tenerissima età che la tua vita non è tua,
bensì quella che il tuo padrone vuole che sia. Impari anche ad affrontare il
tuo fato nel modo migliore possibile o ti ritrovi nei guai. E, per una schiava,
i guai possono essere molto seri. Perciò, come le altre ragazze cresciute con
me, e quelle che vennero dopo, imparai a obbedire, sorridere, essere amabile,
dar piacere e andare avanti, giorno dopo giorno, fino a dimenticare… o pensare
di aver dimenticato… che c’erano persone che vivevano in modo molto diverso,
persone che andavano dove volevano, che ridevano con sincerità e non per paura
di essere punite, persone che amavano ed erano amate.
Sebbene fossi circondata da molte altre ragazze, divenni una bambina solitaria.
Mi piaceva stare da sola, la solitudine essendo un raro gioiello in una tenuta
come quella. Per quanto possibile, ero solita nascondermi in un angolo lontano
dei giardini della villa o, ancor meglio, nella grande biblioteca in ombra, le
cui pareti erano piene di nicchie che ospitavano centinaia di rotoli che io
toccavo con reverenza, soggiogata dal misterioso potere delle parole scritte
che io non sapevo leggere. In quei posti appartati, mi sedevo a pensare e
sognare. Ero solita sognare di mia madre, cercando d’immaginare l’anonima,
bella donna che mi aveva portata nel suo grembo e messa al mondo. Doveva essere
stata bella, perché tutte noi eravamo belle e forti, le nostre madri
nient’altro che giumente d’allevamento, i nostri padri nient’altro che stalloni
disponibili.
Come piangevo per lei!
A volte, venivamo portate a Roma, poiché Turia pensava che visitare i mercati
ed i bagni nella grande città si confaceva alla nostra formazione nelle arti
del piacere e della perfezione. Quando questo accadeva, mi guardavo avidamente
intorno, assorbendo il più possibile delle vite degli altri. Ed il mio sguardo
era sempre attratto da madri che portavano in braccio i loro bambini. In quei giorni,
quando ritornavamo alla villa, ero solita giacere sveglia nel mio letto per
ore. Chiudevo gli occhi e mi abbracciavo forte, cercando d’immaginare che fosse
lei a stringemi al suo petto. Che ironia che tanti anni siano passati e che io
faccia ancora lo stesso, sdraiata insonne nel mio freddo letto, notte dopo
notte, abbracciandomi e fingendo che sia qualcun altro a stringermi! Ma la
persona di cui sogno adesso non è più la mia povera madre sconosciuta, ma un
rude, affascinante generale romano, dai bellissimi, ed in qualche modo tristi,
occhi azzurri.
Mentre il tempo passava, avevo sempre meno occasioni di isolarmi. Il mio corpo
sbocciò e divenne quello di una giovane donna e Turia ed il medico della tenuta
dichiararono che ero pronta a svolgere i miei doveri. Il medico era un greco di
Alessandria, pagato per mantenerci in buona salute ed immuni dalle conseguenze
delle nostre mansioni... ed anche per liberarcene quando le precauzioni
fallivano, cosa che ogni tanto accadeva. Il suo nome era Andrea e quando ero
piccola una volta mi scoprì nascosta nella biblioteca, in piedi, sbalordita
davanti al tesoro scritto che essa celava. Mi chiese se fossi interessata ai
rotoli e fu sorpreso quando gli risposi che sicuro che lo ero, ma che non
sapevo leggere o scrivere. L’istruzione non viene incoraggiata fra gli schiavi,
a meno che non siano maschi e mostrino eccezionali attitudini che possano
rivelarsi utili ai loro padroni. Andrea mi chiese se desiderassi imparare e io
dissi “Sì!” con un entusiasmo che lo fece ridere. Cominciò immediatamente,
usando un pezzo di papiro che aveva nella sua scatola dei medicinali, e
continuò ad insegnarmi, ogni volta che veniva alla villa, quel po’ di lettura,
scrittura e calcolo che fu la sola istruzione formale che ricevetti quando ero
schiava. Fin da quando padroneggiai le prime nozioni, scappavo in biblioteca
appena potevo, e mi piegavo famelica sui rotoli, cercando di decifrare i loro
segreti, fallendo più spesso che no. Ma a volte riuscivo ad imparare una riga
qua e un’idea là e sorridevo trionfante, sentendomi come se avessi conseguito
un premio meraviglioso.
Mantenni il segreto della mia scarsa istruzione, ansiosa di non guastarne le
meraviglie con la cruda realtà della mia vita quotidiana. La mia verginità fu
il prezzo che Cassio pagò per il favore di un senatore. L’uomo era sui
cinquant’anni e preferiva ragazze molto giovani. E io ero molto giovane, dato
che da meno di sei mesi avevo cominciato a sanguinare come una donna, intorno
ai dodici anni. Fino a quel momento, i miei doveri erano stati imparare le arti
della seduzione e servire il vino agli uomini ospiti di Cassio quando
intratteneva alla villa. Quando lo facevo, sentivo i loro sguardi che mi
seguivano bramosi ed essi spesso chiedevano di me a Cassio, e facevano rozze osservazioni
sulla mia verginità e sui programmi che lui aveva per il mio futuro. Ma Cassio
rifiutò più volte le loro richieste di deflorarmi in uno di quei festini,
l’unica cosa decente che egli fece a mio favore. Tuttavia non era mosso dal
decoro, bensì dal proprio interesse e trattava la mia verginità come un
gioiello che ha un prezzo, persino astenendosi dal prenderla egli stesso. La
diede invece ad un uomo del cui favore aveva un gran bisogno al momento.
Dopo il senatore ci furono molti altri uomini: giovani, di mezza età, vecchi,
alti, bassi, magri, grassi, biondi, bruni, grigi o dai capelli rossi,
raffinati, rozzi, scaltri, arroganti, stupidi, istruiti, ciarlieri, freddi,
cortesi, brutali… così diversi e così simili, tutti pronti ad approfittare della
carne data loro gratis, tutti pronti a godere i piaceri ed a scartare il vaso.
E, sopra tutti loro, c’era Avidio Cassio, che si aspettava che ogni suo
capriccio fosse obbedito senza esitazione e mi reclamava regolarmente come
faceva con le sue schiave speciali e mi preferiva a tutte le altre.
Io soddisfacevo tutti e poi lasciavo il loro letto, perché essi non volevano
trovarmi lì quando si svegliavano, ed io ero riconoscente per quella piccola
misericordia, mi ritiravo nel mio letto dopo aver lavato le loro tracce dalla
mia carne, e andavo a scontrarmi con un pezzo di papiro e la mia ignoranza. Fu
questa lotta quasi disperata che mi mantenne sana di mente e mi aiutò a
cancellare le loro facce dalla memoria, nello stesso modo in cui l’acqua calda
e il sapone cancellavano le prove dell’accoppiamento.
Durante i sei anni successivi, la mia vita fu un girotondo infinito di festini
e uomini e doveri adempiuti in letti senatoriali e brande militari. Ero
abbastanza grande da viaggiare con il mio padrone e lui mi portò, con più d’una
dozzina d’altre donne, nei suoi accampamenti militari. Avidio Cassio era un
generale rispettato, che aveva avuto successo nella guerra in Oriente, a fianco
del precedente imperatore Lucio Vero, ed era tenuto in alta considerazione dal senato
romano.
Quella che sarebbe diventata la sua ultima campagna militare portò lui, e me,
in Moesia, vicino al Mar Nero. E fu in quel luogo così distante da Roma che la
mia vita cambiò per sempre. Cominciò la notte in cui i miei passi incrociarono
quelli del generale Massimo Decimo Meridio, l’uomo che fingo mi stia stringendo
al petto quando da sola mi abbraccio notte dopo notte nel mio freddo letto
deserto.